Morandi
L’ultimo Morandi, in Giorgio Morandi, catalogo, Museo dell’Ermitage, Leningrado, e altre sedi, 1989, Electa, Milano 1989
“In the overcrowded and often uncertain world of contemporary art Morandi appears as a fixed point”.

Morandi, Natura morta, 1949
L’espressione di Umbro Apollonio del 1949 è segno eloquente del mutamento, di letture e intendimenti prima ancora che d’attitudine stilistica propria, riguardante il lavoro di Morandi durante il secondo dopoguerra. L’infrequentirsi delle prove interpretative, Brandi Arcangeli Raimondi Gnudi Longhi in testa; il premio assegnatogli alla Biennale veneziana del 1948, la stessa che dà il massimo riconoscimento a Braque; la contemporanea antologica grafica alla Calcografia Nazionale di Roma, cui segue quella del 1949 a Bruxelles, dicono d’una attenzione, d’una misurata ma precisa popolarità, che erige l’artista a modello, a riferimento stabile e definitivamente acquisito, nel momento di più complessa e dubbia transizione storica e culturale del secolo. Troppe sono le prosecuzioni prive di necessità, tra le personalità attive nei decenni precedenti; troppo brusca e schematica, nella generazione emergente, la divaricazione tra un engagement che, misurando il proprio spessore di coscienza sul visibile, se ne fa meccanica derivazione, e un formalismo che si identifica in un non-oggettivismo ideologico, accademicamente normativo.
Morandi è, per tutti, paradigma. Circondato di rispetto senza remore, assente dal vivo del dibattito quanto ben presente cori là sua fervida maturità espressiva, è oggetto d’amori e ripulse estremi, come accade solo alle figure autenticamente fondative. La sovrana estraneità, il distacco severo dalle ragioni meccaniche della storia, ne fanno una figura uscita incontaminata dalle turpitudini politiche e culturali del ventennio precedente; moralmente esemplare. Per converso, il suo incarnare un valore di modernità qualitativamente radicata, esente da teoricismi e sperimentalismi di comportamento avanguardistico, connaturato a un’idea rifiltrata di tradizione, ne fa una sorta di sponda polemica per eccellenza. Letture venate di non sempre lucido idealismo ne fissano stereotipi trascorrenti da quello del pittore poeticamente puro, alieno da riscontri concettuali dell’atteggiamento artistico, naturalmente “classico”, a quello, più riduttivo ma più circolante, del monotono ordinato inventore di microcosmi piccolo-borghesi, meditativi, intimisti, incapaci di avventura, indifferenti alle ragioni del moderno. Da qui il sospetto dei nuovi vessilliferi del realismo rinnovato, che ne leggono impropriamente un fondo di smobilitazione etica; da qui i rigetti dei fautori del moderno come linguaggio, come stile dichiarato. In realtà, provinciale non è Morandi, ma il dibattito culturale italiano – e, in questo momento, europeo – incapace, con il limitato strumentario problematico dell’epoca, di travalicare quegli stereotipi e spingersi a intendere la diversità specifica di Morandi, costruita e difesa in decenni d’esercizio inflessibile, quella diversità che lo induce a una posizione ritratta, reticente, né testimoniale né esemplare, riottosa a dichiarazioni d’intenti e dimostrazioni, ma di tale incoercibile tensione e congruenza da collocarsi tra le rare, non inautentiche avventure del pensiero e della forma del nostro secolo.

Morandi, Paesaggio, 1953, particolare
Morandi è, nel dopoguerra, un “caso”, e un caso precipuamente italiano: questo è il limite vero, ma del mondo, non dell’artista. Egli, Morandi, in questi stessi anni Quaranta è alle soglie d’una maturità che si prospetta di fervore inusitato, per continuità e intensità di raggiungimenti. Dopo l’isolamento a Grizzana per le vicende della guerra (1943-1944), da cui scaturisce una serie di Paesaggi in cui la visione s’aggruma, smagrita, in verdi nervati di grigio e rialzi bianchi attoniti nella luce chiara e distesa, come a stringere in canto emozionato le forme dimesse, ecco, di nuovo, serie di fiori, e nature morte. Il dissolversi drammatico delle forme nelle materie spesse e frementi, la vertigine sorda e sottile dell’oggetto che cresce alla luce come consistenza, l’incedere potente d’una visibilità che pare imporsi all’occhio, concitando la mano a tramature di pennellate fratte, urgenti, che segnano il quadro di cesure, ombre come corpi, viraggi inaciditi di tono: il dubbio ultimo, la domanda reiterata all’esistente se stia, lì, per effetto o figura di coscienza, in quella misura monumentale e insieme pericolante: tutto ciò, dagli anni precedenti, trascorre. I ragionari dei tardi Quaranta a questo conducono Morandi. Le cose s’assettano, s’articolano complesse sul piano d’orizzonte , ancora ravvicinato e appena abbassato, come a garantire allo sguardo una presa involvente, una padronanza penetrante. Si scandiscono in apparente, sobria paratassi, appena trovando semplici diagonali, oppure con un gruppo infittito d’oggetti a far da scena serrata ad altri, avanzati. La luce vi incide piena, alta, sovente laterale, quasi a imbevere d’un tono saldo e senza fremiti gli oggetti. Essi, gli oggetti, hanno però come perduto quel peso spaziale, la concretezza, che è ancora corporeità, la rispondenza forte allo sguardo, l’ovvia ma insieme orgogliosa certezza d’esistenza al mondo, come mondo. Senza la definizione tersa, volumetrica, mentalmente scandita, delle prove del 1920, è a quelle trasparenze che di nuovo le immagini giungono. Una trasparenza che è ora, per Morandi, confidenza assoluta nel soggetto, e insieme svalutazione definitiva. L’incedere breve, intensivo, per stacchi lunghi e ripensati delle pennellate, che intrecciano non rapporti solidi di forma ma lenti, rilassati ritmi tonali, variazioni minute e nette come per contrappunto luminoso – e l’ombra, l’ombra stessa vi è metro tonale, modulazione non sottrattiva di luce – ritrova gli oggetti in quanto accidenti, evidenze irresponsabili in sé d’un formare che è purificata cadenza melodica del colore, nella luce.
C’è una larghezza, sobria e meditata, d’impianto, che nasce dal ritegno definitivo di Morandi – o disinteresse maturato – a intendere le cose come geometrie capaci d’uno spazio totale e stringente, e garantito dal pensiero, come per minima ma ineluttabile cosmogonia. L’oggetto non è più, ora, l’altro, differenza e distanza fatta corpo, ma un eventum, in sé insignificante, dell’interna movenza del formarsi dell’immagine, nella coscienza primamente e sulla tela, per via di colore, d’apparenza luminosa. Non è monumento, non è colonna d’una architettura che possa ancora dire un reale, tutto: può essere, per l’occhio che impietoso ne traversa la sembianza, piede d’una metrica che di quel reale dica la perdita, senza dramma senza nostalgia.

Morandi, Natura morta, 1960
E’ come se Morandi, avendo saggiato fino al parossismo la tensione tellurica di quelle forme fino a vedere il sublime possibile, alla perfezione, infine, si volgesse, alla facoltà –reticente, di nuovo, segreta – di assaporare la pittura come pienezza aggirando il logorio emotivo, il pathos, l’ansimare dello scavo. Non è, forse, il Morandi “rasserenato” di qualche lettura di quel momento, men che meno è un Morandi “grazioso”. Il valore di compiutezza, di chiusura sobria e composta della forma, di rispondenza distillata dei toni, è tensione ulteriore alla plenitudine di senso dell’immagine, ma che si affida a una padronanza concentratissima, a un’intensità di inemotiva certezza, d’irrevocabile ma ormai fisiologica notomia mentale. “Pictor classicus” è voluto, a buona ragione e senza proclami, da quanti seguono le sue sorti. Il motivo è anche questo.
Un’altra confidenza, rilassata e autorevole, Morandi mostra d’altronde in questo medesimo volgere di anni: con la maestria, con un talento così posseduto e dispiegato da renderlo, senza mai trascendere le soglie d’una naturale severità, piena e preziosa tastiera di variazioni poetiche. Lo svariare continuo e sottile di certi bianchi, l’intridersi delle ocre di alonature rosate, lo spossarsi lento dei grigi pallidi nel giallo, nell’argentino addolcito, così come la minuzia di certi colpeggi che alzano carnalmente il colore, o lo sfaldano nell’indefinitezza pallida della luce; ancora, l’astuzia di certi minimi scarti prospettici, nel rimandarsi di sagome e ombre, e il tenere la pellicola delle cose appena al di qua del riflesso luminoso, come per sotterranea irritazione… Senza bizantinismi, senza struggimenti estenuati, Morandi si concede certo, ora, dopo decenni di movenze pittoriche risentite fino al puro necessario, piaceri inusitati, distensioni sconosciute: che sono margini più cospicui, per lui, di variazione e invenzione.
Il 1949 e il 1950 mostrano, tuttavia, che Morandi non è ancora disposto a costringersi entro i termini d’un pur eccelso e “perfetto” codice pittorico e di immagine. Due Nature morte del 1949 (entrambe donate dalle sorelle Morandi alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna), l’una architettata su un gruppo diagonale/orizzontale d’oggetti che invade il piano visivo, l’altra completamente centripeta, assiale, distanziata – com’è dei Fiori di questi stessi momenti, composizioni intransigenti al pari delle metafisiche, pur nell’esitare squisito, discreto delle forme nella luce – schiudono il nuovo scarto problematico dell’artista. Caduta ogni resa accidentale, ogni pur accessorio residuo descrittivo, nel pennelleggiare nuovamente mosso e fluente, intriso di sottili sprezzature luminose, nel rendere le sagome come evidenze dai contorni intimiditi – non per ansia d’esistenza, ora, ma per crescita allo spazio in quanto intrinseco, irrelato avvenire pittorico – e geometrie colorate prive di solidità e spaziosità preventiva, Morandi saggia l’estremo d’una pittura di soggetti che non valga a certificazione di realtà, di contingenza sensibile. Più ancora che il “valore originario della loro esistenza” (Haftmann), che è certo non smentita filigrana, metafisica, ma, appunto, ormai solo filigrana, l’artista sconta ora, definitivamente, la questione stessa d’un possibile esistere separato delle cose, in distonia spazio/temporale rispetto alla coscienza che avverte, ripensa, fa, in pura forma pittorica, perfettibile, in tensione verso un assoluto dotato d’una propria, compiutamente fondata, oggettività sensibile e sostanza poetica.
Questo è, forse, ciò che Morandi intende quando afferma che “nulla è più astratto del mondo visibile”. Non è solo una risposta, acuta, venata di ironica civetteria e distacco sapienziale, a quanti ne tentano, in quegli anni, una lettura in chiave di corrispettivo “figurativo” a Mondrian, a Rothko, o lo indicano (Courthion) “Chardin d’après le Cubisme”. Indifferente a strategie stilistiche contingenti, avaro di collocazioni che suonino prospettiva d’autostoricizzazione, Morandi ben sa quale sia la partita che la modernità, l’avventurosa avanguardia, sta giocando con le ragioni stesse, con la necessità, della pittura, dell’immagine d’arte. Ma la sua privatissima e interiorissima partita non è con queste relatività, con le postulazioni discorsive che incrociano il suo corso. Punti di triangolazione, per nulla sottovalutati o fraintesi, esse certo sono: ma per verificare, con l’acribia intransigente alla quale, sola, risponde, la lucidità senza riserve del suo viaggio esclusivo nella vertigine profonda dei sensi, nel tempo storico fatto esistenza transeunte, teso a riaffiorare e approdare a una purificatissima sensorialità altra, a una restituzione d’esistenza tutta riportata al mentale, in odore d’assoluto possibile: che è, egli ne è certo, la ragione fondante della grande civiltà pittorica d’Occidente.

Morandi, Natura morta, 1962
E’ questa la mira delle serie degli anni Cinquanta, preannunciate dalla salda e insieme sospesa – un po’ scommessa, un po’ maturato cambio di passo – Natura morta del 1949. Ancora più infittite e insieme prosciugate d’inneschi tematici – è un puro comporre, e compiere, ormai, in cui il variare vale ben più del tema – esse ritrovano una durezza acuminata di sguardo, una penetrazione inesorabile dell’evidenza, una tensione d’oggettivazione pittorica (in luogo di debito all’oggettività), che per altezza di sentimento formale e insieme pienezza e nitore qualitativo – è questa l’unica naturalità possibile, in arte – pervengono a esiti, in effetto, assoluti.
Procedono, le serie, come “giornate”: d’un ragionare formale così accertato e teso da consentirsi di scandire, occasione su occasione, i picchi d’un flusso d’avvertimenti dotato d’una sua propria quotidianità: che non è sentimento del tempo, dell’essere al mondo, ma coscienza d’esistere in quanto identificazione totale nel pensare pittura, nel far essere forma. Questo è il senso di durata, d’istituzione concreta delle immagini, che passa attraverso il laborioso, cristallizzato comporre degli anni che scorrono al 1957. Rialzato e allontanato il punto di vista; intensificata in candore calcinante l’incidenza luminosa, condotta sempre più frontalmente fino a elidere l’ombra o ridurla a mera frontiera cromatica; messa in mora la volumetria e la relatività prospettica degli oggetti, intesi puri valori ormai d’un apparire alla luce che si fa tentare da una composta tarsia bidimensionale, Morandi tutto concentra nell’interna misura cromatica dell’immagine, stringendo le concordanze tonali a pochi accordi decantatissimi. Tra il bruno increspato, sobriamente irritato, e un bianco continuamente roso dalla riflessione luminosa diretta, si svolgono differenziali di cui conta quasi esclusivamente, in assenza d’effetto ed esteriorizzazione, l’apporto all’intonazione complessiva, trascorrente da un grigio appena sgarbato a una sospesa, perlata ambratura. Pochi e aggruppati con umile semplicità, oppure serrati a far gruppo di nette tensioni verticali, o più spesso ancora disposti in modo che il motivo rettangolo delle scatole ponga in risonanza l’orizzonte e insieme lo chiuda al profilo delle bottiglie, in un’aggregazione centrale dai severi ritmi geometrici, gli oggetti si ritrovano lì, con i loro “contorni sbrecciati, tremanti” (Brandi), a far da protagonisti irresponsabili allo scrutinio ultimativo dell’artista.
Sagome, impronte di dematerializzata tessititura luminosa sono ormai le cose, astratte nella loro sostanza concettuale prima ancora, e assai più fondamentalmente, che nella sembianza. Questo intende certo Magnani quando richiama, a proposito delle sovrane geometrie morandiane, la nozione di “meditato distacco” di cui dice Goethe. D’altronde proprio una Natura morta, 1953, della collezione Magnani può essere assunta a vessillo di questo corso di esperienze. Tre bottiglie bianche si stagliano, come in negativo, in perfetta simmetria, sulla superficie addensante del trio di scatole posposte, le quali, a loro volta, scandiscono in rigore semplice e potente il concerto d’orizzontali e verticali. Il motivo non è nuovo, in Morandi. Già negli anni Trenta, annunciandosi il corpo a corpo serrato con la sostanza apparente delle cose, con la loro fisiologia spaziale, l’artista offre, per esempio in una straordinaria incisione del 1931, il germe di un ripensamento della forma per scansioni luminose spinto fino all’estremo del negativo/positivo, d’una sorta di puro differenziale bidimensionale, pur non ideologizzato.
Ora, quell’intuizione ha pieno svolgimento. Che la responsabilità dell’evidenza dell’immagine risieda, senza remore, nel processo formativo del pensiero, è detto dal precisarsi e dall’irrobustirsi di altre scelte. Non solo la stesura pittorica, ora come non mai, cresce per tramature imponderabili, stratificando veli che imprigionano la qualità luminosa, con la certezza sobria che era degli anni metafisici, e in più la pienezza rilassata che nasce da una padronanza esente da dimostrazioni; con una forza, anche, d’emanare fascinazione, bellezza infine, come per vocazione connaturata. La pratica del disegno, insieme, assume per intensità e tono di frequentazione un ruolo che è ben più del laboratorio compositivo, dello studio d’assetti. La linea corre senza definire, senza chiudere, senza istituire gangli strutturali forti. E’, piuttosto, come un filo monodico che fluisce e mette in risonanza spazi, indifferente ad altro che non sia lo svariare – qui tutto mentale – delle possibilità luminose di quel bianco.
L’acquarello, insieme, trova una necessità inusitata. E’, per sua stessa tradizione di genere, coloritura d’atmosfera, destituzione d’ogni grevità residua della materia cromatica, crescita alla luce d’una forma non architettonicamente preventiva. E’ nell’acquarello che il corso verso la più rarefatta, stupefatta epifania, quella in cui infine anche il fantasma strutturale e simbolico delle cose si sfalda nel puro zonarsi qualitativo del colore, nel gioco libero – ma quanto consapevole, non facoltativo – degli addensamenti e delle pause, si compie. E questa l’“astrazione” di Morandi, in cui il termine può indicare solo con amplissimo margine d’improprietà la sostanza e l’altezza degli esiti. Nature morte come quella, di baluginante poesia, del 1960 mostrano come lo sguardo, penetrando l’esperienza sensoriale sino a farne trascolorare le ragioni relative, possa fissarsi in mero dato d’una coscienza che s’avverte trascendendo il mondo per via di assolute concentrazioni poetiche, picchi di totalità puntuale, anziché per straniamento, o sostituzione, o alienazione rispetto al mondo. Altre, che marcano gli ultimi anni d’attività dell’artista, in uno spettro di variazioni ormai a pieno raggio, offrono sagome ancor più sintetiche e acuminatamente imperfette, fatte di gesti che macerano la sostanza pittorica in movenze di piena, lancinante intensità.
Anche i paesaggi riannodano le fila delle intuizioni altissime, ma ancora venate d’un cupo sotterraneo pathos, di quelli bellici. Lo spigolo di muro che misura lo spazio, ancora rinserrato e fondo, del Paesaggio del 1961 tra quel cielo estraneo e il macerarsi allentato dei verdi, si ritrova esile asse d’una tramatura strutturale dissolta, ormai, nel crepitare dei bruni e verdi imbigiti, d’introversa consistenza, del Paesaggio del 1962: è, infine, puro stacco, accento, métron, in quel vero e proprio testamento che è il Paesaggio del 1963, pittura definitivamente non abbigliata, non debitrice che alla propria interna tensione all’esprimere.
Anche il rapporto con la pittura, infine, traspare come immedesimazione definitiva in una ragione linguistica la cui sostanza storica, problematica, fabrile s’intende non sul piano delle specifiche modalità, strumenti a loro volta relativi d’un dire il pensiero, ma su quello della facoltà fondante che è all’origine stessa della pittura, di farsi forma della coscienza, della possibilità sua di sapersi prima ancora che d’esternarsi. Tradizionale, moderno; figurale, astratto: non queste ragioni accidentali, allora, valgono per Morandi. E’ un pensare pittura, il suo, che non è proiettare filosoficamente, ma, senza riserve e trasposizioni, al più alto grado, attuata filosofia; e poesia. “Le poète”, ha scritto Ponge, “ne doit jamais proposer une pensée mais un objet, c’est-à-dire que même à la pensée il doit faire prendre une pose d’objet”.