Griffa
Giorgio Griffa. “Matisseria” e altri lavori, catalogo, Galleria Martano, Torino, 7 ottobre 1982
Nel lavoro che Giorgio Griffa conduce ormai da circa un quindicennio sono avvertibili con evidenza i termini problematici che ne costituiscono il fattore interno di spinta e di continuità.

Griffa, Senza titolo, 1975
In primo luogo l’idea di pittura come territorio di possibilità conoscitive che si producono dall’esperienza della sua identità del suo bagaglio storico, che motiva la “convinzione di essere un pittore tradizionale” che l’artista ha più volte rivendicato. In secondo luogo l’esercizio assiduo delle implicazioni scrutinanti della pratica, cui non è estraneo il vaglio rigoroso della proiezione mentale: la quale non è, tuttavia, un assunto di tipo programmatico e tantomeno dogmatico, e si presenta piuttosto come un severo, continuo avvertimento dei bivii di scelta, dei nodi critici – nell’accezione più piena del termine – del fare. Inoltre, la concentrazione del proprio orizzonte operativo nel punto-limite in cui l’immagine pittorica si dà nella sua genesi primaria, nell’interstizio significativo “in cui le relazioni non sono ancora rappresentazione”. E ancora, la scarnificazione estrema della componente di fattura, della possibilità di gesto (“appoggiare il colore dentro alla tela”) , regolata da una neutralità che si erige a norma generale, da una solare (e a ben vedere non priva di civetteria, ché non si spiegherebbe altrimenti l’eleganza che è connaturata alla cifra di Griffa) laicizzazione della ritualità della pittura, in modo che la ricerca di valore risieda soprattutto nella nitida e compiuta qualità, a un tempo empirica e mentale, del processo.
Sono tratti, tutti, che Griffa ha sempre dispiegato senza ambiguità, nel loro convergere verso la tensione di un segno/colore che si carichi, al massimo grado di distillazione e di forza, del “sedimento storico della pittura”: un segno che pensi anche la memoria, la propria memoria, non come luogo di evocazioni e invece di relazioni, rese tanto più significative quanto più si sono arricchite nei corsi elaboranti del far di pittura.
Nulla a che fare, dunque, con il laboratorio asettico dei chirurghi del pennello che pontificavano anni fa, cui pure qualche eccesso ideologico della critica cercò di iscrivere anche Griffa: in tal caso, come si motiverebbe il suo repertorio coloristico scalato su complementari e mezzi toni, che attinge dal Rinascimento al Settecento, dalla Secessione a Matisse e che, soprattutto, non rinnega un’antica filigrana paesistica? E il sapiente eccitare scarti, vibrazioni, espansioni, sacche di senso, là dove si vorrebbe una meccanica iterazione di gesti?
In effetti ecco la produzione recente dell’artista render pienamente conto proprio di questa diversa complessione, della sua cospicua ragione interna. Il nume tutelare ne è, ormai esplicitamente, Matisse, la cui suggestione data da tempo nel lavoro di Griffa (penso anche a omaggi dichiarati come in Riflessione, esposto nel 1980): il Matisse che concepisce lo spazio della pittura con un suo preciso grado di teoricità, come campo di rapporti significativi, che pensa l’immagine come tensione equilibrata di nessi qualitativi tra i segni e tra i colori: e anche che rigenera la felicità del colore, la sua possibilità funzionale/decorativa, il suo essere in sé, in fondo, la sostanza stessa della visione.

Griffa, Senza titolo, 1978
Matisseria può essere considerata per molti versi l’opera emblematica della maturità raggiunta dal corso recente di Griffa, preceduta da una serie di sapidi esercizi (tra cui un trittico, già assai compiuto, esposto in primavera in “Registrazione di frequenze”, a Bologna ) in cui l’artista ricapitolava le possibilità di eccitare una cadenza più fluente nel segno e una luminosità più intensa e disinvolta nel colore. La composizione per piani di colore, scandita da sensuosi ritmi lineari, di Matisse affiora sulla tela di Griffa come trama (tutta in superficie, proiettata virtualmente, come d’abitudine) di relazioni tra segni/colori caldi, che hanno acquisito addirittura spessori di trepida suggestione, assestati secondo organici andamenti orizzontali: l’arancio dei segmenti curvi, i verdi delle stesure piane, gli azzurri e i violetti delle chiazze con la portante rossa, ancora un azzurro e un motivo curvilineo.
In Veneziana è la spirale rapida, corsiva, di un verde che parla di Veronese, a dar senso allo spazio, a qualificare la fluttuazione degli arancio, dei violetti, degli ocra, ancora veneti. In Lavagna-Beuys è la registrazione aperta, disseminata, la presa diretta che si fa colore, nuovamente sapore di pittura. Paolo e Piero, tutta orientata nel dar diafana levità (di azzurri, di rosa, di gialli) a robusti intrecci di diagonali, nasce dall’interferenza tra le lance dell’antico Paolo Uccello e i reticoli del moderno Piero Dorazio, dove, senza stridori, si distende proprio quel valore di intima continuità che garantisce il senso autentico dell’esperienza della pittura.
Ecco, è proprio questo coagulo profondo di senso che preserva una ragione d’esistenza alla pittura, al suo corpo storica. Sintonizzarsi con la sua tensione (e non con i modi esteriori dello stile, come predicano troppi ripetitori differenti e non) è per Griffa una delle poche strade che, oggi, è consentito percorrere. O almeno, che ci permette di puntellare decentemente le nostre rovine.