Bendini
Vasco Bendini. Il tempo, la luce, catalogo, Galleria Bianconi, Milano, 6 ottobre – 20 novembre 2010
Già nella serie dei Segni segreti, all’avvio del decennio ’50, Vasco Bendini annuncia il suo tutto particolare prender partito in seno alla consapevolezza nuova che non di figura di deve dire, e ragionare, e polemizzare, bensì d’immagine: irrelata, non irrazionale ma nascente per le vie d’un flusso d’avvertimenti e di consapevolezze – di se stessi, del tempo, della storia anche – a un tempo fisiologico e affettivo: immagine che si effonda aconvenzionale, prealfabetica, polisemica o asemica non importa, e si organizzi come agglomerato autre rispetto a uno spazio indefinito e non preordinato.

Bendini, 19 febbraio 2009, 2009
Ciò che egli traccia, in quelle opere, è il dramma di quel darsi del segno, energetico e impuro, accecato d’origine e destino, che ne è anche epifania fastosa, in una sorta di sentimento analitico del tempo del fare che s’immedesima nel tempo stesso del pensarsi e sapersi dell’artista, in una sorta di assolo capace d’aggirare gli scogli della retorica così come le secche dell’intimismo: lucido, feroce anche all’occorrenza, più in odore d’“abstractionisme lyrique” secondo la definizione di Jean-José Marchand che di “ultimo naturalismo” arcangeliano, da subito.
Sono venuti poi decenni operosissimi d’illuminazioni alte e d’esperienze inflessibili in cui Bendini ha riversato quel suo piglio etico intransigente, il quale nulla ha da proclamare e predicare ma molto e sempre da chiedersi e chiedere, e in cui man mano più chiara si faceva la ragione sorgiva della sua attitudine espressiva. Sia che operasse nel cuore magmatico della materia, delle sue quantità oscure e gurgitose, sia che si spingesse sino a saggiare la corporeità altra dell’immagine nello scambio agonistico con il corporeo fisico, dell’uomo e dell’oggetto, fuori dai protocolli della stessa forma/pittura, sia, ancora, che costeggiasse la levità luminosa delle materie asciutte, trasparenti, tra sensuosità e scabrezze severe, sempre egli ha avvertito che la questione d’essenza dell’immagine è quella sua sostanza vitale insieme indicibile e stupefatta, quel suo farsi presente alla storia nel quadro mantenendo incorrotto il proprio valere luce altra e tempo altro: ove non è più neppur luogo d’artificio, e d’un fare sapiente, bensì mero accoglimento d’un destino formativo che l’artista, complice e, verrebbe da dire per suggestione, paredro, asseconda e fa sì che si compia.
Negli anni Bendini ha proceduto selezionando, eliminando, distillando. Operativamente, è certo, nel rastremare i gesti a trasalimenti brevi e nitidi, ciechi d’intenzione ma ben certi del proprio non voler asserire, e le materie a colori dubitanti, la cui sostanza sensuosa permane non per via di relazioni eteronome ma in virtù della sua epifania flagrante: essa stessa, e in se stessa, realtà della percezione, apparire e non apparenza. Ma ha decantato, più, concettualmente, spingendo il processo di generazione dell’immagine oltre la soglia d’ogni saputo, facendo del tempo del fare una sorta di concentrazione spasmodica (d’“orgasmo bianco, silenzioso” ha scritto Calvesi) in cui la soggettività dell’artista si smemora e si perde in una sorta di, scrive Bendini stesso, “stato di grazia inconfondibile”.
Se nel 1980 Emilio Villa aveva potuto scrivere per lui di “altra natura inventata dalla iniziativa pittorica”, in questo tempo recentissimo Bendini si è posto in condizione estrema, per certi versi definitiva. L’autonomia degli elementi fondativi del pittorico, la loro capacità di farsi possibili di senso, è a sua volta divenuta non obiettivo ma premessa, il necessario senza il quale la pittura, l’idea della pittura, non avrebbe neppur senso.

Bendini, Apparizione del sacro, 2009
Ogni giorno, ogni giorno, nella solitudine monastica dello studio parmense Bendini si pone in ascolto, in attesa. Decide un’intonazione, nero sontuoso o irritato, bianco calcinato o di luce suprema e slontanata: e ancora rosa in aroma di corpo, e gialli e celesti e bruni come introversi, percorsi da una sorta di disagio sensuale. Lascia che il colore dilavi sulla tela, fluisca scegliendo andamenti e consistenze, si rapprenda in stratificazioni che sanno alea e destino, insieme. Assiste, nel tempo cronologico breve che è a un tempo quello lenticolare della coscienza, al maturare di relazioni, caratteri, disposizioni, fisiologie. Ne accoglie le vocazioni e le derive, sino al punto in cui lo spazio sia spazio totale dell’immagine, luce declinata e qualificata per i mille possibili del tono, per i corsi non ordinari dei rapporti.
È, quella di Bendini, una sorta di meraviglia che ogni volta si rinnova nel conoscersi, nel riconoscersi nel quadro, nella capacità di questo automatismo scrutinante di veicolare il senso possibile sino all’alterità suprema dell’immagine, perfettamente trasparente tanto quanto sovranamente fisica. Mai Bendini ha voluto essere pittore en philosophe, sempre en poète. Certo. Mai si è sentito padrone del fare, sempre interprete d’una erotica agonica tra se stesso e l’opera, in uno scambio d’identità e influenze in cui ognuna delle due parti provoca l’altra a dirsi, e nel mentre si sottrae. Mai ha concepito immagini, sempre atteso, spesso trovato.
Ma ora, ma oggi, in questa sua lucente maturità estrema, egli ha preso a sapere che con la soglia ultima, con la gaddiana “tacita, ultima combinazione del pensiero”, comunque, il nostro pensare il mondo e pensarsi al mondo fa sempre i conti. E che dunque la questione del senso e del non senso dell’immagine non riguarda il destino mondano dell’opera, ma la necessità ultima.
“In stato di insensatezza mi trovo forzato a convivere. Condizione che mi appare simile all’attesa della Notte estrema”, scrive Bendini: “e la soglia mi appare come un’intima tana, dove la luce ti acceca”. Nelle sue albe solitarie, silenziose e concentrate, di pittore, Bendini si avvede altrimenti visionario. Il farsi dell’immagine è ossessione dolce ma mai pacificata, aggirarsi tra una luce e un’oscurità che nulla più hanno del fisico, dell’esperienza del mondo, ma si trasfigurano in domande stesse, estreme, alla sostanza e alla verità ultima della luce e dell’oscurità.
Ogni quadro, ogni quadro si fa dunque, ora, interrogazione definitiva: non dubbio, interrogazione; non fede, domanda. Meditazione. Poesia. Pittura, ancora.