Butti
Viggiù. Il Museo Butti, Milano 1982
Il Butti “era anche lui un geniale, più interessante per quello che era che per quello che faceva”. Così Eva Tea, nella sua storia dell’Accademia di Brera . Il giudizio, benevolo solo per metà, certo molto secco, in effetti non è poi lontanissimo dal vero. Enrico Butti è stato uno dei protagonisti indiscussi della scultura del suo tempo, ha dominato la scena dell’arte – soprattutto di quella lombarda – per oltre un cinquantennio, ma perché ne ha incarnato ad un tempo i pregi e i limiti, le ansie problematiche e le chiusure culturali: in una parola, quella sorta di buon senso provinciale e pragmatico che ha drenato le grandi novità del dibattito europeo in impianti di ricerca e d’espressione mai eccessivamente progressisti e però mai passatisti, di cauta apertura, affidati più alle virtù di un mestiere scintillante che a una penetrante elaborazione intellettuale.
Il Butti è stato una delle personalità esemplari in ogni senso della scultura di transizione tra Ottocento e Novecento. Da qui il suo cospicuo successo presso i contemporanei, la fama anche mondana; da qui anche l’appannamento attuale della sua immagine, relegata tra le memorie polverose di una stagione a tutt’oggi mal indagata e mal compresa, liquidata per lo più frettolosamente come brodo di coltura dei pochi artisti veramente geniali che seppe esprimere: il Vela e soprattutto il Grandi prima, e poi la straordinaria triade Gemito – Bistolfi – Rosso.
Ma se furono eccessivi, forse, i tributi d’onore che il Butti ebbe ai suoi tempi, altrettanto ingenerosa appare la svalutazione attuale. Se esiste – ed esiste – una “fattura italiana” che innerva di sé la storia della scultura moderna, essa si è definita attraverso la nascita e la permanenza di un milieu di ricerca la cui qualità media è sempre stata assai elevata e l’intensità espressiva non trascurabile, e non puramente in virtù di rare quanto eccellenti personalità. Per leggere correttamente i connotati di questo milieu, allora, bisogna mettersi in grado di interpretare nel giusto verso altri apporti, altre esperienze, da Barzaghi a Tabacchi, da Cecioni ad Amendola, da D’Orsi a Ximenes, da Trentacoste a Romanelli, da Bazzaro a Troubetzskoj: in questo contesto riconoscendo d’obbligo al Butti un ruolo di prim’ordine.

Butti, La morente, 1891, particolare
Enrico Butti nasce a Viggiù il 3 aprile 1847, figlio di Bernardo e Anna Maria Giudici. Viggiù è terra di marmorini, e la stessa famiglia Butti ne annovera più d’uno: oltre a Bernardo, intagliatore, anche Stefano e Guido, rispettivamente zio e cugino di Enrico. Giovanissimo, egli si trasferisce a Milano, dove vive contemporaneamente due importanti esperienze di approfondimento tecnico e culturale: da un lato, la routine di ornatista e di aiuto di bottega che lo vede frequentare gli studi di Barzaghi, Zannoni e Magni; dall’altro gli studi accademici, ancora con Magni, e la frequentazione degli ambienti artistici culturalmente più vivaci della città. E’ in questi anni che la sua fisionomia espressiva comincia ad assumere i suoi connotati di base, e soprattutto quel sottofondo di mestiere affinato e disinvolto che lo mette in grado di padroneggiare con sicurezza un repertorio di possibilità e soluzioni assai vasto: e di sopperire addirittura, in più d’una occasione, alla discontinuità delle scelte e degli orizzonti ai quali di volta in volta si rivolgerà.
Il suo esordio pubblico come scultore avviene nel 1872 con il Raffaello Sanzio adolescente (collocazione sconosciuta), cui fanno seguito in un breve volgere di anni 1’Eleonora d’Este che si reca a trovare il Tasso in carcere (1874, già al Demidoff di Leningrado), Stizze (1875), Il gerletto (1875) e altre, sino a Smorfiosa gajezza del 1877, presentata all’Esposizione di Brera. Questa fase di esplorazione giovanile del Butti rivela già la vocazione a muoversi a tutto campo nei territori della ricerca plastica, senza sostanziali adesioni di poetica e anzi tentando di mediare suggestioni di provenienza diversa: dall’intimo vigore plastico della sua matrice comacina a certe marginali accensioni scapigliate, dal virtuosismo aneddotico e sentimentale caro soprattutto alla scultura meridionale alla meticolosità descrittiva dell’accademia ottocentesca.
Con il 1879 si verifica nella sua produzione un significativo salto di qualità. La sua prima importante scultura tombale, L’angelo dell’evocazione, presentata all’Esposizione di Brera e vincitrice del premio Principe Umberto, denota una formulazione molto più salda e concentrata, che ricorre sapientemente a motivi patetici e a umori vagamente idealistici. Essa impronterà in un breve volgere di anni altri monumenti funebri, da Crux, ave spes unica! del 1881, poi distrutto, a Il tempo dell’‘84 a Fratres sumus per la tomba Galbiati al Monumentale di Milano, dell’‘85.
Del 1887-88 è Il minatore, opera con la quale il Butti si schiude un nuovo orizzonte espressivo, legato al realismo populista che proprio in quegli anni andava diffondendosi in modo massiccio nella cultura artistica italiana. Pezzo importante, e di indubbia qualità, esso è soprattutto rivelatore della straordinaria capacità del Butti di avvertire i mutamenti culturali nell’aria, e di aderirvi in virtù del suo solidissimo patrimonio di mestiere.
Ma l’anno cruciale della sua produzione, esemplare soprattutto per decifrare la personalità dell’artista, è il 1891. Con La morente, presentata all’Esposizione di Brera, egli dà la misura della sua possibilità di operare incursioni nell’area di ispirazione simbolista; contemporaneamente, pone mano al Monumento a Sirtori (completato nel 1892) ispirato invece a un sapido e vigoroso lavorio di superficie, ai limiti del pittoricismo. Ora, proprio la sequenza delle tre ultime opere citate induce a qualche riflessione.
Più d’una volta, in tempi recenti, la critica ha associato il Butti ora alle correnti di verismo sociale, ora a quelle simboliste, ora addirittura all’accademismo monumentale ufficiale, riconoscendogli persino una precocità d’intuizione e di adesione che ne farebbe una sorta di pioniere: sempre, naturalmente, estrapolando dalla sua produzione quei dati in grado di volta in volta di confermare queste tesi. Ebbene, a mio parere si è trattato di interpretazioni quantomeno forzose, e soprattutto fuorvianti rispetto alla reale complessità della natura espressiva dell’artista, sacrificata in nome di una vis catalogatoria fuor di luogo. E’ vero, egli ha fornito esempi dell’una come delle altre tendenze, ma con disinvolta noncuranza, in una sincronia di tempi e di modi che dovrebbe almeno instillare qualche dubbio sul suo rapporto con le poetiche. Il verismo e il simbolismo, come più tardi il novecentismo, non hanno mai significato per il Butti altro che possibili formule cui fare riferimento a seconda delle contingenze, e della natura – tematica e funzionale – delle opere cui poneva mano.
Inesauribile sperimentatore era certo, ma sperimentatore di tecniche, di pure possibilità formali da piegare ogni volta a un problema pratico, estremamente concreto, senza alcun tipo di remora verso soluzioni eclettiche e sincretismi anche azzardati.
Era un fagocitatore di stilemi, viveva l’arte non tanto come dimensione di ricerca dagli spessori complessi, quanto come pratica eminentemente professionale, in cui anche l’elaborazione intellettuale era finalizzata alla formulazione tecnica: con un’idea di qualità, dunque, che poggiava più sul grado di fattura e di confezione che non sull’intensità espressiva.
Certo, ha nuociuto alla lettura della sua attività la documentazione scarsa e disorganica finora a disposizione degli studiosi (di cui questa pubblicazione non vuole essere che una prima, e assai parziale, sistemazione). Ma più ancora, certamente, ha contato la sopravvalutazione generale dell’incidenza delle poetiche in un milieu culturale come quello italiano della fine dell’Ottocento, in cui semmai altri valori determinanti erano in gioco: prima di tutto la condizione produttiva della scultura, la cui committenza ne caratterizzava una destinazione a forte impronta funzionale e pubblica, senza metterne in discussione le sclerosi ottocentesche (solo negli anni Trenta del nostro secolo le nozioni di monumento, statua, eccetera, saranno sottoposte a vagli sostanziali); e per conseguenza, il valore di genere normativo, dotato di regole assai precise, mantenuto da destinazioni come la scultura tombale, il monumento celebrativo, quello commemorativo, e via discorrendo.

Butti, La Gloria, 1925, particolare
Ebbene, riguardando la produzione del Butti sulla scorta di queste ultime considerazioni, appare evidente che egli accettò in toto tali ambiti di genere, e addirittura perseguì un’immagine di scultore “pubblico”, indirizzando in ogni singola occasione il meglio delle proprie capacità e del proprio bagaglio tecnico-espressivo a dar vita a opere che corrispondessero pienamente ai canoni stabiliti, tanto che il suo svariare di poetica in poetica ci appare infine più come il tentativo di mettersi in consonanza con i codici del gusto in voga (seppure con un certo grado di sofisticatezza) che non come la vocazione ad assestarsi su solide basi di elaborazione culturale. Egli trattò i monumenti in primo luogo da monumenti, con tutte le implicazioni retoriche e teatrali del caso, e le tombe da tombe, toccando sempre le corde di un patetismo ora allegorico ora estenuato: quasi mai, per lui, si pose la questione della scultura in quanto scultura. Non che, stante tutto ciò, il Butti vada considerato un personaggio privo di nerbo e di qualità: anzi, nell’’orizzonte di quella qualità media cui si è accennato agli inizi egli è senza dubbio da considerare un personaggio di talento fuori del comune, come proprio pezzi come Il minatore, La morente e il Monumento a Sirtori testimoniano in maniera eloquente.
Nel 1893 l’artista ottiene la nomina a professore di scultura all’Accademia di Brera, e nel ‘95 la sua fama di personaggio pubblico, già membro e consigliere di importanti istituzioni culturali milanesi, si consolida con la nomina a membro della giuria per il concorso per la Porta Maggiore del Duomo.
Scatta così la serie delle commissioni importanti. Sul piano della scultura monumentale, il Monumento ad Alberto da Giussano a Legnano, vincitore del premio Principe Umberto nel 1897 e inaugurato nel 1900; I minatori del Sempione, del 1906, coevo del gruppo La tregua che guadagna per la terza volta al Butti il premio Principe Umberto; il frontoncino L’Unità d’Italia per il Vittoriano intorno al 1909; il Monumento a Verdi, inaugurato a Milano nel 1913.
Su quello della scultura funeraria, il Lavoratore in riposo della tomba Testoni di Varese, del 1900; Fede e scetticismo per la tomba Macchi-Sommaruga, del 1906; Mater consolatrix per l’edicola Erba (1912) e 1’Aratura per la tomba Besenzanica (1912), tutte al Monumentale di Milano.
Nel frattempo dà prova di eccellente ritrattista nella Targa a re Umberto, del 1902, nel Busto Annoni, dello stesso anno, nei due Autoritratti e nella Sandrina del 1905: da questa attività, che lo impegna lungo il corso di tutta la carriera, pare siano nati addirittura un centinaio di ritratti, in gran parte sconosciuti.
Il suo eclettismo è ormai pieno e maturo, e la sua vena si dimostra tanto variegata quanto inesauribile.
Purtroppo le malattie polmonari, che già lo avevano messo in difficoltà negli anni Settamnta e all’inizio dei Novanta, nel primo decennio del secolo si aggravano sempre più, costringendo l’artista a dimettersi dall’insegnamento alla fine del 1913.
Il Butti si ritira a Viggiù nella casa-studio nel cui parco sorgerà più tardi la gipsoteca, ma continua a lavorare intensamente. Vedono la luce lavori funerari come La morente per la tomba Monti (1915-16 c.), la Maddalena al Sepolcro per la tomba Crosti al Monumentale (1918-19 c.), e la Pagoda indiana per il mausoleo Magnani a Bregazzana, ultimo soprassalto di un eclettismo sconfinante nel kitsch esotico (1919), oltre a lavori minori. Nascono anche nuovi monumenti, intrisi ormai di aperta retorica patriottarda, come quelli ai caduti di Gallarate (1924) e di Varese. Certi caratteri suoi tipicissimi sono ancora riscontrabili, certo: dalla concezione dell’opera come scenografia del concetto e del sentimento alla costruzione dell’immagine intorno a un nucleo plastico ed espressivo principale, cui il resto fa da contorno e puro supporto (era il torso in Il minatore, è il grande Milite nel monumento ai caduti di Varese); dall’articolazione formale per masse piene e forti alla vena di innato e serrato realismo che sempre traspare. Ma all’artista, stanco e malato, mancano informazioni di prima mano su quanto accade nell’’arte, e la sua tempestività nell’allinearsi con le migliori novità del gusto ne risente. La sua verve si affievolisce, sorretta sempre più raramente dalle doti del mestiere.
Dal 1928 il Butti smette di scolpire e si dedica, con esiti assai modesti, alla pittura, l’unica pratica che gli anni e la salute gli consentano.
Muore a Viggiù il 21 gennaio 1932.