La sovrana inattualità. Ricerche plastiche in Italia negli anni settanta, catalogo, Padiglione d’arte contemporanea, Milano,  3 marzo – 12 aprile 1982, Electa, Milano 1982. Parte I

Il proponimento originario che ha generato questa mostra era di raccordare in maniera organica e documentariamente corretta un gruppo di ricerche plastiche sviluppatesi in Italia sullo scorcio degli ultimi anni Sessanta e soprattutto nei Settanta: non per farne un censimento notarile, ma per verificare attraverso alcuni momen­ti salienti la consistenza attuale di quella “scuola italiana” che da decenni ormai regge sontuosamente la scena internazionale della scultura.

Tuttavia, l’analisi del lavoro degli artisti coinvolti nell’iniziativa, Paolo Icaro, Luigi Mainolfi, Hidetoshi Nagasawa, Giuseppe Spa­gnulo, Antonio Trotta e Gilberto Zorio, ha portato fin dall’inizio una serie di risultanze atipiche, tali da far incrinare gli abituali meccanismi della routine critica. D’acchito è emersa l’impossibilità di istituire nessi espliciti tra i vari lavori, tra il sottile gioco di scorrimenti di senso di Nagasawa e il rapporto viscerale, autobio­grafico coi materiali di Spagnulo, tra le alchimie radianti di Zorio e la microemotività frammentata e lunare di Icaro, tra le metamorfo­si formali di Trotta e le narrazioni terrose e antiche di Mainolfi. Nessuna atmosfera comune cui far risalire la genesi di queste opere, nessuno schema generale interpretativo adattabile a esse, nessuna affinità riscontrabile di intenzioni espressive. Dunque un panorama non omogeneo, all’apparenza incongruente.

Eppure, altri elementi hanno portato a sospettare il contrario. Da un lato il fattore criticamente imprescindibile dell’assoluta eminen­za qualitativa di ciascuno degli artisti considerati, che crea tra loro una sorta di aristocratica solidarietà. Dall’altro la considerazione dell’esistenza di un’altra forma di diversità, intrecciata a quella che li individua 1’uno dall’altro: quella tra tutti loro e il panorama consueto della scultura, il gravitare di tutte le loro singole orbite complessive fuori dall’attrazione dei modelli critici dominanti, delle regole del gioco stabilite dal dibattito (anche se, in qualche caso, valutazioni a caldo indurrebbero a conclusioni differenti). Da ciò è scaturito l’impulso a spostare più a fondo l’analisi, a ricercare altrove, a un livello meno scoperto, le sintonie autentiche e i nessi realmente significativi, dando conto primariamente dei più impel­lenti quesiti di fondo che questi materiali, orgogliosamente etero­genei. pongono: in che modo è possibile e giustificabile la sussi­stenza di ricerche “fuori contesto”, non rispondenti cioè alle nor­me critiche via via prevalenti? La loro non contestualità è normale, è un’eccezione fisiologica del sistema, oppure il frutto di una precisa e consapevole negazione di ogni sistema totalizzante? se sì, qual è tale consapevolezza, e che rapporti instaura con le metodo­logie critiche in voga? e ancora, in che misura tale non contestualità è un dato specifico della ricerca plastica, e in che misura invece è una scelta espressiva di fondo, individuabile anche in altre espe­rienze?

Preliminarmente occorre chiarire un particolare importante. E’ evidente che, date queste premesse, gli artisti invitati a dar corpo a questa mostra non sono stati scelti come documenti esemplificativi di una tesi preesistente, della quale sarebbero mere funzioni acces­sorie, ma sono il frutto di una pura selezione (con tutti i rischi che ciò comporta) sulla base del loro autonomo tasso di problematici­tà. E’ il loro lavoro, dunque, nel binomio qualità-individuazione, ad aver generato la questione: all’analisi del loro lavoro il compito di far passi avanti sul piano dell’indagine critica. La scelta di Icaro, Mainolfi, Nagasawa, Spagnulo, Trotta e Zorio è soprattutto la delimitazione di un campo d’indagine ad un tempo artisticamente notevole e ricco di questioni.

Quali caratteri di massima presenta tale campo d’indagine? Anzi­tutto, si è detto, si tratta di ricercatori plastici, di artisti legati a diverso titolo all’orizzonte problematico della scultura. Non vi sarebbero esitazioni a definirli tout court scultori, se tale termine non implicasse, nella confusione e nella falsa coscienza critica correnti, quella sorta di riserva negativa di fondo, di implicita svalutazione disciplinare, che da oltre un secolo si è annidata nella nostra cultura e non accenna a cedere il campo.

Dal romanticismo alle avanguardie storiche in poi la scultura è stata assunta o come variazione secondaria della pittura, ridotta a riformularne i dettati problematici nell’orticello angusto della tri­dimensionalità e dell’illusorietà fisica e materiale, oppure, più di recente, come repertorio di bricolages oggettuali di ogni genere, spesso senza arte né parte: e i suoi rappresentanti, confinati in una sorta di riserva indiana entro cui è sempre parso superfluo avventurarsi.

Rimandando per il momento ogni altra riflessione in merito, è importante tener presente come la nonchalance della critica più progressiva verso la scultura sia dovuta a un non trascurabile ritardo di elaborazione culturale, che oltretutto fa sì che non si avverta l’urgenza di colmarlo. Già in altre sedi chi scrive ha avuto occasione di sottolineare i ritardi critici generali rispetto agli svolgi­menti dell’arte: per la scultura, trattandosi di un campo di ricerca poco battuto, essi sono addirittura due volte più gravi.

Icaro, Misura palmo triangolo, 1974

Icaro, Misura palmo triangolo, 1974

Eppure, nonostante questa “damnatio memoriae”, la scultura (o, per essere più sfumati, la ricerca plastica) continua a esistere e a produrre risultati di primissimo ordine. Allora, perché un manipo­lo di artisti, di cui questi presi in esame sono uno spaccato esempla­re, sceglie di proseguire quello che Arturo Martini chiamava il “viaggio ai confini della scultura”? Per masochismo, per snobismo élitario, oppure, come è più probabile, per la scelta consapevole di mettersi “fuori contesto”? La risposta è evidentemente quest’ulti­ma, e ci induce immediatamente a cogliere il secondo carattere comune a tutti questi artisti. Esso ha un duplice volto. Il primo è quello dell’individualità più lucida, più orgogliosa, più agguerrita possibile, ostentata come ripudio netto della massificazione e dell’appiattimento orizzontale e sordo che, in arte come in ogni altro campo, appaiono ormai dominanti. Il secondo, non disgiungibile, è quello dell’anacronismo, della deliberata asincronia dai tempi esterni del dibattito, inteso non come bieco passatismo ma come tensione a uscire dalle gabbie dell’attualismo sfrenato, della catena diacronica e costringente degli eventi obbligati, per recuperare l’arte a se stessa. Non è la suggestione dell’antico che porta a rinnegare il moderno, il contemporaneo, né un’equivoca esemplifi­cazione di certe versioni volgarizzate della filosofia negativa. E’, invece, l’affermazione che l’unica ipotesi ancora possibile e fertile di modernità è l’inattualità, il rinnegare le ragioni della moda e delll’“hic et nunc” culturale in nome di una fondazione espressiva di maggior spessore e di più lunga gittata. Magari, con l’occhio rivolto al Giorgio Colli della Filosofia dell’espressione, per il quale si può “risalire all’indietro il corso involutivo della storia, con gesto di sovrana inattualità”.

L’inattualità

In un recente, arguto elzeviro giornalistico Alberto Beretta Anguis­sola mette il dito su una delle contraddizioni più tipiche del nostro tempo, la “vittoria della cultura dell’attualità sulla cultura dell’inattuale”: ovvero, la supremazia ormai definitiva della noti­zia come unità di comunicazione culturale indipendentemente dai suoi spessori, dai portati meno immediatamente utili ed eclatanti. Seppure occasionale e circoscritto all’ottica della pratica gionalisti­ca, questo articolo è interessante per almeno due motivi: perché è laa punta di un iceberg, il sintomo palese di un’insofferenza non trascurabile verso l’attualismo a ogni costo, verso lo scoppiettio gratuito e necessariamente ossessivo, in una progressione freneti­ca di sollecitazioni vacue che si esauriscono in se stesse; ma soprattutto perché indica i pericoli profondi determinati dall’as­sunzione di questa perversa scala di valori, che vanno dall’eccessiva valorizzazione dell’aspetto epidermico e spettacolare dei fatti alla polverizzazione e allo svuotamento dei contenuti culturali, dall’im­possibilità di conoscenze coerenti e non contingenti all’inerzia del consenso non pensante, e via discorrendo.

Ora, ciò che importa considerare è che il sistema delle notizie e dell’informazione ipervitaminizzata, quel microcosmo che segna la prevaricazione del macluhanismo più gretto su ogni altra dimen­sione conoscitiva, non riguarda soltanto i mass-media, l’informa­zione più sbrigativa e transitoria, ma si è annidato anche in altri campi, trovando terre fertili su cui proliferare.

In arte, per esempio, una serie di concause ne ha attivamente facilitato il radicamento. La logica dell’avanguardia, innanzitutto, che spostando il problema dell’arte sul piano della novità e il suo valore centrale sulla contaminazione linguistica ha messo in ombra il livello dell’unità, di quella norma interna che infine è l’unica salvaguardia dell’arte. Se ai principi del secolo ciò poteva avere il senso, per quanto problematicamente circoscritto, di frantumare certe sclerosi della tradizione, il suo riprodursi indebitamente per superfetazioni spurie ha portato a un uso insistito e immotivato della categoria di novità come unità di misura artistica: col risultato che anche in arte fa notizia 1’“uomo che morde il cane” e non il fatto ben più sostanzioso ma poco eclatante. Eppure, là dove “non accade nulla”, quasi sempre si occulta la produzione di senso più autentica, la qualità più cospicua.

In secondo luogo, la condizione produttiva che caratterizza l’arti­sta del nostro tempo, il suo dover fare i conti con un consumo culturale accelerato e dilatato oltre misura. Senza scomodare com­plesse analisi teoriche, una radiografia estremamente sintetica e precisa è fornita da un’osservazione di Cesare Brandi: “Ora, se volgiamo lo sguardo al nostro tempo… quello che colpisce di più è che esso non vuole avere passato, esige solo il mercato del presen­te…” ; e ancora: “E il presente è considerato un traguardo in cui gli strati si sovrappongono come in un mazzo di carte, un traguardo senza passaggio, come quei fiumi che muoiono nel deserto”. Il mercato del presente è, per l’arte, farsi notizia, farsi fenomeno transeunte ma di presa immediata, e soprattutto adattarsi alle strutture comunicative che la devono veicolare, anche a costo di rinunciare alla propria più intima identità (di passaggio senza traguardo, si potrebbe parafrasare) e di occultarsi sotto una cosme­si ammiccante ma senza spessore. E’, in altri termini, giocare la carta di un’ambigua popolarità dietro cui si è quasi sempre mimetizzata, anche in casi che si sono contrabbandati come snobistici, una cinica volontà di massificazione, di affermazione di quella che Osvaldo Licini definiva acutamente la “mediocrazia artistica”. D’altronde – e siamo al terzo punto – se dallo strato per così dire mondano ci si eleva a quello dell’elaborazione culturale, si trovano ampi corrispettivi di questa tendenza dell’arte ad alienarsi. Dopo la perdita dell’aura e la resezione violenta del cordone ombelicale che la legava al passato, la ricerca artistica si è trovata sempre più spesso nella condizione di dover affidare le proprie sorti a gradienti teorici esterni a se stessa: dalla volgarizzazione del marxismo in poi, soprattutto all’abbassamento del suo livello alto-culturale a quello della dimensione banale di esistenza, sia essa configurata come gusto corrente, ideologia o filosofia spicciole e di moda, eccetera. Senza avventurarsi, ancora una volta, in digressioni di troppo vasta portata, appare comunque evidente che si assiste a un cortocircui­to tra l’arte e il suo habitat culturale (e soprattutto tra l’arte e l’estetica), per cui l’una si specchia nell’altro ed entrambe vivono dell’ossigeno del sistema dell’attualità.

Mainolfi, Campana, 1978-1980

Mainolfi, Campana, 1978-1980

La nostra, lo si è sempre sostenuto, è un’epoca di grandi consape­volezze. E se è vero che molti strumenti teorici per leggere i risultati di certe ricerche (antropologia, sociologia, psicanalisi, ecc.) sono spesso già impliciti, messi in conto all’atto stesso della produzione del lavoro, perché – per quel cortocircuito cui si accennava – ne sono il seme stesso, è altrettanto vero che l’assenza più totale e risoluta di indizi espliciti di questo genere (come accade negli

artisti esaminati) non può essere casuale, ma frutto di una scelta di fondo, ad un tempo culturale e produttiva, a sua volta estremamen­te consapevole.

E’, appunto, la scelta dell’inattualità, il rischio sollecitato e accettato di fare arte per se stessa, la volontà di contraddire nei fatti (e quindi senza ricreare alternative ideologiche e teoriche) quel falso stato di necessità che la ingabbia dall’esterno. Del resto non si tratta di un atteggiamento affatto nuovo, frutto di riflessioni recenti e di una reazione magari contingente: piuttosto, è il recente collasso della ricerca artistica e della critica commilitante che ha fatto maturare spunti e fattori presenti almeno da quelli che abitualmente si considerano gli inizi dell’arte moderna.

A voler rileggere in chiave di inattualità deliberata certi fenomeni passati, sono possibili considerazioni interessanti. Le posizioni eccentriche dei Moreau e dei Cézanne, dei Boecklin e dei De Chirico, su fino a Brancusi, a Fontana, a Newman, e simili, al di là delle necessariamente diverse declinazioni indicano una sostanzia­le scelta di estraneità ai tempi oggettivi del dibattito, di anacroni­smo come distacco aristocratico dalle questioni caduche, di rifiuto della contemporaneità spicciola in favore di una interna all’arte, più complessa e matura, che alla distanza si è rivelata assai più cospicua rispetto al culto ossessivo del progresso apparente.

In effetti, in modi diversi e all’interno di contesti diversi tutti hanno intuito chiaramente il punto di rottura cui la “rivoluzione moder­na”, se intesa in senso estremistico, stava conducendo: la polveriz­zazione dell’arte come linguaggio, la sua perdita di centro rispetto alla produzione di senso, il suo disperdersi entro i mille rivoli di un assetto culturale che, dilatando bruscamente il campo d’azione, passo passo 1’ha contemporaneamente svuotata dei valori suoi propri, fino a una sorta di sterilità.

Ecco perché la loro azione, e quella di tutti coloro che hanno fatto questa scelta di fondo, é consistita e consiste soprattutto nell’ope­rare continuamente nel senso della ricomposizione dell’unità lin­guistica. Se è vero che 1’ottimismo industrioso dell’avanguardia ha giocato la propria partita sui campi della sperimentazione e della frantumazione sistematica dei codici linguistici, è altrettanto vero che questa opzione aveva il significato di un’azione sui tempi brevi, di un’affermazione di principio cui far seguire la cristallizzazione finale di altri codici espressivi, per quanto radicalmente diversi (e sarebbe opportuno, in questo senso, ripensare definitivamente a figure come quelle di Boccioni o di Malevic).

Ebbene, un malinteso sostanziale ha portato a sostituire il meccani­smo al risultato, a ideologizzare in modo perverso i programmi e a svalutare gli esiti, a configurare rigidi meccanismi causali, ad attri­buire un improprio valore centrale a varianti linguistiche motivate non dal cuore della ricerca, ma da fattori esterni alla pratica d’arte. A questo malinteso, divenuto regola, è però stato ed è possibile opporre un agire a tutto campo fuori dai confini dell’attualità meccanica, concependo e praticando l’arte asceticamente (ma non nel rifiuto a priori di quanto accade), per riconquistarne proprio i valori centrali che sono stati appannati.

Ricomposizione linguistica significa, in tal modo, ritrovare nell’arte un’autonoma produzione di senso, mettendola in condizione di generare dall’interno le proprie giustificazioni, senza il bisogno di ricorrere a contrafforti teorici altrimenti motivati.

Significa scavare entro gli spessori della “disciplina” – arricchita ovviamente di ogni acquisizione sperimentale – fino a cogliere quel nucleo di fusione da cui si generano le opere. Significa attri­buire al concetto di novità un valore di possesso stabile, di ulteriore sostanziale consapevolezza, e non di epidermico e scintillante ca­lembour spettacolare.

In che modo? Anzitutto, recuperando un’antica certezza smarrita: che l’artista è attore, e non un tautologico ripetitore della storia, della quale quindi non si sente uno specchio (per quanto defor­mante) ma un nucleo radiante e liberamente vagante.

Dunque, egli è in grado di instaurare attraverso il crogiolo della propria individualità un duplice rapporto con essa. Da un lato, sentire intensamente il presente attraverso una distillata presenza a sé, non rifugiandosi in un neoclassicismo ortopedico ma allo stesso tempo evitando le paludi del banale contingente, dell’attualismo brulicante. Dall’altro, mettersi in grado di sottrarsi al presente storico vivendo come contemporanea e presente a sé tutta l’arte passata e presente, in una dimensione non più diacronica e proprio per questo fertile di riconoscimenti sotterranei, di nessi e stimoli apparentemente eterogenei ma in realtà omologhi e tutti estrema­mente coerenti a sé, e dunque preziosissimi.

Inoltre, mettendo in pratica con esplicita intransigenza il famoso motto di Annibale Carracci: “Noi altri dipintori habbiamo da parlare con le mani”, cui potrebbe fare da pendant recente un’e­spressione di Matisse: “Per tutta la vita mi sono orientato su quanto ho fatto, non su quanto ho pensato”. Che la dicono lunga proprio su quell’aspetto di severo scavo disciplinare imprescindibile per l’artista, oltre ogni teoricismo di sorta. Infine, accettando come regola che in arte quanto di sostanzioso accade, accade sottopelle, e anche in quelle opere in cui non pare manifestarsi nulla di nuovo, in realtà può essersi diramato quel magico proteiforme che è la qualità: la cui presenza va cercata in profondità, ben a fondo, dopo aver abbattuto i dazi di protezione delle apparenze superficiali. Che non c’è, dunque, in arte, progresso rettilineo, ma un vagare ben più complesso e articolato i cui itinerari, anche quando paiono privi di senso, possono condurre a esiti importanti.

Da tutto ciò conseguono altre considerazioni di grande rilievo, che riguardano alcuni momenti fondativi tanto della pratica artistica, quanto della critica: sulla crisi dello schematismo critico; sull’indi­vidualismo come condizione dello stile; sulla permanenza dell’ope­ra attraverso la qualità.

Nagasawa, Musa, 1975

Nagasawa, Musa, 1975

Lo schematismo critico

In uno dei suoi testi più felici Carlo Ludovico Ragghianti mette lucidamente sotto accusa le degenerazioni meccanicistiche e semplicistiche della ricerca storica che definisce “mitografie”, fi­glie di ideologie volgarizzate e della vertiginosa fuga in avanti di un culto ossedente della sistematicità.

Le mitografie sono le genesi storiche di tipo genealogico, che procedendo attraverso astrazioni scorrette e un disinteresse sem­pre più palese per i dati di fatto, riescono a configurarsi in compiu­te e schematiche architetture: che, però, proiettano non l’ombra decantata dei materiali indagati ma piuttosto quella, assai più fluttuante, dei miti culturali di chi le ha costruite: “quasi che gli artisti – nota Ragghianti – fossero gli scalini di una indefinita­mente perfettibile scala di Giacobbe, posti così dalla provvidenza per poter essere calpestati dagli angelici piedi dei critici d’arte”. Sono formulazioni, quelle di Ragghianti, sulle quali non è inoppor­tuna una riflessione.

Accettare tout court, infatti, il semplicismo scolastico dei plotoni di sociologi, psicologi, antropologi, culturologi, semiologi e via di­scorrendo, i quali – chi con maggiore chi con minore dignità ­tendono a ridurre l’universo dei dati artistici alla propria parziale angolazione teorica e ad affermare di conseguenza l’universalità del sistema di cui sono i chierici, porterebbe ad alcune disagevoli ammissioni. In primis, che l’opera d’arte è riducibile a una ragione che è altra da sé che essa può costruirsi meccanicamente intorno a un progetto prefigurato come una sommatoria di elementi indotti. In secondo luogo, che essa è imprigionabile, mutilabile, addirittura occultabile da una lettura che ne fa non il punto di partenza e il dato centrale, ma un mero utensile ideologico da aggregare in un continuum specioso: Mark Twain ricordava ironicamente che il compito dello storico è di rimediare all’errore delle cose, che non accadono mai al posto giusto e al momento giusto. Inoltre, che tra i dati da essa forniti la sua sostanza poetica cioè il suo elemento più qualificante, è gerarchicamente posponibile ad altri: e che, in ogni caso, alcuni dati possono essere messi in conto e altri no; così come, tra gruppi di opere, alcune sono assumibili nel sistema e altre no, indipendentemente dal livello qualitativo, sulla pura base della corrispondenza allo schema generale. E ancora, che al prodotto artistico è applicabile lo stesso ferreo determinismo causale delle leggi scientifiche, come se l’organismo complesso e pulsante del­l’arte fosse un sistema di relazioni ordinate o presentasse dei phila genetici lineari come quelli della natura. E infine, che esiste in arte un principio riconoscibile di necessità (diversa dalla tipicissima necessità interna di ogni opera) che, accettando come coerenti certi esiti della ricerca e altri no, stabilisce una gerarchia di valori sua propria. Su queste basi sono nate applicazioni quotidiane di tre­menda limitatezza, ai margini del paradosso. Per esempio, l’uso invalso di stabilire che la poetica faccia aggio sulla fisionomia specifica di ogni artista, all’interno di una tendenza dichiarata (Boccio­ni uguale Russolo uguale Depero eccetera: sono tutti futuristi). Oppure quello di identificare il momento cruciale di un artista con la sua adesione a una situazione “di gruppo”: De Chirico è metafi­sico (dimenticando l’ulteriore mezzo secolo di attività), Fontana e Melotti astrattisti, Matisse fauve, Braque cubista, e via discorren­do. O ancora quello di coinvolgere addirittura valutazioni tecniche come discriminanti espressive: per cui nell’ultimo decennio è stato quasi vietato dipingere, ed ora pare obbligatorio. Si potrebbe proseguire a lungo. Di tali arbitri spesso esilaranti è ricca ogni mitografia che si rispetti.

Del resto è pur vero che un buon numero di artisti vive in funzione di esse e ha fatto del loro schematismo riduttivo la propria forma mentis. Ma, abbiamo visto, c’è sempre chi non la pensa così, e si ostina a entrare e uscire senza permesso dai percorsi rettilinei prestabiliti. Scrive ancora Matisse nel 1935: “a dispetto della loro comodità, le definizioni limitano la vita di un movimento e militano contro il riconoscimento individuale”. E Martini, in La scultura lingua morta, nel 1945: “Non esiste sequenza fra gli artisti veri. La sequenza è figlia solo e unicamente delle maniere e dell’abilità”.

La rivendicazione di inattualità non ha soltanto il significato di un rifiuto a farsi ingabbiare in griglie così riduttive, ma anche quello di un cuneo che si insinua nel meccanismo delle certezze presunte per provocare salutari contraccolpi. Oggi, che lo schematismo sistema­tico appare in grave difficoltà e cerca alla bell’e meglio di imbellet­tare le proprie lacune non appare casuale che si faccia più evidente il ruolo di quegli artisti di qualità che da posizioni eccen­triche e aristocratiche ne contraddicono le strutture.

Alla critica essi non chiedono una diversa e ugualmente equivoca commilitanza, quanto piuttosto un salutare ristabilimento di di­stanze e altrettanta coerenza a se stessa.

La dimensione individuale

Si è già sottolineato più volte che uno dei caratteri più tipici degli artisti presenti in questa mostra è la rivendicazione di un assoluto individualismo, ovvero il rifiuto di accogliere generalizzazioni for­zose al fine di salvaguardare l’integrità specifica dell’opera.

La spiegazione in termini estremamente concreti condurrebbe ai limiti del semplicismo. Stante infatti la constatazione dell’appiatti­mento orizzontale, della riduzione arbitraria e massificante, della semplificazione gretta alle regole del mercato del presente, e so­prattutto del dilagante esautoramento critico dell’opera, gli artisti più consapevoli che scelgono di fare parte a sé non fanno altro che opporre una tutela minima all’integrità del loro operare. E’ una strategia piuttosto diffusa, negli artisti di oggi come in quelli del passato. Ma esiste il rischio di un equivoco.

Visto strettamente in questo senso, come formula immediata di sopravvivenza, l’individualismo rappresenta solo in parte un’op­zione significativa, perché potrebbe anche essere letto indipenden­temente dalle scelte di fondo, come puro comportamento per configurarsi una presenza pubblica e di mercato atipica, comun­que rivolta a tempi brevi e situazioni transeunti. Oltretutto, ciò indurrebbe ulteriormente a sovrapporre questa azione sui tempi brevi a quella complessiva dell’artista, scambiando le sue scelte giorno per giorno con la prospettiva centrale del suo lavoro: ricadendo così in quelle storture interpretative indicate in prece­denza. Ma non è chi non veda che adesioni come quella di Zorio all’arte povera o di Mainolfi alle aree della new image hanno un valore non determinante, nella sostanza della loro ricerca, tanto quanto l’assoluta scelta di autonomia di Spagnulo o di Icaro.  Allo stesso modo, nel passato, il rigido isolamento di Cézanne e il vagare di Klee attraverso più tendenze non costituiscono che elementi caratterizzanti assai flebili, in termini di fisionomia qualitativa. Un altro equivoco possibile, ma assolutamente peregrino, è che si accorpi l’individualismo alle mitologie di moda riguardanti la presunta prevalenza del “privato”, oggi, con tutta la sequela di calem­bours critico-sociologici ad essa connessi. Ma non tien conto nep­pure parlarne.

Ben più sostanzioso è un altro ordine di considerazioni, legate all’intima sostanza e alla genesi interna del lavoro. Per quanto riguarda quella che abbiamo chiamato la strategia di sopravviven­za, essa più che pratica è mentale, riguarda la salvaguardia non tanto dell’immagine pubblica dell’artista (che è uno dei portati tipici del sistema dell’attualità) quanto della sua interna tensione. In questo senso vanno interpretate alcune precise notazioni che Giorgio Griffa ha disseminato in un suo recente libretto: “Nessuno dei protagonisti, guardato all’interno della sua produzione, presen­ta quel carattere nevrotico o accelerato che si potrebbe supporre guardando la cronaca degli ultimi anni”; e ancora: “In linea di massima la prospettiva della produzione di ogni singolo artista è quella dei suoi ritmi che chiamerei biologici, individuali. Ciascuno a1 seguito del proprio raziocinio o delle proprie ossessioni, o follia. Non della macchina del nuovo. La macchina del nuovo, in fondo, aveva senso per le avanguardie perché era la loro follia”. Parrebbero riflessioni ovvie, ma purtroppo non è così.

Ma c’é di più. A un livello ancora più profondo la rivendicazione di individualismo implica scelte espressive radicali, e allo stesso tem­po sollecita a uno scambio serrato e a un’indagine critica adeguata. Se l’artista, come si è detto, si sente attore della storia, è perché ha una fortissima coscienza della propria personalità creativa, della pro­pria

fondamentale autonomia verso i connotati della realtà, e  del tasso di eccentricità che il suo lavoro contiene naturalmen­te rispetto alle norme e ai supposti valori correnti. Ebbene, l’eccentricità del suo io creante non può concedersi alla mediazione di qualcos’altro rispetto a se stessa, non può tenere conto dei temi e dei modi del presente storico. Essa non può manifestarsi che nel suo stesso farsi, nel suo configurarsi in opera, in quella complessa e tipicissima sincronia da cui nasce lo stile individuale. Dunque non può accedere a formulazioni intellet­tuali esterne, in qualche modo preesistenti, ma sempre far agire il vaglio e la forra espansiva del proprio nucleo interiore, nell’atto stesso dell’elaborazione artistica. E’ attraverso questo processo che il bagaglio linguistico si trasforma da codice comunicativo storicamente determinato a espressione poetica, a manifestazione dello stile proprio dell’artista: è solo in questo senso che sono accettabili le frizioni rispetto ai codici dati e le innovazioni linguistiche, perché non vivono per sé ma in quanto prodotti dalla ricerca di una precisa norma interna all’opera. Tutto ciò ripropone, anche alla luce di quanto si è accennato in precedenza, la necessità della critica di ristabilire, dopo l’abbando­no di strade tutto sommato sterili come la compromissione e la commilitanza (atteggiamenti che surrogano a sé l’aggressività inno­vativa dell’avanguardia, ma che sono divenuti pura promozione di novità), modalità di lettura e di intervento ben più sfumate e puntuali di quelle generalmente correnti. Non si pretende, in questa sede, di delineare una palingenesi critica e neppure di risolvere in due parole nodi di così ampia rilevanza. Ma si vuole sottolineare la possibilità di riconsiderare certi assunti critici del passato in una prospettiva diversa, di rinnovata attuabilità.

Se, in effetti, si sceglie di fare a meno di una visione dell’arte come sequenza ordinata, presieduta da una legge di ineluttabile necessità che le è comunque esterna, si accetta allo stesso tempo di uscire dalle grandi prospettive totalizzanti e di rapportarsi senza filtri pregiudiziali agli unici materiali, alle uniche fonti non spurie che la storia dell’arte possiede: le opere d’arte, ed esse soltanto. Ogni altro contributo conoscitivo non è certo da ignorare, ma è da considerarsi funzionale a esse, e da utilizzare soltanto quando non prescinda dalla loro centralità, quando non rappresenti una super­fetazione eccentrica che si sovrappone o altera il dato concreto. In fondo, tale scelta corrisponderebbe bene alla nota indicazione di Fiedler, per cui occorre “die Kunstwerke in der Sprache zu lesen, in der sie geschrieben sind” (“leggere le opere d’arte nella lingua in cui sono state scritte”), e a certe indicazioni di Croce da tempo in disuso.

Il problema non è certo di riattivare tout court i criteri di pura visibilità e affini, per carità. Piuttosto, di ripristinare l’uso di identi­ficare la configurazione sostanziale dell’opera – e quindi anche il suo grado di maggiore o minor compiutezza – in termini linguistici, di individuazione degli elementi costitutivi. In questa direzione lo strumento principe potrebbe essere ancora una lettura formale filologicamente accorta, supportata flessibilmente – là dove i dati lo richiedano – dai contributi di tutte le discipline accessorie, pronte a intervenire ma mai invadenti e ingombranti. Così si può giungere a determinare al miglior grado di approssimazione il tipo e il livello di qualificazione dell’opera, la ragione interna del suo formarsi: in una parola, quella sorta di nucleo espansivo che è la qualità, che lo specchio critico può riflettere ma non presumere di penetrare. Non si tratta, evidentemente, che di semi in attesa di germogli di dibattito più autorevoli e più estesi. Ciò che importa in questa sede è osservare che deve sempre comunque esistere alla base un rapporto empirico e disincantato con i dati, se non si vuole ricadere nelle secche di quelle che Ragghianti, isolato fautore di riflessioni critiche non confessionali, chiama “schematizzazioni inadempienti”. Perché, infine, che lo si ammetta o no, l’arte produce non program­mi teorici, ma opere.