Per Allen Jones, in Allen Jones, catalogo, Palazzo dei Sette, Orvieto, luglio 2002

Con il trascorrere del tempo, e lo svolgersi dei singoli corsi pittorici, appare sempre più evidente come la generazione britannica cui Allen Jones appartiene, ovvero quella che allineò nei primi anni Sessanta autori come Phillips, Caulfield, Kitaj, Hockney, sia simmetrica, ma concettualmente per molti versi speculare, all’affine compagine statunitense.

Jones, Caught in the Act, 2001

Jones, Caught in the Act, 2001

E’, il suo, al di là dell’enfasi dello stereotipo, sempre un ragionamento sull’immagine, e soprattutto sull’immagine di pittura: non un mero irrompere icastico del Low nell’High, bensì un ragionamento criticistico, lucido, appassionato talora, della pittura sui propri stessi protocolli figurativi. Il lavoro maturo di Jones, reso celebre agli inizi da quelle lunghe gambe femminili su tacchi a spillo smisurati, da quell’erotica delucidata in corpo straniato, è andato sempre più concentrandosi su una sorta di stilizzazione primaria del corporeo, in cui la sensuosità dei corsi lineari, e, più, una sorta di continuo pulsare delle caratterizzazioni cromatiche, prevale largamente su ogni clausola direttamente rappresentativa, mediata o no.

Jones sviluppa una sorta di visionarietà complessa, introversa, una sorta di furor alimentato dal senso di perdita, più che di celebrazione, del corpo. E il colore lo segue: sono rossi e verdi virati verso una sorta di sovratono disagiato, e allo stesso tempo, e talora nelle stesse opere, toni d’arancio e celeste e giallo capaci addirittura di languore, di una non rattratta voluttà. Sono, soprattutto, colori stesi con gestualità intensificata e resa esplicita: nessun à plat, nessuna indifferenza esecutiva, e anzi un lavorio sottile sulle contaminazioni reciproche, sulle trasparenze, sugli addensamenti. Non, dunque, l’antica pienezza da colore litografico, ma un rapporto più fitto con i dilavamenti e le variazioni di consistenza, cui l’esperienza sistematica della gouache e dell’acquerello conferisce suggestioni ulteriori.

Jones, Semi-Quiver, 1997

Jones, Semi-Quiver, 1997

Le trame lineari si dipanano in tarsia, agendo sull’attesa bidimensionale dell’immagine meccanica, ma rileggendo Matisse e certo Fauvisme: articolazioni complesse sino a una spettacolarità in odore di barocco, talora, ma sulla base di una semplificazione nitida, in cui le figure si fanno pure shapes, convenzioni, modi: incapaci di racconto, e forse di una propria corporalità: ma quanto vive nell’evidenza, quanto vibranti di quei complementari tesi, di quegli scambi tra tonalità fredde e calde, tra quei timbri alzati alla cattura della pienezza visiva.

Ebbene, Jones si rivela alla distanza non un ripetitore cinico d’icone, ma un creatore d’immagini che al mondo si rivolgono, anziché derivarne passivamente, immettendovi la propria carica straniata di visionarietà. Non un artista pop: un grande artista.