Percorso di Romagnoni, in Bepi Romagnoni. Opere 1953 – 1964, catalogo Museo della Permanente, Milano, 1995

“Quanto alla pittura è diventato un mestiere difficile e scabroso. Nelle cose è l’immagine del mondo, ma la nostra coscienza difficilmente trova la strada tra realtà e finzione”.

Così Bepi Romagnoni scrive all’amico Mino Ceretti nel settembre 1957. Il momento è fondamentale, per la sua ricerca.

Alle spalle lascia anni di confronto duro, ossoso, di caustica interrogatività, con la nozione di realismo corrente nella generazione della guerra; per il futuro, sa solo di doversi muovere con una “apertura ferocemente dinamica” sulle vie d’una creazione che non voglia ammettere uomini a una sola dimensione.

Gli esordi ufficiali di Romagnoni datano al 1955, galleria Schettini, Milano, mentore Emilio Tadini: il quale da subito ribadisce quel dipingere dell’artista “come se dovesse ripartire da zero”: non per rischio d’epigonismo, né di maniera – preoccupazione, questa, che sarà peraltro sempre presentissima in Romagnoni – ma per avvertimento che quel realismo, quella volontà programmatica e ideologicamente intenzionata, non risolve il dramma della storia e dell’esistenza: che permane, nonostante tutto, allarmante, ambiguo.

Come i compagni di via più vicini, Ceretti e Vaglieri, Banchieri e Guerreschi, Romagnoni sa di dover fare i conti con uno stare al mondo che non si faccia alibi di certezze teleologiche, di fideismi travisati in scienza dell’uomo. Sa di dover spogliare i propri occhi da ogni clausola interpretativa delle evidenze del mondo, e di doverle affrontare con un piglio di snudata acuminatezza e umiltà.

Nascono così gli interni desolati e le visioni urbane del 1955 e 1956. Soggetti banali, alle soglie dell’anonimato indifferente. Costrutti formali rastremati in architettura forte e di scabra elementarietà, a serrare lo spazio della visione in una sorta di sottile, appena avvertibile, iperdeterminazione di presenza: le cose stanno lì, non distanziate dall’interpretazione, impastate di materie dense e inamene: cose che ti guardano, come dubitanti, chiedendoti per la prima volta di pensarle fuor di retorica.

Pochi, sono i riferimenti reperibili, a quegli anni, per pitture come queste. Ben Shahn, certo, e attraverso questi l’espressionismo engagé dei Tedeschi degli anni Venti: e Orozco, depurato degli intenti declaratori e riletto in chiave di narratività fondamentale. Conta però, di tali poggiature, più ancora l’attitudine intellettuale che la formula pittorica, più l’idea di ripensabilità e di avvertimento affettivo del mondo che la soluzione formale.

Troppo, in quei tempi, si discute – e, va detto, fraintende – di formalismo; troppo si retorizza intorno alla nozione di qualità dell’opera; troppo, infine, si schematizza in raggruppamenti e movimenti, perché Romagnoni non avverta una sorta di renitenza basilare a pensare la pittura in chiave di formulazioni, anziché di distillate mozioni. Inoltre, è da considerare che questa è, per lui, una stagione formativa, nutrita di curiosità fagocitanti e insieme di “eroismi” giovanili, intransigenti, ultimativi, che s’avvertono incoercibili.

Al di là di ciò, tuttavia, agisce primariamente in Romagnoni un senso inflessibile dell’ethos, della coscienza responsabile del fare la pittura per motivate e alte ragioni, che mai lo abbandonerà, ed è l’autentica, fondativa eredità che egli introietta dai “maggior sui”, Renato Birolli in testa.

I quadri d’avvio del secondo lustro dei Cinquanta sono, dunque, più dichiarazioni d’intenti, e non banali rifiuti, che opere artistiche già inveranti certezze. E l’intento primo ne è concepire l’apparato sensibile dell’immagine come scena, come sorgiva condizione narrativa sensazionale, la cui concretezza non è restituzione trascrittiva, ma fantasmagoria di cui importa il flusso pulsante degli avvertimenti emotivi, che passa per le intensificazioni e le deformazioni dell’apparato grafico, per il rapporto nitidamente agonico e antiestetico con le materie, con i gesti dell’arte.

Sin d’ora, Romagnoni intuisce che, a fronte del mondo, si tratta di scrivere un feeling, di fondare una qualità reale dell’immagine che sia a un tempo racconto e stato di coscienza, appropriata e insieme autre. Adottando, ove occorra, anche un processo di agguerrita metamorfosi della forma per via di accelerazioni espressive, sino ai limiti del grottesco: in cui la mimesi, dunque, sia dia come discrepanza estrema.

Anno 1957. Echeggia nella coscienza di Romagnoni il dramma d’Ungheria, banco di prova di tante militanze, di tante certezze che si ritrovano orfane. L’esperienza del servizio militare, insieme, opera uno strappo brusco dal clima di solidarietà culturale (di geografia culturale, anche, in una Milano allora assai viva) in cui l’artista si è formato.

Egli ora sa che l’engagement altre vie deve per forza trovare, e soprattutto altre motivazioni. Non poggiandosi su certezze diverse, e neppure confidando in una convinzione d’autonomia dell’arte dal mondo che non appartiene alla sua cultura fondamentale. L’intuizione, che condivide subito con Ceretti, è che “non ha più alcun senso parlare di realismo allorché molto più esattamente e profondamente sono le ragioni e gli sviluppi della realtà che vanno esaminati”.

Romagnoni, Settembre '59, 1959

Romagnoni, Settembre '59, 1959

La questione della referenza, dello specchiamento del reale, lascia il campo a un’inquisizione che si orienta oltre il teatro mortale delle spoglie, che mira al movente e agli sviluppi dell’evento, al processo spaziale e temporale di modificazione di ciò che i sensi chiamano reale.

La “grammatica delle immagini ottiche” trascolora, nelle curiosità e sperimentazioni di Romagnoni, in favore di sollecitazioni assai differenti. Matta, in primo luogo, e il suo allarmato metamorfismo genetico: e Gorky, e De Kooning – con non episodici retrogusti kleiani, per quanto di questi autori si possa conoscere e ragionare da noi.

Il germe organico surreale monta sino a farsi concussione dell’organismo reale, grazie a “una specie di furia meticolosa” – così Tadini – che l’artista esplica in serie fitte e concatenate di fogli, e in dipinti di livida, aggressiva qualità.

Romagnoni non cerca traduzioni pittoriche del biologico, beninteso. In lui, agisce piuttosto una sorta di concentrazione di coscienza – che si fa segno, segno autonomamente genetico – intorno alle movenze metamorfiche dell’evento fisico: che si fa forma nello spazio, figura del tempo. Ora egli è certo dell’autonomia di senso della pratica artistica; ma si tratta di un’autonomia che vale equivalenza rispetto all’interesse mai dismesso per il mondo, per l’evento che chiamiamo reale. E’ la logica e la condizione interna dell’evento, la sua implicazione soggettiva e oggettiva, la sua valenza simbolica e memoriale, la carnalità e l’allusività, la varianza temporale, l’ambigua fisionomia spaziale, a costituire l’oggetto della scrittura pittorica, la quale tenta di comprendere, verificare, organizzare, rendere espliciti e compresenti tutti questi fattori in modo paritetico, inemotivo, ulteriormente oggettivo.

Cade, ora, l’antigraziosità a ogni costo, che ben era avvertibile nelle opere del 1957, e in genere la riottosità ad ammettere una qualità modale dell’immagine come elemento strutturalmente necessario. Anzi, Romagnoni intuisce che la nuova prospettiva espressiva che si dischiude presuppone una padronanza dell’artificio linguistico, e una flessibilità di mezzi e soluzioni, senza limiti strategici.

Le germinazioni organiche crescenti per relazioni policentriche in uno spazio che ha dell’amniotico, comunque dello psichico, che dal 1958 stabilmente abitano l’operare di Romagnoni, dicono addirittura d’una sua rinnovata radiante attenzione alla probabilità dello stile, nell’esprimere pittorico.

Ecco, allora, che il “realismo esistenziale” di cui scrive Valsecchi è, in realtà, una sorta di approccio critico alla cultura dell’informale, che muove dalla posizione del surrealismo strumentale assunto dall’artista come premessa ipotetica e operativa: cultura da intendere in senso ampio, e per la quale Crispolti spende acutamente, nell’inquadrare il caso di Romagnoni, i nomi di Canogar, Wols, Davie, Alechinsky, Vacchi, Scanavino…

“Realismo esistenziale”. Così, s’è detto, Valsecchi indica il clima milanese che ha protagonisti Romagnoni, Ceretti, Vaglieri e altri artisti. Ove il primo termine vale a indicare la sostanziale continuità, nell’origine del loro lavoro, rispetto alla premessa storica del realismo, e il secondo lo slittamento dell’epicentro problematico dalla oggettività alla coscienza, all’avvertimento di sé nei confronti del mondo. Il che giustifica, spesso, trascorrimenti lirici e aperture tutte poetiche, nel dipingere.

Rispetto a tale lettura, pur pertinente ai tempi (e certo spinta a dar risposte al naturalismo arcangeliano), la posizione di Romagnoni – e del sodale Ceretti – è a sua volta differenziata. E’, il loro, certo un ragionare senza posa e senza remora sulla realtà: scaturente da un senso di humanitas dell’arte, della cultura, che è filiazione non spuria della moralità di molti artisti della generazione precedente: ma che non si consente mai, peraltro, introversioni e intimismi, soggettivismi affettivi e reviviscenze romantiche.

Solo in questo senso si può, per Romagnoni, accogliere l’antica indicazione; e sapendo che non si tratta che d’una declinazione affatto particolare, e transeunte, d’un corso che ha in vista altre rotte, altri approdi.

Romagnoni s’interroga, tra 1958 e 1959, sulla consistenza problematica di nozioni come l’oggettività e l’evento. Sa, ormai, che la partita che si gioca con il reale è una partita che presuppone la totalità d’esperienza dell’opera, ma non necessariamente la sua unitarietà: in termini di lingua, di struttura, di senso.

S’aiuta con letture di fenomenologia, con le prove letterarie di Butor, in primis, e di Robbe-Grillet: nei quali proprio la contraddittorietà complessa degli eventi pone in compressione problematica il valore del racconto.

Analogamente, egli comincia a interrogare l’opera non come momento sintetico di comprensione dell’immagine, ma come luogo problematico del suo accadimento: fatto di respirazioni ed espansioni, di scarti e fratture, di relazioni evolventi e di scacchi di senso: accadimento, dunque, mutevole e ambiguo, il cui valore è nella coscienza stessa della metamorfosi, della transitorietà vitale e cieca al destino.

Torna ad aver luogo, ora, il suo senso antico della scena, della fantasmagoria. Che diviene, nelle pitture nuove, una sorta di viaggio non cartesiano entro gli spessori e le dimensioni della situazione, dell’evento, che non mira a serrarne un senso primo, ma a viverne contraddittoriamente, con sensuosa sofferenza, la molteplicità degli stati, e che ambisce a indicarne proprio lo stato mobile, anziché ergersene orgogliosamente ad arbitro del senso e dell’enunciazione.

Non le forme, dunque, ma le ragioni: “le ragioni sono ciò che ancora ci danno la possibilità di agire, da qui i gesti e tutti i concatenati modi del nascere di una pittura”: così recita il testo programmatico redatto da Romagnoni con Ceretti e Vaglieri per una mostra da Bergamini, Milano, 1959. Sono riflessioni alle quali Romagnoni ne aggiungerà, di lì a poco, altre: “il nostro desiderio di unità non deve sopraffare la complessità e contraddittorietà del reale; credo che l’unificazione debba essere l’ultima operazione di tutta una serie di contatti ed interrogazioni con le cose: ad un certo punto ci si dovrebbe accorgere che anche l’unità entra a far parte dell’organismo”: organismo che è una somma di accadimenti, di accidenti e di ineluttabili: che vive il tempo e lo spazio facendosene dimensione, spessore, consistenza stessa, qualificandoli non essendone determinato.

Romagnoni vede ora il quadro nascere per proliferazione di segni che valgono come grumi d’una quantità visiva addensata e aspra, che s’appongono fisici a farsi gangli d’un corpo impreventivo, che esplodono a dissolvere la certezza storica della forma, scrivendone le tracce dubitanti, incerte, di tesa e ansiosa provvisorietà.

E’ questa l’“imagerie organicistica” di cui scrive Crispolti, che Romagnoni svolge senza incorrere nelle trappole retoriche della monumentalità, dell’eloquenza dimostrativa, della sacralità antropomorfica soprattutto; anzi in una sorta di récit piano e drammaticamente freddo, in cui lo scrutinio processuale è prevalente su ogni ipotesi d’esito formale.

Avvicinandosi il 1960, tuttavia, l’artista sempre più matura una semplificazione strutturale dell’immagine, tale che sia lo spazio, la scansione bruscamente drammatica e satura di tensioni, a farsi elemento qualificativo, vero soggetto.

Di nuovo il colore, che aveva conosciuto brusche – sia pur, come sempre, disagiate – accensioni, riassume caratteristiche più struttive che sensibili: sono toni fondi di nero e bruno a far riverberare celesti e rossi macerati, induriti. E l’apparato lineare perde le convulsioni, gli attorcimenti febbrili, in favore di vere e proprie linee-forza che, senza bloccarlo, fissano lo spazio a un dràma introverso e come digrignante.

Scrive Tadini, a proposito delle opere a cavallo del cambio di decennio, d’una “volontà di rappresentare in un solo organismo figurale interamente concreto la fisicità e la carica di emozione che costituiscono un personaggio”: personaggio che è un fatto, definitivamente figura del tempo e dello spazio, figura che – è ancora Tadini – “conquista lo spazio, lo aggredisce e lo piega, gli dà corpo”, in identificazione totale di materia fisiologica ed energia emozionale.

Si esplicita così il senso dell’immagine come machina relazionale che Crispolti, giustamente, attribuisce a un ripensamento non ovvio, a quei tempi, di Boccioni. Del resto, Romagnoni espande, in questa stagione, gli à rebours strumentali nei materiali problematici della storia dell’arte. E’ certo guardando all’impiego ambiguamente oggettivo e linguistico dell’immagine reale che passa per il Dada tedesco – dai “politici” a Schwitters – che egli avverte come l’inserzione di materiali fotografici da rotocalco comporti la possibilità di amplificare lo spettro dei livelli di organizzazione e lettura del dipinto.

In un celebre testo, Romagnoni ne rivendica insieme il ruolo di puro mezzo espressivo (“così come lo è il tubetto di colore”), di innesco narrativo straniato (“aguzza-ingegno o banchetto dove tutte le forme del reale si mescolano ed hanno una brutale evidenza”) che muta l’economia di rapporti dell’opera, e insieme di monema visivo che il processo, squisitamente e senza remore pittorico, fa tornare ad essere omogeneo all’opera, al suo offrirsi come nudo momento-pausa d’una modificazione.

Ancora, con queste opere, che segnano tutta la stagione ultima di Romagnoni, egli pone con forza la condizione del racconto, dell’eventum visivo in cui plurimi modi e corsi e strati di lettura, di rapporto, divaricate condizioni temporali e psicologiche convivono, alla ricerca senza destino d’una unità possibile, sperata, ma non certa.

I personaggi e i racconti dell’ultima fase dell’artista dicono di strutture e di organizzazioni formali convulsivamente mobili, trascorrenti, orizzontalmente policentriche. Esse agiscono su un innesco primo di lettura, la spettacolarità, la brusca assertività ottica, com’era un tempo per le livide visioni di un vero disanimato, e chiedono allo spettatore una lettura aperta, disorientata, senza corsi gerarchici.

In pari tempo Gastone Novelli, giunto per tutt’altre vie ad affrontare la questione del racconto, parla di pascolo dell’occhio sulla tela.

Di questo pascolo, le immagini meccaniche rappresentano per Romagnoni la frontiera ultima dell’ambiguità interrogativa. Sono realtà riconoscibile, formulata, e insieme segni privi di storia e spessore, parificati all’artificio assoluto dei segni dell’arte: a loro volta referenziali, a loro volta disperatamente sottratti al mondo.

Per questo l’artista non accoglie la scarnificazione evidente della meccanica Pop, alla quale pure, per analogie di pelle, questi lavori vengono e verranno spesso riferiti. Addirittura, il processo di elaborazione (modificazione, ancora, metamorfosi) e di introiezione delle immagini meccaniche entro il tessuto artificioso del pittorico gli richiede di adottare strumenti retoricamente forti come il chiaroscuro, le ombreggiature enfaticamente portate, l’ipertrofia delle linee architettanti la struttura, l’accensione addirittura timbrica dei colori.

Il criticismo assoluto del procedere, lo svuotamento di referenzialità convenzionale, l’elaborazione lunga e metamorfica, dicono quanto in verità l’agire di Romagnoni si collochi su un versante lontanissimo dal congelato simulacro della Pop di rito statunitense. Ma questo non è, né sarà mai (anche per questioni cronologiche, rispetto ai tempi del dibattito italiano) un problema, per l’artista. Al quale, semmai, altre parentele, puramente esteriori, si possono trovare, soprattutto nell’area inglese che va da Kitaj a Blake a Hamilton: non a caso, artisti tutti in cui l’analiticità, la processualità, è prevalente sull’uso strumentale del ready-made iconografico.

Ha sottolineato con acume un altro protagonista di quei tempi, Gilles Aillaud, che in Romagnoni è del tutto assente la componente feticistica e convenzionalmente simbolica dell’immagine a stampa, in favore di una ricomposizione pittorica, e di una rielaborazione narrativa procedente per intensificazioni progressive.

E’ in questa chiave, dunque, che va letto il tempo finale, bruscamente interrotto, del percorso di Romagnoni. Una chiave che consente, infine, di misurarne l’integrità, sino all’ultimo, dell’ethos, della moralità intransigente e autocritica che, sino alla fine, ne guida le scelte: e che solo le stagioni della smobilitazione etica degli anni Sessanta hanno potuto, per molto tempo ma non definitivamente, mettere in ombra.

 

 Nota

Lettura fondamentale su Romagnoni resta E. Crispolti – G.Kaisserlian – E. Tadini, Bepi Romagnoni. Un giovane maestro della pittura contemporanea, Alfieri, Venezia 1966, ricchissimo di apparati documentari. Si vedano inoltre Bepi Romagnoni, catalogo, Palazzo Reale, Milano, 1972, con testo di M. De Micheli; F. Gualdoni, Bepi Romagnoni. Disegni editi ed inediti 1956-63, Peccolo, Livorno 1989; Bepi Romagnoni (Dipinti e disegni 1954-1964), catalogo, Padiglione d’Arte Contemporanea, Ferrara, 1994, con testo di C. Spadoni.