Arcangelo
Arcangelo. Toccare la terra, catalogo, Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 29 maggio – 13 luglio 1987, Mazzotta, Milano 1987
Pittura di superfici, e insieme di distanze e crescite, è quella di Arcangelo. Concepita per saturazioni di spazio, accumuli, collisioni quantitative che paiono far franare le geometrie dell’immagine, e capace però di far scaturire, dalle fenditure della sua orografia, lucori di lontananze visionarie, come lente combustioni non ancora disposte ad assettarsi nella stasi forte della struttura.

Arcangelo, Monte sacro in fiamme, 1985
Magico, Monte sotto sotto, Vicino ai venti, In alto i fuochi misteriosi, Alba nascosta… Facili letterature, si possono imbastire intorno al pretesto tematico della Terra mia, del lavorare di Arcangelo come mitopoieta dei luoghi originari. Egli stesso, nel suo procedere per cicli, e nell’adottare un repertorio di titoli in cui s’intersecano echi favolistici e simbologie oscure, appena intuite, pare indicare questi nodi preferenziali di lettura. E certo, pur conta la figura di uomo del Sud radicato nella solarità accecata, pitica, della magia del senso, che si propone il redoublement nell’anima panica e aurorale, böckliniana, fatta di sottili ripensamenti mentali, del postromanticismo mitteleuropeo. Ma di pretesti, appunto, si tratta, di puri abbrivi. Arcangelo non è pittore di metafore, di intelligenze narrative, di equivalenze stilistiche. La sua mediterraneità non consiste in atteggiamenti filtrati, in una grande maniera. Piuttosto, nell’istinto del calarsi entro la materia e le sue energie, le sue facoltà emanatrici e le sue vocazioni di senso, e di operare come per flussi continui di condensazione, ritrovandone corporalmente le tensioni e lasciandole scorrere, in assenza di purificazione, nel corpo altro della pittura.
Lavora, per questo, sul paesaggio. Ma un paesaggio, nelle sedimentazioni storiche, è orizzonte che dà e toglie, che mette in scena e che cela, che garantisce della normalità topologica del sensibile, delle esistenze verticali imprigionate nel métron, che tentano il cielo.
Non è così per Arcangelo. Per lui, come per Artaud, “bisognerà pur mangiare la terra, un giorno”. Terra materia, pienezza, indistinto, quantità sorda, memoria e forma indefinitamente possibile, mutante. E cavità, ombra ctonia, doppio negativo dell’apparire al mondo; e fuoco, capacità di generazione e di crescita alla luce, per fisiologie. Il suo paesaggio, allora, non è uno scrivere intorno all’orizzonte, ma un continuo tentare la terra stessa come tòpos, quel limine originario e vagamente animistico in cui ciò che può essere scaturisce, compie le movenze prime e ancora non configurabili del darsi in immagine.
Perché questo rapporto d’eccitazione, d’irritazione del quantum fisiologico non debba trasmutarsi nella modalità convenzionale del dipingere, dei suoi codici storici, che son pur sempre di metamorfosi artificiosa, di trasferimento intenzionale, egli assume quell’energia, quella concretezza d’evento, sul proprio stesso corpo, in atto d’identificazione senza remore, tra naturalità potenziale e naturalità agente.
Ecco, allora, il senso di quel suo toccare, di quel suo usare le mani per impastare la materia alla tela, che è già, di per sé, primario gesto di vasaio, di scultore: di chi, cioè, inneschi la tensione degli atti dentro la materia senza rischi di calligrafia, di retorica progettante: atti d’origine, etimologicamente immediati e necessari, perché fondativi d’un affiorare al senso per differenze germinali.
Il frottage iniziale, la stratificazione della materia come per antica ritualità fatta emozione nervosa del braccio, il sovrapporsi e chieder spazio – impronta, sedimento all’inizio, poi crescita – dei bruni bianchi rossi grumosi e spossati, ma capaci di temperatura, si fanno paesaggio perché sono in sé, concretamente, luogo. La misura della superficie (piccola, per i crampi della mano; oppure un po’ più estesa del braccio, come amavano gli action-painters) è già il tutto di un’esperienza che si conosce come esperienza fondamentale della corporeità, e fida solo nell’alibi lontano della forma pittura. Ma senza le apparenze sensibilistiche, senza gli interposti fantasmatici del colore: solo materie, sono quelle di Arcangelo, capaci d’eccitarsi fino a dire i propri segni, e farsi immagine. La straordinaria ambiguità del lavoro di Arcangelo allora non è solo quella di ritrovare, sotto il rituale congelato dei codici pittorici, la gestualità sapienziale e atavica di chi fa avvenire nascite, ma anche quella di incrociare una complessa, doppia verticalità nei comportamenti della materia.
Sulla bidimensionalità del supporto, è il collidere impennato delle linee-forza verso l’alto, verso il cielo inconoscibile di questi luoghi sprofondati. Nella fisicità spaziale dell’opera, è l’assertività di queste crescite che si cumulano, che tendono a saturare lo spazio proliferando dalla pellicola superficiale verso un dove che è, cadute le alterità, lo stesso luogo d’esperienza di chi guardi. Del resto, questo doppio registro di plasticità implicito nel lavoro di Arcangelo (nel farsi forma, forti sono le tensioni strutturanti: anche se non mi spingerei, come fa Friedel nella sua lettura, a vedere “tracce architettoniche” e “patterns geometrici”; piuttosto, una plasticità organica, come “spazio vitale”, indicata da Pohlen) trova un corrispettivo sintomatico nelle opere scultoree che, nell’ultimo periodo, egli ha affrontato in modo sistematico. Nell’isolamento della cappa di vetro – quasi a mettere in risonanza, di nuovo, lo scorrimento tra separatezza e continuità dello spazio concreto dell’immagine: più scopertamente, la campana rende simulacro, icona rituale ciò che riveste… – la cera annerita si rileva dal grembo oscuro tentando la specifica individuazione della verticalità. Non è una formazione che possa concludersi in un definirsi, fissandosi in un oggetto sradicato dall’indistinto materiale da cui si eleva. È il momento stesso dell’ergersi, strappo primo dal brulichio dell’orizzonte, pulsando verso la differenza, fluendo verso consistenze e segni che si sappiano, per sé, che si facciano, nuovamente, spazio e luogo.
Più ancora che per i quadri, forte è la tentazione di riferire questi comportamenti non destinati della materia agli antichi climi aformali, di gestualità estroversa, di umori grondanti. Nulla, però, è in Arcangelo di quell’automatismo psichico, nulla della dissoluzione figurale protesa verso la purezza autofondata del segno. II lavorio delle sue mani nella materia, nei suoi modi di coagulo plastico, non si consente specchiamenti, non dice. È concentrato e consapevole della fondatezza originaria dei propri atti; si sa non nella relazione tra due corpi, tra due condizioni, sé e la pittura, ma nella tensione proliferante della loro organica identificazione. È totalmente vitale perché fa, non nominando, ma convocando accessi all’esistenza distinta della materia. Come l’antico plasticatore mediterraneo, non cerca un fantasma, e per questo trova un essere vitale.