Philippe Artias l’indomito, catalogo, Antico Convento di San Francesco, Bagnacavallo, sino al 10 ottobre 2010

Lunga e operosa, è stata la stagione italiana di Philippe Artias. Attivo dagli anni Trenta, sodale di Picasso (del quale è “l’amico, ma non il discepolo”, precisa Jean-Luc Chalumeau), erede del retaggio di sovratono espressivo della tradizione fauve, sulla quale innesta la propria sensualità prorompente, Artias negli anni ultimi di lavoro si concede una sorta di plenitudine definitiva nel romitaggio (deliberato, e goduto, romitaggio) marchigiano.

Artias, New York Go Go, 1984

Artias, New York Go Go, 1984

Poco conta, per lui, il dover essere della pittura, il teatro delle ideologie e dei teoricismi. L’innesco sensibile è lì, nella sua capacità fastosa di captazione, disposto a trasfigurarsi in una sorta di accelerazione visionaria. Cattura, Artias, lo struggimento visivo e la fluenza urgente delle sensazioni; lo filtra, rielabora, ricostituisce in corpo e sostanza di pittura, nella quale avverti l’amore padroneggiato per la tradizione nuova del secolo, dalla selezione stringente del motif di radice cézanniana alle “luxe, calme et volupté” di Matisse, alla suggestione dei grandi nudi picassiani della metà degli anni Trenta, il tutto alimentato da un erotismo che si è selezionato e deciso su Van Dongen, su Pascin, per altri versi sul Masson più intenso, con non banali retrogusti bonnardiani.

Eccolo dunque aprire negli anni Novanta, in una stagione in cui il nudo diventa motivo per eccellenza tra i motivi, una serie nuova, in cui le figure sulla spiaggia divengono una sorta di variazione sistematica delle Baigneuses di lungo corso nella vicenda novecentesca.

La macchina visiva è semplificata a una struttura precisa. Il filo corrente di un orizzonte alto schiude la scena di una spiaggia ocra in tono rosato, che è tono mediano deliberatamente non neutro, capace d’intonazione forte e calda. Qui, in visione ravvicinatissima, a serrare la distanza sino a generare una complicità di sguardo e una suggestione di tattilità, ecco articolarsi i gruppi di figure, cui il fasto iperdecorativo dei teli da spiaggia (rosso/giallo, rosso/bianco in timbro pieno) consente di stagliarsi in plasticità complessa, continuamente in bilico tra aroma di tarsia bidimensionale e pienezza corporea.

Dei corpi, che invadono il primo piano per sovrapposizioni forzate di planarità, Artias reinventa in urgenza espressiva le linee forza curve, che solcano lo spazio e collidono in una sorta di liberato clamore visivo. I corpi non sono determinati da contorni, come vorrebbe la tradizione disegnativa e come pure, in una serie formidabile di disegni e acquerelli, l’artista altrimenti sperimenta, ma si stabiliscono per addensamenti e dilatazioni di zone delle quali conta più la sostanza coloristica. Sono, si può dire, dei corpi/colore, che si costituiscono per accumulazioni e rapporti sintattici forzati di nuclei visivi e di temperature cromatiche.

In uno dei dipinti maggiori della serie, Artias svolge una figura seduta che da sinistra s’allunga, come dipanandosi, verso il centro del quadro. I verdi e i blu contaminati, per sottile disagio sensibile (“la loro purezza spesso è acida, può anche sfiorare un gusto di deliberata acredine”, ha ben notato André Verdet dei colori di Artias), bilanciano l’affollarsi concitato della parte destra, in cui le figure sono disarticolate e fittamente intarsiate, spingendosi da violetti rosati su su sino a un giallo pieno e maturo. Il giallo e il verde sono ripresi, come sottili nervature, simmetricamente nelle due parti, e l’effetto che ne scaturisce è d’una vitalità calda, solare, una sensualità che è dello sguardo ma soprattutto delle sollecitazioni emotive che innesca.

Artias, Maria Luisa e due Infanti, 1983

Artias, Maria Luisa e due Infanti, 1983

E’, per dire con le parole dello stesso Artias, “il colore che entra in conflitto con la forma, la forma che accetta o non accetta, il colore che sostiene la forma o l’aggredisce…”: sino al punto in cui tale formatività complessa giunge a un equilibrio, a un momento-pausa della modificazione continua, contenendo in se stessa la sensorialità complessa, irradiante, che l’artista vi ha riversato.

Verdi e blu, violetti e rosa spinti sino a picchi di giallo, si dipanano di quadro in quadro, in una serie tra le più fastose e libere di Artias, la quale per molti versi rappresenta un perfetto à rebours – non un bilancio: Artias dipinge non guardando mai al proprio passato, ma amandolo e ogni giorno rinnovandone la tensione – nella folla di esperienze che lo hanno reso figura autorevole della storia del secolo.

S’è detto di disegni e acquerelli che, qui come in ogni altra esperienza, accompagnano la serie pittorica dell’artista. Artias disegna senza sosta, accumulando sketchbooks e fogli. Il suo è un disegnare che verrebbe da dire automatico, per libera e non mediata captazione del motivo, e che determina la congerie di materiali visivi, di nuclei espressivi, entro la quale si esercita il lavorio precisato, nitido, vigile, delle scelte pittoriche.

E’ un disegnare non progettuale, non intenzionato, bensì una sorta di esplorazione curiosa e proliferante del soggetto, sino a catturarne le intime movenze. Esse sono la ragione e la necessità stessa dell’opera pittorica. Quelle che, qui, vediamo rinate per coaguli e distillazioni nelle grandi tele: grande, fastosa stagione di un grande artista.