L’arte illustrata. Un percorso
L’arte illustrata. Un percorso, in L’arte illustrata. Da Klinger a Dalì, catalogo, Musei Civici Villa Mirabello, Varese, 25 maggio – 28 luglio 1996, Mazzotta, Milano 1996
In un’epoca neppure tanto lontana nel tempo, la cultura europea ha potuto concepire se stessa come un universum coerente e congruente, ricco di scambi e incroci disciplinari originati dalla coscienza dell’unicità della matrice, e del modello, di valore al quale poter fare riferimento.
Il profilo alto e stagliato delle discipline era, allora, sostenibile da una circolazione ideale e intellettuale per la quale inseguire la Gesamtkunstwerk era progetto assai meno ambizioso (Lucio Fontana, ancora, mostrerà che è possibile) di quanto oggi, in epoca di artmakers e strategie mediali dell’immagine artistica, possa parere.
Tale considerazione può valere da preliminare problematico per decifrare lo scambio fervido di suggestioni e inneschi inventivi tra ricerca figurativa, letteratura e musica, di cui questa mostra vuole offrire un panorama esemplare.
Le opere scelte datano dalla fine dell’Ottocento e si dipanano per circa un secolo: Max Klinger, Odilon Redon, Marc Chagall, Fernand Léger, Joan Mirò, Hans Bellmer, Salvador Dalì, rappresentano uno dei percorsi più cospicui dell’avanguardia del nostro secolo.
Non si tratta in senso stretto di opere di illustrazione: esse sono, invece, la dimostrazione che anche nel campo dell’illustrazione la rivoluzione della fine del secolo scorso e dell’inizio del nostro porta un rinnovamento profondo, definitivo.
Ciò che vi leggiamo non è la traduzione visiva, per taluni versi comunque funzionale, del testo in immagine; non il commento, la desunzione, l’esplicitazione: piuttosto, uno scambio intenso e profondo di umori, e suggestioni, e reciproci riverberi, che innesca il rapporto tra discipline in modo non gerarchico, per accolta reciproca dignità e autonomia linguistica: soprattutto, per reciproco amore.
Blake, Laocoon, 1820 c.
Assai lunga è la storia dell’illustrazione. E fondamentale nel suo contributo allo svolgersi della ricerca artistica tutta: nella dimensione, soprattutto, del narrare, d’una evidenza plastica dell’idea stessa di storia, e scena, che forse i postumi del barocco non avrebbero potuto riconcepire senza la poggiatura unitaria del narrare letterario.
Nel contempo, essa è l’ambito primo ove si coagula il costituirsi stesso dell’immaginazione, ciò che Italo Calvino, nella forse più memorabile delle Lezioni americane, sulla visibilità, fa rimontare all’Ignacio de Loyola della “composición viendo el lugar”, la composizione visiva del luogo, e che Starobinski ci ha indicato essere un moto bidirezionale, dall’individuo verso il mondo, e dal’’individuo all’interno di sé.
Ebbene, l’illustrazione è crogiolo dell’immaginazione stessa, nella totalità predisciplinare che nelle discipline trova i segni le lingue per dirsi, e insieme ne è l’ambito di mutazione critica e autocritica. E la sua “composición viendo el lugar” si rivoluziona, appunto, dall’appropriatezza topica del Cinquecento, che permane sempre più speziata e accelerata ancora nel secolo scorso – penso ai Gavarni, ai Daumier, ai Doré, … – sino al punto di ribaltamento topologico e alla dissoluzione narrativa che è della modernità, e della quale le opere scelte vogliono far mostra.
Della modernità, s’intende, per via di assunzione definitiva di consapevolezza dell’ introversione dello sguardo all’interno, verso i meandri dell’animo che l’arte stessa, più ancora che la psicanalisi, ci ha fatto intravedere; ma che, a ben considerare, si nutre d’una lunga incubazione, l’incubazione del Blake del Book of Thel e dei Prophetic Books, del Delacroix demoniaco del Faust, che si proietta sino ai Poe vertiginosi di Manet e di Previati, a ridosso della visione altra che oggi ci fa vivere.
Proprio Blake c’insegna che la parola e l’immagine sono come il profumo e la rosa. Ebbene, il corso della vicenda dell’illustrare del nostro secolo ci dice che, infine, tale congeneità fondamentale è stata riletta e rivissuta in altro modo, di profumo in profumo, di intensità in intensità, da una ineffabilità all’altra, senza nostalgia per il perdersi nel disincanto dei segnali del mondo, nella gran danza di figure della mente.
Danze di figure della mente, e di fantasmi, sono per eccellenza le due serie che aprono il nostro percorso, la Brahmsphantasie di Klinger e Tentation de Saint-Antoine di Redon.

Klinger, Brahmsphantasie, 1890-1894
Da un canto la musica, l’arte senza corpo che di lì a pochi anni darà vita alla spiritualità purificata dei Kandinskij, dei Klee, e che ancora si assapora in bilico con il trasognamento eroico – ma già slontanato in sospensione affettiva – del mito classico della figura umana, che s’avverte come spossato, come distillato entro i sentori d’uno straniamento profondo, lo stesso che traversa i quasi coevi Cento volti della luna di Yoshitoshi, non così lontani come la geografia vorrebbe far credere.
Dall’altro la vertigine, tra le prime volte tentata nella modernità, della parola visionaria, che si fa germe d’una surrealtà che Redon spinge, blakianamente, ben oltre la soglia della meccanica machina simbolica.
La parola e la sua vertigine, la parola e la sovversione (Jabès: “scrivere è affrontare un volto sconosciuto”: chi darà visione un giorno alla parola di Jabès?): ecco, dunque, la Bibbia di Chagall, il trascendimento primo e ultimo del narrare, della visibilità del senso, che l’artista ritrova negli spessori forti della féerie, d’un dire popolaresco abilitato ancora alla magia: che nella serie quasi contrapponibile, e prosasticamente “bassa”, delle Anime morte, si sprigiona nell’iridescenza dei sovrasensi, nella scommessa continua con la mortalità della parola e del segno che, esprimendo, non voglia fissare e uccidere.
E’ così anche nel Gargantua rabelaisiano di Dalì, che alla narratività proliferante e visionaria di Bosch si poggia per un figurare ridotto a mero schema retorico, d’una retorica forte e scenografica che regga entro le proprie maglie la dissoluzione grottesca della mimesi.
Sceglie, l’avanguardia dubitante della verità possibile, le vie della poesia che non “distilla un senso sorprendente da ordinari significati” (Dickinson), ma scava sapienzialmente, in deriva definitiva.
E sono le Illuminations di Rimbaud, un “che ci faccio qui?” che si fa conflagrazione cubofuturista dell’attesa di significato ordinario, nel viaggio cieco della coscienza infinitamente espansa, nell’indifferenza del luogo, dello spazio, del tempo; e all’indietro (nella storia della parola) il Lautréamont santone primo della visionarietà surrealista nell’eros corroso di Bellmer; e alla sorgente di tutto, la parola prima, piena e totalmente radiante ancora, di Eraclito, che Mirò fa essere meditazione sensuosa e perfettamente concentrata e ridosso del vuoto orientale.
E’ un viaggio possibile, tra i molti diversi incrociati nomadi che la cultura sfrangiata della modernità rende possibili. Ma è un viaggio che mira, scavando sotto le fattezze dei segni, a trovare il grumo primo del senso, vero e necessario, e per questo sacro. Che è, infine, l’ambizione estrema delle arti tutte, l’unità fondamentale che ancora permane.