Accardi
Carla Accardi. Opere su carta 1948-1962, catalogo, Chiesa di Sant’Agostino, Civitanova Marche Alta, 19 settembre – 18 ottobre 1987
Sono anni intensi, “eroici” nell’accezione avanguardistica del momento, quelli dell’immediato dopoguerra.
Per Carla Accardi, e per quel gruppetto d’artisti solidali raccolti intorno a Forma, all’Age d’or, all’Art club, che tentano percorsi altri rispetto sia alla rinnovata scuola romana, sia al concretismo più ortodosso e costruttivo dei milanesi.
Oggi sarebbe ozioso soppesare chi fosse, allora, più avanti a chi; inteso, ormai, che quozienti di modernità e quozienti di qualità sono vettori sovente non proporzionali.
Di Forma e dintorni, di quelle postulazioni astratte, le finalmente ampie mostre recenti hanno detto che lo spessore problematico sopravanzava di gran lunga l’acerbità dei singoli esiti.
Ma era proprio quella struttura ideologica, il rigore di quel porre il formalismo a fondamento di ulteriori germinazioni di senso, d’incanto, di qualità, a fare del riformulato bisogno di stile, di cui si dibatteva, un’ipotesi non meccanicamente, accademicamente ulteriore, e invece un grande luogo di drenaggio delle retoriche del fare pittura, un’autentica apertura di credito al possibile.
Accardi, in quel mondo e nei suoi svolgimenti, mostra di muoversi almeno fino al 1954 con un passo e un profilo basso, apparentemente svagato e già nutrito di grazie inconsuete.
Non sceglie militanze aggressive, né il ruolo pubblico, testimoniale, di proclamatrice d’intenti.
E’ acutamente presente, lucidamente critica, ma da una posizione di già salvaguardata privatezza, convinta che il parlare con le mani, il dar corpo e spessore al proprio singolo destino, sia investimento meno clamoroso, ma dai guadagni definitivi, inalienabili.

Accardi, Bianconero su turchese, 1960
Questa serie di carte, la gran parte inedite, ne è testimone probante, eloquente. Nate, fisiologicamente, nella “stanza tutta sua” (ma senza implicazioni di marginalità, di minorità: Accardi possiede, dall’inizio, il senso dell’autorevolezza, del prestigio del lavoro, che affida subito a tele di secca determinatezza), esse sono il luogo dell’analisi, dello scavo, della comprensione e del filtro, e soprattutto dell’esercizio continuo, silenziosamente tenace, di una pratica che fa dell’immediatezza, dell’assenza di fatica, e quindi di una congenita fluenza, uno dei propri capisaldi.
All’inizio, vi è più esplicita la scelta dei modelli: meglio, dei punti di triangolazione. I nomi sono ormai ben noti, d’ascendenza tedesca e francese, in specie. Tuttavia, tien conto riflettere più attentamente che la dinamica strutturale delle prime opere, e quel suo risolversi più per saldi rapporti di temperatura del colore che per tensioni grafiche, ha punti di mediazione fondamentali non solo in Balla – nume tutelare in quegli stessi anni, per esempio, d’un Dorazio – ma anche in Magnelli e per certi versi in Severini, figure assai presenti allora; vuoi per l’allure internazionale implicita in quei nomi, vuoi, e soprattutto, perché in essi appare già coniugata la nozione di purezza primigenia, ottica e simbolica a un tempo, del colore, tipica della scuola europea, con la capacità di rieccitare la scala storica del colore architettonico italiano – bruni ocre e gialli fino al rosa tonale romano – senza paura di sconfinare in eccitazioni decorative.
Già è uno spingere il colore verso la luce, verso un estremo in cui la sollecitazione percettiva trascorra in altri stati di lettura, senza cedere in identità, la tensione che s’intravvede in questi lavori d’inizio.
Ancora il ritmo strutturale vi è esplicito, ma è evidente come esso si costituisca per addensamenti, situazioni cromatiche trovate dalla mano, più che per predeterminazione grafica.
Anche il nero bianco, che tanta parte avrà nei lavori futuri, qui matura per concrezione polare di effetti luminosi piuttosto che per riduzione: non c’è levare aprioristico, né ora né mai, nel lavoro di Accardi: sontuosa pienezza, sempre. Nei primi anni cinquanta, infatti, lo zonarsi delle campiture s’infittisce, lievita, si fa tarsia, sempre più frutto d’un comportamento cromatico (e d’un gesto che si sa, distillatamente, per avvertimento consapevole nel colore: è l’ “esperta mano che dipinge” giustamente ricordata da Marisa Volpi), d’una facoltà di assurgere in presenza nel campo non teorico del foglio.
Campo non teorico, s’è detto. L’aggirarsi determinato della mano, che trova cadenze sempre più articolate, fratte lunghe sensuose, non muove su un’idea convenzionale di bidimensionalità, com’è per tanta parte delle esperienze normalmente confrontate con quella di Accardi.
La superficialità, il vuoto, non sono per lei ideologie, o filosofie. II suo approccio è all’apparenza più semplice e diretto.
Lo spazio è lo spazio concreto dell’evento, dotato d’una fisiologia altra dal rappresentare, ma senza filigrane astrattive; d’una concretezza che è quella delle tipografie futuriste e russe, della cartellonistica, d’una oggettività assunta senza implicazioni e provocata fino alla saturazione qualitativa, attraverso l’intervento.

Accardi, A settori, 1962
La consistenza stessa dei segni che prendono corpo dal 1954, la dimensione del loro darsi e del loro costituirsi in relazione, per sovrapposizioni che s’assestano in contiguità, per svolgimenti che fino al 1960 offrono comportamenti spaziali differenti, ci dice dell’intuizione di questa organicità ricca di possibili, ma non relativa. Organismi visivi, sono sempre quelli che nascono dal lavoro di Accardi in quest’epoca, certo la più folgorante e celebrata del suo percorso.
Organismi perché, appunto, il loro crescere proliferante e sensuoso fa avvertire ragioni interne di sviluppo, senza intenzionalità eterodirette; ma risolti in provocazione percettiva, in evidenza scarnificata di un precoce “what you see” che si conficca nelle ragioni ordinarie del vedere, sollecitandone nuove disponibilità, senza perciò volersi far discorso.
Il riferimento, ormai usuale, alla cultura decorativa, a questo deve soprattutto badare, al ripristino di princìpi come ripetitività, continuum, omogeneità omnidirezionale del vedere, rapporto con il bordo, elementarietà ed evidenza d’effetto, captazione sensoriale della lettura… piuttosto che alla meno fondamentale fastosità, e disponibilità al compiacimento, dell’immagine.
Qui, d’altronde, risiede la radicale diversità del segno di Accardi rispetto ai riferimenti che abitualmente si indicano, da Mathieu a Capogrossi a Tobey: il suo non è un atto del segnare, non presuppone trasferimento d’energie né movenze costruttive né quant’altro.
E’ un articolare organicamente la superficie provocandone differenziali visivi complessi, in un processo in cui più contano lucida grazia e attenzione alla totalità dell’intervento, che non l’intensità dei singoli atti.
E’ ben evidente, inoltre, come Accardi sistematicamente ritragga la propria spinta emotiva al di qua del farsi dell’opera, riconoscendole per converso una disponibilità mentale e un’autonomia genetica che le consentono di non raggelarsi in puro esercizio.
Pudore dunque, limpida castità mentale in un procedimento che si spinge a tentare, nei primi anni sessanta, la soglia dell’eccesso percettivo, con quelle bicromie artificiosissime in caccia di collassi sensoriali, per addizioni senza sosta. Non è un controsenso. Non è, soprattutto, una provocazione intellettuale.
Se cromosomi di fasto islamico agiscono davvero nel lavoro di Accardi, essi consistono proprio in questa sottigliezza, d’agire solo e completamente per via di sensi, ma come se una carne, un pulsare, una materia non esistessero, e tutto già fosse avvertimento della mente, emozione interiorizzata, risentita, né vi fosse luogo per piacevolezze, per consolatorie gratificazioni d’epidermide.
“Rosa, colore dell’interno del corpo, ma anche colore del cielo, dell’aria al tramonto (sulla terrazza).
Trasformare l’emotivo in intellettuale e l’intellettuale in emotivo”.