Claudio Costa o dell’assedio instancabile del fare, Edizioni Nuovi Strumenti, Brescia 1989

Vela cuneo spine… La prima mostra di Claudio Costa, nell’anno di tensioni e leg­genda (e grazia, per qualcuno) 1969, è alla Bertesca di Genova, luogo d’intersezio­ni, e rischi, e lucide elaboranti follie.

Corpi puntuti, come vettori d’implicita violenza a segnare il vuoto; cavi tesi, linee­forza d’una energia che avverti scorrere nei corpi, machinae tra leonardesche e con­tadine; materie, legno soprattutto, consistenti odorose colorate.

Per molti, in questi anni, è questione di ricostruirsi una naturalità, una sorta di ingenuità contaminante di gesti e materie, sui cascami logici del mondo. Costa ha altro occhio, altra mano.

Il suo costruire è lento, improgettato. Non gl’importa di forma formata: è, in tut­to, processo, consecuzione di comportamenti fabrili entro cui identificare 1’espe­rienza, un senso autenticamente primario dell’agire.

Artificiosissimo è, perciò, scandito. Avvertimento continuo di comportamenti, strut­tivi e spaziali (come Filo a piombo, o Parafulmine), e della sostanza com­plessa, d’intima vocazione funzionale – non emotiva – delle cose.

Con 1’attenzione fissa, laboriosamente analitica, sulla mano e sul suo essere a sua volta machina, fisiologicamente intelligente, capace di porre in essere situazioni ma­teriali varianti, di concatenata proliferante possibilità, di stringente necessità. Mano, nel senso più profondo e penetrante, appunto, d’artificio; coscienza di una facoltà di intendimento e trasformazione delle cose che ne sia cattura dell’anima, e costituzione secondo modelli che trovano in sé, nel loro stesso darsi, ragione d’e­sistenza, fondamento in un pensiero dell’essere al mondo.

C’è, in questi primi lavori, un residuo ancora di dimostratività, di determinazione del gesto come causa formante interrogata a priori: e dei materiali come terminali in qualche modo passivi, strumentali.

Costa, Gli ultimi lavori conosciuti, 1987

Costa, Gli ultimi lavori conosciuti, 1987

Ciò che è già, invece, consapevolezza decantata, è il valore fondamentale della cor­poreità, dello specchiamento tra il proprio corpo come nucleo definito di condizio­ni e funzioni e la materia, la gamma primaria delle sue forme, come luogo di identificazione.

D’altro canto, è ormai innescato il fascino per quella condizione aurorale, origina­ria della forma, che si nutre dell’indistinto tra natura strumentale, tramite di cono­scenza e modificazione del mondo, e iperdeterminazione poetica, estetica infine, che del mondo consente 1’intuizione profonda e mitica, per sottili canali simbolici per via di puro senso.

Il corpo, che si sa attraverso le modalità dell’esperire, e lo scavo fino alla radice d’etimo del valore di instrumentum, già appaiono come le vocazioni impellenti il corso principale delle riflessioni di Costa, oltre ogni fattore climatico di dibattito, e ogni residuo d’artisticità intesa come esperienza alta, separata dal puro vivere at­traverso le facoltà sensoriali e l’opacità apparente della materia.

Le tele acide, le mappe craniche, i colori della pelle umana, che dal ‘70 segnano le mostre successive (a Napoli, alla Modern art agency; da Barozzi a Venezia; da Produzenten a Berlino; su su fino alla Neue Galerie di Aachen, ‘74), segnano parti­tamente questa via.

“La tabula rasa ha fame che io diventi un’immagine ma sono stato immaginabile e non posso immaginarmi altro se le cose parlano numeri e i numeri si tacciono dunque replicano me ditemi l’astuzia di non-essere così potrei uscire VOGLIO AN­DARE FUORI DISCORSO qui normale è la norma il nome chiuso da cui respinto, dietro le spalle dell’ultimo che guarda separato si perde dagli altri che certo torna­no indietro”…

Costa, Controllo costante del cuore, 1988

Costa, Controllo costante del cuore, 1988

Così Nanni Cagnone, rarissimo, tra i testimoni di quelle pratiche d’arte, a scom­mettere la propria scrittura sul darsi di percorsi extraordinari.

Costa affonda in una sorta di processualità totale, di notomia del saputo continua­mente passante tra evoluzione e involuzione, tra progresso e regresso, corsi parite­tici e fondamentali dell’agire e del conoscere, perché movenze circolari dell’idea/finzione nostra stessa di storia – usando della retorica sublime della scien­za, e insieme della sapienza reticente, introversa, del mitopoieta antico, consanguineo del fantastico.

Usa, dei segni, delle materie, il valore evidente d’indizi accreditati del senso; li ma­nipola con assedio instancabile; li snatura e rinatura; li fa dire, infine, inconsape­voli ma ridotati di senso.

Tele tese come pelli, trasmutate dalla forza misteriosa degli acidi, parenti del magi­co. Ragionari da paleontologo sulla struttura cranica, sulla pelle.

Lo schema è quello dell’indagine sistematica, della catena sperimentale, del reper­torio, del catalogo, dell’atlante. Colle, legno, argilla, come xerox, fotografie, ra­diografie: per costruire non definizioni d’immagine, ma interrogazioni, scambi cortocircuitanti fra costituzione materiale, corporeità, e astrazione mentale/visiva, fantasma d’un lògos.

Come disegnando mani e piedi, antropometricamente, per prendere a sapere il pro­prio concreto e non storico essere al mondo (Robert Filliou scriverà della “quiete che dà la vista del suo viso, delle sue mani e dei suoi piedi dopo la sua comparsa sulla terra, meravigliato per sempre di essere eternamente qui”). Antropologo diventa, Costa, non per sistemare l’esistente ab origine, ma per spin­gere lo schema delle razionalizzazioni fino al punto del collasso, che fa della griglia un labirinto, che fa dei segni accertati i punti di innesco di uno scorrimento mitico, i luoghi del magico.

Con acconcia strumentazione, fa dell’antropologia la figura d’azione materiale in cui specchiare l’ansia di coscienza prerazionale, in cui vede, unica possibilità, il modo del nuovo e non inautentico radicamento nel mondo.

L’implicazione dimostrativa degli inizi si fa qui dimostratività assunta esplicitamente, logica esteriormente padroneggiata – ed esibita anche – proprio per garantire del­l’irrelata proliferazione mitica e fantastica degli atti.

Cultura, lingua, oggetto, idolo, territorio, sesso, casa, dio, amuleto, albero, mor­te… la mano agisce nelle materie – odore sapore colore durezza calore – fino a snu­dare i valori primi, e, più, i riverberi magici; i fondamenti stessi, insomma, e la loro capacità di essere modalità maschili e femminili, fisiche e fantastiche, di pen­sare e fare la realtà.

Ma la domanda è ancor più radiante e splendida.

“Claudio! Che musica fa il pensiero dell’aquila durante il volo? Perché i pesci par­lano con l’acqua? Continua a parlare, con il vento!”, gli scrive Wolf Vostell. Bisogna, toccando penne, ricostruendo pesci fossili, innestandoli con altri fanta­smi germinali di vita, essere aquila e pesce, vivente d’aria o d’acqua, per, carpire il segreto.

Costa, Paesaggio con luna piena, 1988

Costa, Paesaggio con luna piena, 1988

“Project 74”, Colonia. L’armadio a Wunderkammer è una storia dell’utensile, fun­zione creata fantasticando il mondo, che le mani di Costa ripercorrono, con follia meticolosa, con un istinto mimetico che vuol delucidare la coscienza degli atti. Sono oggetti: la cui originarietà fa misurare lo straniamento, la distanza irrevoca­bile tra un’esistenza che può chiamarsi cultura materiale e l’accerchiamento repel­lente del sistema degli oggetti, dal perverso intreccio simbolico, da cui ci occorre muovere. ­Straordinaria e ancor più totale è, l’anno successivo, la vicenda di Monteghirfo,

“museo di antropologia attiva”.

Ancor più della sistematica scientifica, è lo schema stesso di convenzionalizzazione del museo a soccorrere il viaggio senza punti cardinali di Costa, il suo à rebours delle mani.

In gioco, poi, è il valore polare di contestualizzazione/decontestualizzazione. Che fa da cardine all’intendimento stesso dell’arte, e degli oggetti.

Se un tempo il ricorso sistematico all’ostranenie e alla tautologia (fino all’abuso, spesso) poteva per gli artisti contare sulla garanzia a priori dell’esteticità del detta­to, dell’artisticità come certificazione e cornice, Costa sceglie di indicare, cruda­mente, le cose come cose, il manufatto senza predicati qualificativi, in una condizione di trasparente normalità: che è però, atavicamente, casa luogo territorio. Ed è essa stessa, in forza di terribile evidenza, a conferire alle cose, e ai processi conoscitivi che le hanno generate, una carica di senso che nessuna ricetta auratica potrebbe possedere.

Questo è un punto terminale, di chiusura circolare dell’artificio anche, che ricon­duce le nominazioni alla soglia primigenia del nucleo sferico e radiante del senso, anziché alla definizione mortale.

E’, ora, proprio il brulicare interno e il pulsare imperscrutabile di questo senso, il ritmo e il sapore stesso della vita e dell’organico, la via da seguire. Il Miele dell’Ape d’Oro alla Galleria Forma, Genova ‘77, e l’intervento, nello stesso anno, a Documenta 6, Kassel, segnano questo passaggio.

Luce e buio, umido e secco, caldo e freddo, corruzione e generazione… morte e vi­ta… Costa continua a esplorare, curiose e sapienziali le sue mani, l’intimità della materia, il sesso e l’eros della terra, il philum genetico che fa essere le forme forme, i luoghi luoghi, epifanie inconoscibili forse, ma avvertibili, del secret du monde (come Céline “entre les jambes des femmes”, Costa tra quelle della Madre stessa).

La sua mitopoietica può rinunciare, ora, allo specchiamento modale dell’antropo­logia, farsi grande viaggio nel grande corpo. Opera, infine.

Ecco, allora, le Case di fango, Unimedia, Genova ‘79, e i Libri di fango, e, da Massimo Valsecchi a Milano, nell’‘81 e ‘82, L’ineffabile circolazione dell’u­mano e Il museo dell’uomo.

I titoli stessi dei cicli indicano la direzione nuova assunta dal lavoro, l’introiezione radicale dei modi precedenti di riferimento (l’essere anfibio, il Maori – non più er­rore cronologico della storia da usare a paradigma, ma possessore dei fondamenti stessi dell’esperienza), e da qui il ripercorrimento inattuale dei luoghi psichici col­lettivi, verso la totalità possibile dell’essere: tattoo/cervello/territorio; pesce/ra­mo/bottiglia/pene; albero/idolo/uomo…

Un titolo, ancora, indica l’orientamento del viaggio: I veri oggetti producono es­seri mirabili, Piero Cavellini, Brescia ‘83.

I mirabilia non sono deviazioni eccentriche dal sapere la realtà, ne designano inve­ce il rimontaggio linguisticamente fondato fuori dai codici spossati dell’aspettativa. E’ per questo, anche, che Costa si rivolge alla cultura alchemica, in una sequenza di lavori che culmina nelle Macchine alchemiche, Palazzo Forti, Verona, e Bien­nale di Venezia, ‘86, e con Il corpo alchemico primitivo al Mercato del Sale, Milano ‘87.

L’alchimia è per lui non più riferimento, sponda esteriore dell’artificio retorico: la metafora, il simbolo, vogliono essere propri ora, non mediati.

Essa è, piuttosto, il puro innesco di una fantasticheria il cui corso non è più, d’ob­bligo, estraneo all’esperienza sensoriale dell’essere, ma ne costituisce l’anima stes­sa, il flatus.

I segni, per lui, sono davvero segni, le cose cose, i corpi corpi. E la creazione, creazione.

Se, come uomo d’ogni tempo, non può pensare la totalità, egli non ha però più bisogno di maschere per alludere, d’artifici per sostituire.

Fa, e facendo sa. Non tenta di mimare il nome del dio, ma avverte il dàimon corre­re nelle vene delle sue lunghe braccia, e il senso vitale animare le fibre del suo corpo.