Licini (parte seconda)
Osvaldo Licini. La condizione scalza, catalogo, Lorenzelli Arte, Milano, ottobre 1982. Parte II
Gli anni dal ‘31 al ‘36, contrassegnati da due viaggi in Europa nel ‘30-31 e ‘35, vedono nascere capolavori come Notturno, Schemi astratti su fondo rosso, Bilico, Castello in aria, Archipittura, Assaggiare, Mulino a vento, Il drago, Addentare e altri. Sono dipinti che, se letti con il metro abituale dell’astrattismo storico italiano, denotano un tasso eccessivo di variabilità lessicale e di modi, un’eccentricità continuamente dispersiva rispetto a norme-cardine come l’idea di programma, di modulo, di ordine.
Certo i portati teorici di Belli, Sartoris e compagni lo coinvolgono non epidermicamente, la frequentazione anche intensiva di Klee, Kupka e Kandinskij (gli ultimi due, non casualmente, presenti alla Biennale veneziana del ‘30 con gruppi di opere) lo tocca: ma tutto ciò si innesta per lui su un humus problematico ormai naturalmente europeo, che anche nell’eremo di Monte Vidon Corrado si aggiorna sui dettati di un dibattito internazionale in cui l’astratto-geometrico è sottoposto a più d’una disamina e l’esperienza surrealista, pur con tutti i limiti emersi, ha suggerito più d’un correttivo.
In effetti il punto nodale che lo divarica dai saggi della scuola lombarda non risiede in una differente declinazione del costrutto non figurale, ma nell’accezione stessa di immagine, e di spazio dell’immagine. Astrarre per Licini non significa desumere schemi logici dal mondo dei fenomeni, e neppure postulare la geometria come normativa di genere per ritrarre il mondo delle essenze trascendenti, né tantomeno ridursi a una “visività essenziale” (Seuphor) garantita dal rigore del procedimento, dell’architettura linguistica. Ciò può produrre tutt’al più una diversa iconografia, almeno nelle intenzioni teoricamente più stazzata e linguisticamente meno farraginosa di quella in voga nei salotti novecentisti, non certo una sostanza autre dell’immagine. Troppi aspetti rimangono insoluti, al suo occhio. Sul piano del pensiero, il lievitare di implicazioni di idealismo cattolico (evidenti in Radice, per esempio), o di un positivismo di seconda spremitura, o ancora di un resuscitato senso apollineo dell’assoluto. Sul piano del linguaggio, incapacità di affrontare adeguatamente la questione dello spazio della pittura, vincolato ancora nonostante tutto a filigrane metafisiche (tipico il caso di Soldati) e novecentesche (Rho, ecc.) o, nella migliore delle ipotesi, a una proposizione di piatta superficialità; quella della composizione, affidata a un metodo costruttivo procedente per cerniere statiche, per contrappesi quantitativi, per moduli iterativi, per intersezioni ordinate di piani e linee; quella del colore, ben raramente svincolato da pastoie naturalistiche ed evocative (quanto Tosi affiora in certe stesure!), campito non diversamente da come contemporaneamente facevano, che so, un Casorati o un Marussig.
Sono queste le riserve che inducono Licini ai distinguo trasparenti nei testi di maggior impegno di quegli anni, Lettera aperta al Milione, Correzioni a Carrà e Natura di un discorso (28). Fin dal ‘31 la posizione che egli ha assunto mostra una diversa consapevolezza. Regola, programma, verità sono termini che non hanno posto nel suo sommario mentale. La sua preoccupazione è di atteggiarsi entro uno stile che consenta lo sprigionarsi di una libera crescenza emotiva, attraverso le cadenze di una prosa liricamente accentata. Una cadenza che non mimi i ritmi di questa o un’altra realtà, e scaturisca invece dalla possibilità di senso situata nella terra di nessuno tra reale e irreale, o meglio superreale: poli, questi, di uno scambiarsi infinito di tensioni che sono, esse stesse, quelle genetiche della sua immagine.

Licini, Capro (paesaggio fantastico), 1945
Ciò che si svolge nella sua pittura è una sorta di rivelazione in cui le forme e i segni, di marca geometrica oppure, indifferentemente, organica (il piano di esperienza è più profondo, questa distinzione non vi ha senso; “Io sono astratto con qualche ricordo”: l’espressione di Klee è ben riferibile anche a Licini, in questo ordine mentale), non sono soggetti a meccanismi associativi, di articolazione, e invece si accorpano in un processo di crescita fatto di metamorfosi e scambi simbolici, accumulazioni e incroci, intensificazioni ed elisioni: l’immagine possiede moti genetici interni, il suo darsi è lo sprigionamento di quanta energetici di natura emotiva, atto, in sé, di vita, avvertimento dell’originario.
Lo spazio diviene così lo scenario insondabile e infinito di questi eventi magicamente potenti, luogo in quanto qualificato intransitivamente dal colore, dalle sue temperature (Fossati), dalla sua capacità di farsi simbolo grazie all’intensità e alla concentrazione, e non in virtù del sedimento culturale, del codice. Illimitato, perché sostanziato dalla totalità pensabile della visione, non neutralizzato dall’atonia dei bordi del quadro (29).
La grande forza di Licini consiste nel non ipernutrire mentalmente il retroterra ermetico di questo suo orientamento meditativo e sensitivo, ma di riportarlo sempre a un pensare pittura che ne sia l’unica concreta garanzia, la cui fondazione di valori avvenga sempre all’interno del procedimento, di un fare/pensare che faccia da intimo cemento poetico, e a un tempo da concreta necessità di evidenza. “L’evidenza di Licini è anteriore, cresce col diffondersi della lettura del quadro nella misura in cui questa è riportata dentro il quadro, le cui forme-forze lavorano verso l’interno, verso la collisione che dà svolgimento alle variazioni successive e mutevoli, irripetibile” (30).
Esistono in proposito dichiarazioni importanti dell’artista, tanto in Lettera aperta al Milione quanto in Natura di un discorso. “La pittura è l’arte dei colori e delle forme, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione, ed è, contrariamente a quello che è l’architettura un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia […] Dimostreremo che la geometria può diventare sentimento”. E ancora: “L’arte è per noi di natura misteriosa e non si definisce. Confessiamo che la bellezza sfuggirà sempre ai nostri calcoli. Ed è bene che sia così. Come tutte le cose della natura, enigmatica, menzognera, bella, ma con frode. L’importante è che la menzogna sia geniale […] I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”.
Segni e non sogni, e un sentimento riscattato da ogni nervatura psicologica e reso totalmente pittura, senso di linguaggio. In tal modo la rivendicazione liciniana di libertà fantastica convive con l’esigenza di rigore, di controllo severo, che egli afferma in modo evidente fin dagli anni Venti. Senza sgrondature velleitarie, senza presunzioni di poetica, in accordo con quel necessario e naturale “rigore segreto” di cui parlava Yeats, che è da sempre sposato alla miglior esperienza moderna.

Licini, Olandese volante color viola, 1945
Dal suo esercizio negli spessori del linguaggio nasce, infine, la concreta ragione del senso.
In Fili astratti su fondo bianco, del ‘31, e in opere analogamente impostate (lo straordinario Schemi astraiti su fondo rosso, Obelisco, L’equilibrista, il posteriore Composizione, singolare e riuscitissimo antecedente dei Fiori fantastici), gli andamenti e le intersezioni lineari qualificano lo spazio come in negativo, vi innescano quel tanto di differenziale attivante che ne sprigiona il potere di captazione emotiva. Non è una struttura che definisce, che scandisce, che trova un proprio ordine congruente. Anzi. Essa configura porzioni instabili, precarie di spazio, dà luogo a triangolazioni eccentriche; capta equilibri che sono puri momenti-pause di una fluenza, soglie di risonanze, di interferenze, di scorrimenti, di mutazioni. La loro trama interna di rifrazioni è essa stessa generatrice delle tensioni che intensificano la vibrazione sospesa del colore, la cui stesura è magra, appena increspata, oppure zonata da diverse trasparenze e densità, come in Notturno e in Castello in aria.
Dipinti come Assaggiare (‘33), e più ancora Il bilico (‘32), L’equilibrista (‘32), L’incostante (‘33) e Mulino a vento (‘35) presentano ulteriori fattori di scarto significativo nel loro tentare, per attraversamenti ironici, il limite di una certa qual saporosa e primaria allusività astratta, fatta in realtà nient’altro che di trasgressioni e ribaltamenti dei codici, di sovradeterminazioni e ritorni complessi di lettura; e anche un rarissimo accomplishment visivo giocato sugli scambi ritmici reciproci tra bianco-nero (protagonisti assoluti delle strepitose versioni di Archipittura) e colori primari, dosati in sapienti gradazioni di materia.
Contemporaneamente da altri quadri (Bocca), più esplicitamente figli dello sberleffo ribelle di Bruto – quello da cui nel ‘53, nascerà il geniale Merda – prende l’avvio l’ulteriore scatto espressivo dell’artista, la cui prima prova pienamente compiuta si ha con il celebre Il milionario, del ‘38.
“Licini scrive ormai i capitoli della sua Saison en enfer, avendo rimesso i piedi e il cuore nel suo vero inferno, che è fra la terra di ogni giorno e il cielo di ogni notte di Monte Vidon Corrado”, ha scritto Raimondi (31). Nello straniante corpo affettivo della sua pittura germinano “i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche, rappresentazioni totemiche” (32), l’impulso all’attivazione e alla proiezione mitica si fa più forte, più direttamente presente.
Il passo degli andamenti lineari assume una cadenza più intensivamente lirica, si fa carico di pulsazioni simboliche sempre più pregne; e così il colore, le cui associazioni/opposizioni rendono operanti limiti e passaggi ricchi di sfumature, di echi profondi.
La sua ispirazione diventa esplicitamente sotterranea, notturna (33), il senso orfico del suo viaggio precisa infine i propri luoghi, la propria imagerie. Birolli ha assai opportunamente indicato la presenza, nella cultura italiana di quegli anni, di una non trascurabile componente neopitagorica” (34), che innerva l’idea di mediterraneità propugnata da molti, e tra gli altri da Belli in Kn: in particolare, di un “pitagorismo notturno e segreto” che, incarnato soprattutto da Licini, fa da contrappeso al culto del logos di marca architettonica.
E’ un’osservazione importante, che permette di lumeggiare l’interferenza di vari registri nella mitopoietica liciniana.
Gli Olandesi volanti, le Memorie d’oltretomba (motivi di alcune opere tra le più belle dell’artista) sono desunzioni evidenti dalla cultura nordica, con quel loro sapore di solitudine errante-eretica il cui senso vitale è aggredire il limite dell’umano conoscibile e fattibile: come, anni più tardi, il marinaio Querelle di Genet, che gemmerà da quel tronco di cultura francese che Licini ben conosce.

Licini, Amalassunta, 1950
Ma il nostro artista è alieno dal cupo orrore, dalle valenze livide di quelle accelerazioni fantastiche. C’è in lui, anche, il radicamento nella propria luminosa matrice mediterranea, la cui consapevolezza egli matura proprio confrontandosi con il libro di Belli.
L’idealizzazione della Grecia classica e di un canone formale, la profezia di un moderno apollineo però gli vanno strette. In Natura di un discorso tiene a specificare che “la Grecia, il classicismo, Scopa, Prassitele hanno fatto fermare più d’un treno”. La sensuale e sonora joie de vivre matissiana, il senso pagano di Pìcasso hanno inciso in lui tracce troppo profonde per cancellarsi tutt’a un tratto. Lo attrae l’idea di purificazione, non di purezza. La sua è piuttosto la mediterraneità aspra e felice delle pitture apule e pestane, l’ingenuità sontuosa e abbreviata della plastica italica ed etrusca, quella sapienza che si dà senza carisma, ctonia, panica, oracolare, in cui il mito è ancora senso concentrato e radiante, non cristallo di una proiezione ormai solo culturale (35).
Il milionario, si è detto, è la prima tappa splendidamente riuscita di questo nuovo corso, che accompagnerà Licini fino alla morte. La netta bipartizione in verticale dei colori, lungo un confine che ha l’andamento fratto del puro flusso emotivo (così come gli altri tracciati crescenti, il cui alito compositivo torna assai affine in Memorie d’oltretomba) pretende l’idea stessa della polarità vitale, del passaggio; l’accensione rossa delle cifre immette valori attivi di tensione determinativa. La stesura è densa, non ancora impregnata di quella stopposità calcolata che farà la sua apparizione più avanti, come dotata d’un’intima pulsazione.
Lo stesso scambio polare nel grande Memorie d’oltretomba, del ‘47, avviene tra le campiture grigie, increspate da brividi di affioramenti lattiginosi che ne intensificano il senso di profonda, imperscrutabile sospensione: quella sospensione tra veglia e sonno, tra vita e morte, che è un luogo tipico in Leopardi, fedele compagno del “cervello malato di solitudine” (36) di Licini.
La superrealtà dell’artista si anima di nuove figure, di nuovi fantasmi dell’originario. Gli Olandesi volanti (spesso intitolati anche Personaggi), appunto, proiettati nel loro vagabondaggio entro l’infinito, in cui ancora ritornano le svarianti stesure grigie (Personaggio su cielo chiaro, ‘45,) ma anche i blu/neri fondi, imperlati di bianco, così come i gialli (il bellissimo Personaggio, ‘45, ) i verdi i celesti dalle trasparenze chiare, solari.
Come si è già detto Licini non passa casualmente da impasti pieni e spessi a superfici quasi liquide, incorporee. Né, analogamente, si comporta indifferentemente rispetto alle soluzioni espressive dell’impianto lineare, che evidenziato in nero, o in bianco, o in altri colori, talora contorna tutta la figura, le fa (si perdoni l’improprietà) da scheletro, talora invece funge da mera intensificazione dei differenziali coloristici che la generano – in più d’un caso è una sovrapposizione del bianco alla dominante del fondo; e che, inoltre, si dipana tanto in moti curvilinei insistiti, enfatizzati quasi, tanto per incastri mobili di segmenti retti.

Licini, Amalassunta n.3, 1950, particolare
L’economia compositiva del dipinto, che è la piena genesi stessa dell’immagine, riveste per lui un valore troppo importante.
Ma il suo non è un comporre secondo regole, provvisto di un formulario che offre le stesse risposte per gli stessi nodi di svolgimento. Non è un quantificare la visione, è un saturarla per intensità: ciò
che Licini sempre rispetta, anziché il grado di confezione (non si preoccupa mai neppure di mascherare bene i pentimenti) e l’ordine dell’immagine, è l’equilibrio puntuale dei puri rapporti qualificativi che la reggono, comunque prodotti. Una volta resa congruente la trama di corrispondenze interne all’immagine essa è compiuta, di quella compiutezza provvisoria che sollecita da sé una continua mutanza. Ogni semplificazione lessicale e ogni scelta ideologica di regolarità stilistica si rivelerebbe, da questo punto di vista, riduttiva rispetto all’alta posta poetica in gioco.
Negli anni successivi al ‘45, a ridosso degli Olandesi volanti, hanno inizio altre serie tematiche care a Licini.
Quella delle Amalassunte è una spesso divertita personifìcazione della luna, significazione notturna di natura e sentimento (il volto vitale dell’eros), dai sembianti antropomorfi o, più ermeticamente, indicati dal repertorio cifrato dell’artista. L’orizzonte basso, già riapparso negli Olandesi volanti, assume stabilmente il ruolo di differenziale minimo dello spazio infinito, ora in opposizione di colori (nero/rosso in Amalassunta su fondo rosso chiaro, del ‘49), ora in sottili variazioni squisite di tono e stesura (rosso/rosso, con un profilo bianco, nella notevole Amalassunta n. 3, del ‘50). Altri emblemi, a loro volta dotati di un’alta implicanza, rafforzano la collocazione eccentrica dell’Amalassunta: cuori, lettere, cifre, mani, seni (i due dipinti citati, e inoltre Amalassunta con cuore rosso, ‘45; le intense due versioni de La grande amica, ’48-50; Italia, ‘50; Amalassunta fantastica, ‘49; ecc.). II prevalere della scelta del rosso ben si coniuga con l’adozione di simbologie erotiche, anche se, come sempre, più d’una versione conosce dominanti gialle o turchesi o blu (l’emozionante Amalassunta su fondo blu del ‘50).
Gli Angeli ribelli, abitatori anch’essi di una notte originaria, sul piano della complessità fantastica rappresentano il punto più alto della mitologia di Licini. La falcata – il “grande passo” arcaico ritualizzato in danza? – con cui misurano la profondità dello spazio, la torsione accentuata ma dolce delle linee, l’imponderabilità della loro presenza (che è presenza, proiezione umanizzante dell’immettersi nel profondo, tanto quanto le Amalassunte sono distanza: Angelo ribelle e luna, ‘47; Angelo ribelle su fondo grigio, ‘50; il bellissimo Angelo ribelle su fondo giallo, ‘52), condensano il senso sospeso puro/impurocorporale/incorporeo, uomo/natura che è la sede propria del mistero che affascina Licini. II punto più alto è raggiunto da Angelo ribelle e luna bianca, del ‘55, con intensa stesura avorio e grigio di lunare bellezza. Su questo impianto nascono declinazioni affatto differenti, come Angelo con coda (‘48), in cui compare implicitamente il segno dell’infinito – che era anche in Il milionario – e una marcata distribuzione per diagonali disorientate dei gangli che rimemora certe composizioni degli anni Trenta, e che introduce un gruppo di dipinti in cui ritornano svarianti intersezioni triangolari: L’alba (‘51), Drago fantastico (‘53), il bellissimo Notturno (‘54), Fantastico (‘54), alcuni tardi angeli di grande bellezza (Angelo di Santa Rosa, ‘57: Angelo ribelle, ‘58), e tutta la serie dei Missili lunari, in cui la natura di vettore spaziale dell’immagine si estroflette, si fa ridondanza tematica.
La fedeltà di Licini a questo repertorio di soggetti è una necessità poetica, che gli permette di orientare il suo laborioso scavo stilistico sul piano più profondo e autentico dell’invenzione, quella lirica, dell’infinito potere magico del colore.

Licini, Angelo di Santa Rosa, 1957
Ripensando alle stagioni degli anni Trenta che lo videro protagonista, Belli vede in Lic’ni la “personalità più forte, come pittore-inventore, del primo astrattismo italiano” (36).
Oggi si può aggiungere senza tema di smentite che è una delle più grandi in assoluto dell’arte di questo secolo.
Note
28. Licini, cit., pp. 99-102.
29. In questo senso assume un significato particolare la raccomandazione rivolta nel ‘58 a Marchiori, “nella proiezione dei vetrini dei miei quadri, di evitare che appaiano le cornici”: Marchiori, Licini. Con…, cit., p. 35.
30. Fossati, L’immagine sospesa, Torino 1971, p. 162.
31. G. Raimondi, Il lungo viaggio di Licini, in “Il Resto del Carlino”, Bologna, 16 febbraio 1969, p. 3.
32. Licini, cit., p. 161. Per un approccio di lettura analitica di questi segni cfr. Bartoli, Figure dell’incastro e metafore dell’aria nel linguaggio di Licini, in Licini, cit., pp. 43-61 e, dello stesso, Nota alle tavole dei segni, in Osvaldo Licini, catalogo, Museum am Ostwall, Dortmund, 23 novembre 1974 – 10 febbraio 1975.
33. Sui temi e i modi di questa stagione cfr. soprattutto Birolli, Storia e temporalità circolare, in Licini, cit., pp. 11-31.
34. Birolli, Letteratura-arte. Miti del ‘900, Milano 1979, pp. 96-101.
35. E’ da supporre con qualche ragionevolezza che fosse giunta a Licini l’eco del fervore del dibattito archeologico sulla componente italica, indigena dell’arte antica, che pervenne più d’una volta anche alle terze pagine dei quotidiani. La questione dell’influenza di tale dibattito sulla pittura italiana di quegli anni meriterebbe uno studio particolareggiato. Valga qui qualche indicazione cronologica esemplificativa: nel 1922 esce A Della Seta, Italia antica, Bergamo (ried. nel ‘28); nel ‘23 G. Pinza, Storia delle civiltà antiche d’Italia, Milano; nel’27 P. DUCATI, Storia dell’arte etrusca, Firenze; nel ‘29 P. Marconi, La pittura dei Romani, Roma, e G.E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Milano; nel ‘35 G.O. Giglioli, L’arte etrusca, Milano; fra il ‘36 e il ‘41, 8 volumi sulla pittura pompeiana e romana nei Monumenti della pittura antica diretti da G. E. Rizzo; nel ‘39 il fondamentale saggio di A. Boethius sul guerriero di Capestrano in “Critica d’arte”.
36. C. Belli, Lettera sulla nascita dell’astrattismo in Italia, Milano 1978, p. 18.