La sovrana inattualità. Ricerche plastiche in Italia negli anni settanta, catalogo, Padiglione d’arte contemporanea, Milano,  3 marzo – 12 aprile 1982, Electa, Milano 1982. Parte II

La permanenza dell’opera

In realtà è proprio l’opera che si configura come il più conchiuso individuum, come il nucleo compatto di espressione che si nega per definizione a ogni incasellamento in qualsiasi continuum siste­matico, e che rappresenta l’esito perseguito di quella scelta che si è definita di inattualità.

E la sua estrema e sostanziale tipicità a farne l’oggetto più disage­volmente analizzabile con gli strumenti abituali dello storico. “L’arte, l’opera, – scriveva Francesco Arcangeli – quel pezzo di tela o di tavola, quella superficie piana e convenzionalmente rettangola è un medium cui è ancora possibile, tuttavia, affidare tutto: tutto ciò che si è, che si pensa, a cui si aspira… E’ una prefigurazione dell’unica politica moderna che l’uomo dovrebbe augurare a se stesso, quella del libero autogoverno; per sottrarre il mondo alla legge d’una necessità apparentemente ineluttabile”. Da essa, dai suoi connotati così potenti, non si può esulare generalizzando, se non a patto di astrazioni che ne snaturino il carattere stesso di cellula coerente di senso. Attenersi all’opera impedisce, certo, di configurare ampie e compiute prospettive d’insieme – a meno che, ed è possibilissimo, esse non siano pensate che come griglie con­venzionali, come meri riferimenti “gravitazionali” (Braudel) – ma per contro permette di approssimarsi nella maniera meno difforme alla sua sostanza poetica, mettendola in condizione di manifestarsi nelle modalità più corrette.

In questo ambito pare opportuno render conto brevemente di un equivoco diffuso negli ultimi anni. Il meccanismo perverso della moda culturale ha fatto sì che il già osservato e da molti esaltato cortocircuito tra l’arte e le sue condizioni culturali esterne – esteti­ca in testa – avvenuto negli ultimi decenni, venisse identificato senza distinguo in un’altra mutazione riscontrata quasi contempo­raneamente: il passaggio dall’opera chiusa all’opera aperta. Anzi, qualcuno si è avventurato a considerare quest’ultimo come il sintomo più palese e nobilitante del primo, come segnale di un’ul­teriore mutazione genetica.

Con che risultato? Che, nella pratica corrente, tale arbitraria equi­valenza ha permesso di giustificare, confondendo univocità di significato con coerenza di senso, certi cervellotici esercizi teorico­ideologici contrabbandandoli per opere aperte: laddove sicura­mente si tratta di realizzazioni aperte, ma altrettanto sicuramente non di opere. Su questa via, è facile anche giungere alla dichiarazio­ne di morte dell’opera: che non desterebbe grandi rimpianti tra i vessilliferi dell’attualismo a oltranza. Invece, chiusa o aperta, disci­plinare o interdisciplinare, l’opera è sempre opera, con qualsiasi vestito abbia deciso di abbigliarsi, purché conservi in sé quella norma interna, quella sostanziosa coerenza espressiva che è l’unica autentica garanzia della sua permanenza nei territori dell’arte. Tutto il resto, lo si voglia o no, è retorica dell’oggi.

Ma infine, come è possibile circoscrivere concettualmente questa norma interna? In altre parole, in cosa si identifica la qualità? Il punto centrale della questione è proprio questo. Trattandosi della sostanza stessa dell’opera, dell’elemento che la identifica come tale, essa è proprio il sancta sanctorum della sua specificità, la terra di nessuno in cui è impossibile la mediazione della parola. E’, quindi, indefinibile in altri termini che non siano quelli stessi dell’arte, impenetrabile a ogni altro linguaggio. Una corretta lettura può giungere, come si è detto, a un’approssimazione importante, a verificarne le condizioni all’interno dell’opera cui dà vita: l’alto grado di coerenza a sé, l’intima identificazione della forma con la genesi, la plusvalenza poetica eccitata dalla coesione degli elementi espressivi. Ma a questa soglia non può che arrestarsi.

Quando questi presupposti sono carenti o mancanti è evidente che non si dà neppure la presenza della qualità; se il percorso analitico giunge progressivamente a tutti questi riconoscimenti, automatica­mente scatta anche la possibilità del godimento di essa. Certo, soprattutto in questa dimensione bisogna guardarsi dalle false certezze. Quelle antiche, per cui il rispetto di tutti i precetti della disciplina era garanzia di qualità, così come quelle di oggi, per cui essa dipenderebbe dall’esatta corrispondenza al progetto mentale e intellettuale che meccanicamente presume di determinarla. Nell’uno e nell’altro caso essa avrebbe la natura banale di standard perseguibile e ottenibile a priori (e soprattutto ripetibile) e decodi­ficabile a posteriori, secondo schemi noti. Invece, dal momento che si produce solo in un individuum così tipicamente connotato, essa non può che avere ogni volta un sapore unico, incomparabile altrimenti che per intensità.

Lucio Fontana amava ripetere, con il linguaggio sbrigativo che gli era usuale, che “l’arte, quando c’è, ti fa tremare le gambe, altrimen­ti non succede niente”. Dovrebbe essere la prima avvertenza da tenere sempre presente. Eppure non è così, e opere vere e proprie se ne producono molte meno di quanto si creda. Del resto, Martini ricordava che “l’uomo, a qualsiasi unità, preferisce una quantità che lo disseti a piccoli sorsi”.

Spagnulo, Paesaggio, 1976

Spagnulo, Paesaggio, 1976

 

La ricerca plastica

Il percorso svolto fin qui ci ha portato a dar conto, almeno per sommi capi, delle radici e delle implicazioni dell’atteggiamento che abbiamo definito “sovrana inattualità”. Che non è antiavanguardi­smo d’assalto né innaturale esoterismo intellettualistico (come ogni tanto qualche frangia snob si ostina a riproporre, da Sar Péladan a oggi), ma, come abbiamo visto, l’unica salvaguardia dell’identità propria e profonda di un’arte che non si faccia fuorviare da un generico frisson historique e percorra invece le vie non rettilinee dell’opera.

Resta da scandagliare ancora uno dei quesiti iniziali, riguardante il rapporto tra questo atteggiamento e la ricerca plastica. Da quanto detto finora appare con sufficiente chiarezza che la scelta dell’inat­tualità è per sua stessa vocazione fuori da ogni contesto disciplinare che presuma di divenire di per sé elemento motivante. E’ attenta, questo è certo, alla sostanza e alle possibilità degli strumenti espres­sivi, ma non vincolata a essi in modo determinante, data la sua ben più sostanziosa prospettiva. Ne consegue che, ovviamente, la scul­tura in sé non può essere reputata più pertinente di altre pratiche all’opzione di fondo: l’individuazione di caratteri analoghi sarebbe certamente scaturita anche dall’analisi di opere appartenenti ad altri contesti disciplinari.

Ma la scultura, proprio per quella situazione minoritaria e oggetti­vamente marginale che, come abbiamo accennato, le è attribuita ormai stabilmente dal sistema della moda, presenta questi caratteri amplificati anche dall’inattualità forzata in cui è relegata. Due considerazioni immediate sorgono da questo punto di vista.

La prima, assai concreta, riguarda l’incompatibilità tra l’orizzonte tecnico-espressivo della scultura e i ritmi imposti dal mercato del presente. Se si pensa all’accelerazione frenetica delle poetiche, alla sovrapposizione sempre più abbreviata delle mode culturali, alla dilatazione abnorme della domanda, cioè ai connotati più evidenti del sistema delle notizie, non si può fare a meno di supporre, per l’artista che voglia adeguarvisi, l’adozione di strumenti così flessibi­li da poter reggere senza collassi il ritmo di queste metamorfosi superficiali. Il che è pensabile per la pittura, per la fotografia, e via discorrendo (non è un caso, tra l’altro, che sia esplicita in ogni moda anche una predilezione disciplinare), che, considerate nella prospettiva della produzione di oggetti estetici e non di opere, hanno caratteri tecnici atti a piegarsi alla bisogna. Ma non certo per la scultura, che nell’accezione più corretta del termine ha tempi genetici troppo lunghi e una complessità naturale che le impone l’obbligo di prodursi su altre lunghezze d’onda: sia per i ritardi con cui potrebbe giungere ad adeguarsi espressivamente alle nuove waves, sia per l’esigua quantità di prodotti che può garantire, sia, soprattutto, perché il suo bagaglio tecnico-espressivo costituzio­nalmente non è piegabile a operazioni di pura cosmesi culturale. Non che, in passato e oggi, siano mancati e manchino esempi di disinvolta manipolazione delle vocazioni espressive della scultura, anzi. Ma la loro goffaggine nel tentativo di tener dietro al gioco è così scoperta da giustificare proprio quel ruolo marginale che ogni prospettiva critica totalizzante tende già per altra via ad attribuire loro.

La seconda considerazione, di ordine più generale, riguarda il terrorismo culturale insito proprio nei sistemi critici schematici. soprattutto in quel loro particolare aspetto che riguarda la gerar­chia tra le varie arti. Se, dopo Canova, la scultura ha potuto essere guardata come una presenza artistica secondaria, orfana di riferi­menti di fondo e tendenzialmente decorativa; se Baudelaire poteva parlare della scultura come di un’arte isolata; se, infine, ancor oggi essa viene guardata dall’alto di un gap che appare culturalmente incolmabile (è tipico, per esempio, il lapsus di Arcangeli che, nella citazione riportata sopra, indica l’opera come “quel pezzo di tela o di tavola”), la ragione non risiede né nell’assenza di personalità di primissimo piano – Brancusi basterebbe da solo a smentire quest’idea – né tantomeno in una perdita di centro, in un attarda­mento prodottosi al suo interno, che l’ha condotta a rendersi da se stessa funzionale ai destini della pittura. Il motivo è di tutt’altro ordine, da ricercare più in profondità.

Più esattamente, è vero che una perdita di centro nella scultura è avvenuta. Ma la sua causa non risiede in un calo autonomo di tensione qualitativa, quanto piuttosto in uno spiazzamento deter­minato dal sorgere concomitante e solidale di un prepotente asset­to teorico dell’arte radicato in toto nella pittura, e in metodologie critiche modellate interamente su essa da un punto di vista mera­mente problematico. Se le mitografie correnti indicano nell’Ottocento in genere e nella stagione impressionista in particolare il punto di conflagrazione da cui originerebbe l’arte moderna, non è tanto per certi esiti straordinari, ma soprattutto per la compattezza invadente delle implicazioni problematiche suscitate che, raggru­mate in ferree poetiche, si sono costituite a unità di misura di tutta l’esperienza artistica. Intendiamoci. L’effetto devastante non si è prodotto in seno alle singole ricerche, ciascuna delle quali, letta con attenzione più limpida e flessibile, rivela una gamma di motiva­zioni e un tasso di specificità che farebbero vacillare ogni sicumera schematica e progressiva. Si è verificato invece in primo luogo nella struttura della critica che, dall’estremizzazione di certi fattori in sé naturali e fisiologici (ansia di rinnovamento, rapporto anche polemico col passato, maggior attenzione al background teorico, ecce­tera), ha dedotto l’impulso a dar libero sfogo alla sua vocazione di pensare l’arte come sistema di poetiche, e soprattutto sub specie picturae.

Non si tratta, ovviamente, che dell’indicazione assai sommaria di una questione fondamentale, di importanza centralissima, che an­drebbe letta nella filigrana delle imponenti riflessioni che contem­poraneamente si sono svolte sulla ricerca storica. Ciò che importa in questa sede è mettere brevemente in chiaro la causa prima dell’estromissione della scultura dal banchetto dell’intellighenzia artistica.

Paradossalmente, però, proprio questa collocazione marginale e questa privazione di responsabilità storiche hanno aperto alla scultura un campo d’azione fertile e vastissimo e una possibilità di manovra assai più consistente del solito.

Trotta, La cascata, 1979-1981

Trotta, La cascata, 1979-1981

In effetti il grado di disinteresse critico verso la scultura è inversa­mente proporzionale alla pressione che dall’esterno il sistema dell’attualità esercita su di essa, con la conseguenza che proprio qui si sono annidate e si annidano senza sforzo alcune delle più straordi­narie e isolate esperienze del nostro tempo.

Per qualsiasi altro artista, infatti, operare in una traiettoria eccen­trica da quella dell’ingombrante tradizione imposta dall’istorismo sistematico è certamente assai più difficile e delicato che per uno scultore, per il quale il concetto stesso di tradizione assume un valore ben diverso. Il passato, per lui, è già di per sé una costellazio­ne di esperienze individuate, slegate da ogni nesso rigido di neces­sità, che rimandano dall’una all’altra secondo modalità irregolari, senza legami codificati e statici: la compresenza sincrona di tutti i dati passati e presenti gli è dunque una condizione abituale: è, in una parola, il suo naturale orizzonte operativo. La tradizione diventa così una proiezione che ha inizio e termine nella sua propria individualità, senza inutili ricorsi a qualsiasi tipo di giustificazione mutuata dall’esterno.

E per questo che oggi è lecito parlare di un momento propulsivo, per la scultura, anziché di eclissi, di grande ricchezza invece che di sterilità.

Si pensi alla situazione italiana, per esempio, oggetto centrale delle nostre riflessioni. Se alcune tra le più importanti esperienze artistiche del nostro tempo si sono prodotte qui, e hanno avuto un’estensione e una profondità inusitate, è perché la disincronia anche contingente dai ritmi dell’attualità vi è stata ben più marcata che altrove (basti ricordare il ventennio 1920-1940, soprattutto, e i suoi postumi), consentendo approfondimenti extraavanguardistici  più che antiavanguardistici.

Si considerino, per esempio, i tormentati itinerari di Arturo Marti­ni, solidale fino in fondo alla materia intesa come sostanza e non come quantità, che giunge a formulare quell’opzione definitiva di prestigio formale antimonumentale che si ripercuote su tutta la scultura.

Oppure Lucio Fontana, scultore di nascita e di vocazione, che a carpire nella materia una sorta di flusso vitale, praticando 1’atto formativo come “agire materiale” assoluto, in una sorta di energetismo bruciante.

O ancora Fausto Melotti, che invece gioca tutte le sue atout poetiche sulla struttura come frammento poetico puro, su una mistica dello spazio che deliberatamente si svolge per costruzioni prive di spessore materico.

O altri protagonisti, la cui personalità non è ancora stata intesa limpidamente, ma il cui potenziale poetico appare, col passar del tempo, sempre più cospicuo: un Milani, per esempio, o un Leoncil­lo.

In essi ritroviamo declinazioni sempre splendidamente ed esplicitamente individuate del fatto plastico, renitenti a qualsiasi altro tipo di lettura che non sia quello singolo, per via di opere, per via di qualità, alla larga da contestualizzazioni penalizzanti. Che hanno la forza di penetrare sempre nel cuore stesso della scultura, senza astuzie e senza pudori, di misurarsi con la sua nobiltà di sempre e non con le sue banalità passeggere.

Ebbene, gli artisti che danno vita a questa mostra sono della medesima pasta, animati da una scelta di fondo analoga e assimila­bili solo per la puntigliosa asserzione di individualità e per l’inten­sità specifica delle loro opere. L’altro elemento che li caratterizza tutti è che la loro acmé (il termine greco è quanto mai puntuale) si colloca nell’arco dell’ultimo decennio, quello cioè in cui più traumaticamente si sono avvertite crepe vistose nel sistema dell’attuali­smo. E non è certo un caso che ciò avvenga, perché è la natura stessa del dibattito culturale che pare aver restituito proprio alla ricerca plastica una centralità probabile.

A ben vedere, infatti, dalle stagioni dell’informale in poi la tenden­za vettoriale dell’arte (o, più esattamente, di quella che si è definita avanguardia) è stata o di tentare una difficile equivalenza con la vita, con l’altro da sé, nell’ultimo barbaglio dell’utopia di determi­nare il mondo, oppure di chiudersi in una gabbia di autosignifica­zione postulata come assetto teorico a priori, senza flessibilità. Ma se, ancora negli anni Cinquanta, tutto ciò avveniva senza l’abolizione del suo connotato proprio di linguaggio specifico e coerente che medita sulle possibilità di conoscenza riflettendo su se stesso, e che rende esperibile l’altro proprio a partire da una petizione linguistica, dai Sessanta in poi la diversità specifica dell’arte o è stata smagrita sino ad assorbirsi nelle cose in una sorta di parità omogenea e indistinta, oppure è stata accelerata fino a configurarsi come pura enunciazione circolare priva di senso. In entrambi i casi, con una fuorviante e micidiale deroga di sostanza. Da qui la necessità di dar vita a una sempre più massiccia tecnica di definizione verbale del fatto artistico, a una pratica nominalistica cui è stata affidata in toto, negli ultimi anni, non solo la ­difesa del suo valore postulato, ma anche della sua mera identità e riconoscibilità. La cronaca recente è una cronaca di definizioni e di comportamenti intorno all’arte, mai di pratica nel suo corpo: il che ha tolto alla dimensione del fare artistico quella caratteristica di autonoma immissione nel campo della totalità dell’esperienza che ne garantiva la linfa di senso. Ecco, gli artisti presi in esame hanno vissuto e subìto, negli anni stessi della loro formazione, questa conflagrazione della dimensione sostanziale e questa perdita radicale di identità culturale, addirittura questa crisi di pensabilità stessa dell’arte.

Zorio, Piombi, 1968

Zorio, Piombi, 1968

Non si sono mossi secondo le modalità in voga, ma neppure fingendo che questa crisi non esista e che sia possibile albergare in qualche isola di tranquillità passatista. Hanno avvertito che l’unica ipotesi ancora realmente percorribile è quella di riaccorpare un’i­dentità, una sostanza della pratica a partire dalle valenze liberate da quella conflagrazione, dalle certezze – soprattutto da quelle negati­ve – cui si è comunque giunti.

Si sono, paradossalmente, interrogati proprio sulle possibilità an­cora esistenti di essere attuali in modo autentico, non spurio, e le hanno individuate nella scultura.

Intendiamoci, non nella scultura in quanto disciplina, in quanto complesso convenzionale di rules and regulations autosufficienti, in grado tutt’al più di occultare surrettiziamente (e ancora una volta attraverso un meccanismo perverso ed esterno di attribuzione di valore) la perdita di senso della ricerca: ciò è semmai accaduto nella pittura, eretta di recente a ritualizzazione vacua di se stessa, dei propri perduti modelli di incidenza culturale. Invece, nella scultura come pratica ancora completamente libera e non inquina­ta, cui la natura storica di produzione di eventi individuati nella materia – e in uno spazio-tempo insieme fisico e virtuale – mai messa in discussione e anzi continuamente arricchita da corposi contributi (la “sostanza” di Martini, 1’“agire materiale” di Fontana, ecc.), garantisce oggi una pensabilità proprio in termini di ricomposizione di una nuova esperienza totale, di un fare che sia per vocazione conoscenza in quanto linguaggio. Una pratica non uni­voca, non lineare, certo (altrimenti si ricadrebbe nel gioco castran­te delle definizioni, delle petizioni di principio), ma intimamente retta dalla consapevolezza che ciò che occorre produrre sono delle unità proprie di senso, valevoli in quanto distillate e intense. Perché se è vero che l’arte è immissione di senso proprio nella realtà, e non prelievo da essa, è anche vero che questa è la certezza più radicata da tempo proprio nella scultura, senza equivoci. Ecco che allora le esperienze di questi artisti, che si muovono come molecole dalle traiettorie libere e variate e che rimettono continua­mente in gioco frammenti problematici e di espressione, danno proprio nella loro diversità la fisionomia complessiva di una riflessione ben più vasta di quella sul semplice repertorio della scultura. I valori che essi suscitano e praticano, come la materia, lo spazio, la forma, l’immagine, il finito e l’infinito, la quantità e la qualità, eccetera, non sono solo problemi di linguaggio plastico, su cui affilare le proprie indagini per inventariarne lo spettro espressivo. Sono molto di più, investono fuor di metafora le nostre stesse modalità di esperienza delle cose. Ecco che allora i nodi cruciali su cui esse si sono esercitate assumono una pregnanza fuori dell’ordi­nario.

In primo luogo, è evidente, lo spostarsi dell’interesse dai preceden­ti puramente cronologici (la sequenza dei Rodin, dei Rosso, dei Boccioni, dei Brancusi: che peraltro sono riguardati uno a uno, in tutt’altra ottica) alla sostanza più intimamente problematica del fatto plastico: in una sorta di radiante riconferimento di valore alla tradizione, che passa per i kouroi greci e per Wiligelmo, per Bernini e per gli Egizi, per Arp e per Nicola Pisano. Questo spostamento mette in gioco la concezione di una necessità struttu­rale della scultura – elemento fondamentale, per esempio, in Hil­debrand – che la depura delle molte incrostazioni caduche che vi si sono stratificate: dalla mimesi plastica all’iconografia come unica dimensione della messa in forma, dall’instaurazione di puri rappor­ti quantitativi (pieno-vuoto, scultura-intorno, ecc.) all’indifferenza totale verso la natura dei materiali in favore di una presunta asettica idea plastica.

La necessità strutturale torna a essere così il fattore di intima unità, di coerenza a sé che si individua nell’identità stretta forma-senso, in quel rapporto genetico che si fa garante dell’opera come esito di un processo che risponde solo del suo proprio farsi.

In questa dimensione è il materiale che acquista un ruolo centrale, di luogo deputato attivo attraverso cui l’identità forma-senso pren­de corpo. E’ quella materia alla quale si è infine riconosciuta, per vie diverse, proprio una “vocazione formale” (Focillon), un’interiore disposizione a farsi non solo contenitore non neutrale di significati, ma anche e soprattutto autonomo suscitatore di senso all’interno dell’operazione artistica. E’, in altri termini, l’elemento centrale della qualificazione formale, tanto attraverso il suo potenziale tecnico-espressivo quanto attraverso il suo sapore, la sua ricca intimità.

Nel materiale, persa la sua radice di prelievo oggettuale, di lacerto ideologico del banale, si interseca il flusso delle pulsioni emotive e di memoria così come l’esercizio fabrile, la possibilità di farsi immagine e quella di determinare lo spazio, e via discorrendo: la gamma immensa di possibilità, insomma, di cui le opere degli artisti esaminati non sono che una campionatura esemplare.

Se il proposito di questa mostra fosse stato di estendersi oltre questo succinto nucleo problematico, alcuni altri nomi si sarebbe­ro dovuti fare: Giuseppe Penone, Luciano Fabro, Nanni Valentini, Athos Ongaro. Allo stesso modo, se ci si fosse potuti allargare a comprendere anche le figure di artisti non italiani, non si sarebbero potute trascurare personalità assolutamente straordinarie come quelle di Eva Hesse, di Robert Smithson, di John Panting, di Bruce Nauman.

Anche per la loro scultura, per molti versi, vale infatti la celebre invocazione di Martini: “Fa’ che io serva solo a me stessa. Fa’ che io non sia un oggetto ma un’estensione. Fa che io non sia prigioniera di me stessa, ma una disinvolta sostanza”.