Le pieghe nascoste delle idee. Lo scultore, il disegno
Le pieghe nascoste delle idee. Lo scultore, il disegno, in “Quaderni di scultura contemporanea”, Edizioni della Cometa, XVIII, 6-7, Roma 1997
“Paradigma rimane il Partenone. Ma a qualcuno piace la pioggia, l’incertezza, le pieghe nascoste delle idee” (Fausto Melotti).
Si è scritto e, più, studiato molto, attorno alla cultura disegnativa contemporanea, da un decennio a questa parte. Minore attenzione, tuttavia, è stata dedicata all’ambito forse problematicamente più controverso, il disegno dello scultore.

Paolini, Autoritratto, 1996
Certo, le trasformazioni radicali della nozione stessa di pratica artistica, e l’intendimento differente dei fondamenti tecnici che ad essa presiedono, hanno liberato il disegno – così come le discipline tutte – dal vincolo gerarchico e sistematico che ne aveva fatto, storicamente, il principio per eccellenza del rappresentare, e la matrix delle arti tutte: zuccarianamente, il momento liminale tra esperienza sensibile ed esperienza mentale, tra creazione e increato, in gradazione da metafisica a fisica. Fatta diversa l’arte, la sua ragione, la sua necessità, il suo statuto, se ne è liberato lo spazio, ambito proprio, infine d’una idea d’una idea d’una idea, non più proiezione, non più somiglianza della somiglianza: scriveva Villa, probabile umore dell’idea.
Rimaneva, è rimasto, in sospeso un “ma”, in tale vicenda. Non rappresentazione si pensa, sorgivamente, la scultura, bensì determinazione propria d’esistenza: a sua volta incrocio genetico di metafisica e cosa; realtà altra, per vie non indirette partecipe del sacro, formata nello spazio non garantito dall’esperienza sensibile: per la quale il gradus concettualmente dirompente e liberatorio in realtà vista, realtà toccata, realtà partecipata, realtà espressa, nessun senso poteva avere, essendone gli individui essi stessi realtà, in sé. L’impasse di Medardo Rosso è storica, il dramma di Rodin e Martini è metastorico, la via che conduce dalla sfera di Brancusi alle nature di Fontana è, per la prima volta, pensiero spaziale dapprima snudato poi ritrovato in nascita fisica: sottratto agli idola di Bacone, rigenerato eídolon capace di trascendenze, ancorché laiche.
Lo spazio del disegno dello scultore si ritrova, dunque, impregnato comunque di referenzialità, d’una non detraibile filigrana sensibile all’apparenza: luogo d’un formare che può determinare una figura corporea la cui alterità è congenita, non ottenuta per via di volontaria sottrazione ai codici rappresentativi, e d’una spaziosità che proprio per questo deve mantenere una sua individuata condizione proiettiva.
La dissoluzione e la contaminazione disciplinare, l’acquisizione d’una differente fisiologia costitutiva dell’opera, la tensione non a sottrarre l’immagine dallo spazio storico verso un luogo buono preventivo, e semmai a trasfigurare lo spazio storico stesso sino a trascenderlo in virtù dell’intervento plastico: questi processi, caratterizzanti i corsi recenti della scultura, hanno agito sulla nozione e sull’esperienza del disegno nel senso d’una riconfigurazione e ricostituzione della fisiologia del foglio e dell’immagine, piuttosto che in quello della pura mentalizzazione.
Rari, s’è detto, sono stati i tentativi di ragionare specificamente sul disegno dello scultore. Dopo un pioneristico censimento nel 1984, con la rassegna “Scultura disegnata. Il disegno degli scultori in Italia, oggi”, di Enrico Crispolti, uno dei non frequenti cultori problematici da sempre del disegno, si ricordano l’esposizione “Disegno italiano del dopoguerra” a Modena, 1987; la mostra bolognese “Voluti inganni”, 1987, a cura di Walter Guadagnini e Paola Jori, attenta al contemporaneo; “La corsa ansiosa del segno”, sezione d’una mostra romana curata da Fabrizio D’Amico, 1994, e la più storicizzante “Disegno e scultura nell’arte italiana del XX secolo”, edita da Carlo Pirovano a Milano nel 1994: ad esse si possono affiancare talune fondamentali indagini sul disegno di singoli autori, da Fontana a Melotti, da Valentini a Mattiacci, da Paolini a Zorio.

Kounellis, Senza titolo, 1997
“Questo farsi del foglio da luogo teorico a esperienza fisica comporta anche un approccio differente alla vexata quaestio dell’autonomia ed eteronomia del disegno – si legge in Voluti inganni –. Approccio che permette di affermare come in realtà il problema non esista o, comunque, sia mal posto. Negare l’autonomia del disegno sarebbe negarne l’esistenza, in particolare nella contemporaneità, ma negare il carattere progettuale di molte di queste opere significherebbe chiudere gli occhi davanti alla realtà di una scultura che, per scelta, richiede il progetto. Però quando il foglio non è più solamente un luogo teorico, esso viene ad identificarsi con una dimensione impulsiva ed ipotetica di un complesso di ricerche, diviene il luogo dai cui confini, dal cui non detto si traggono energia vitale ed immediatezza lirica. Luogo pur sempre virtuale e diverso da quello reale della scultura, ma già fondante dell’esperienza creativa”. “Giacché nel disegno – postilla D’Amico – lo scultore si trova di necessità a negare quel che vorrà poi, nella pratica concreta del suo lavoro, raggiungere. Si trova ad incastonare il suo pensiero in un luogo che non è affine, né tanto meno propedeutico, al luogo dell’opera che ipotizza: ma in un altrove fisico, e prima ancora concettuale”. “Costante – conclude il proprio excursus storico Pirovano – rimane quella caratteristica di strumento euristico che abbiamo individuato quale sigillo di autentica modernità, al di là delle declinazioni morfologiche apparentemente babeliche”.
Ecco, dunque, variamente avvertita la contraddizione, il punto limite che fa del disegno dello scultore non solo, com’è ormai accettato, una pratica autonoma e autofondata sul piano disciplinare, ma anche l’eco storicamente sedimentata della nozione antica del disegno, progetto e genetica prima dell’apparire della forma alla visione, nello spazio, in uno spazio, in quello spazio. Ebbene. Proprio tale contraddizione, quella che consente di esplorare le pieghe nascoste delle idee per indurle a concretezza corporea individuata – e nell’aforisma melottiano non è chi non avverta l’eco, ancora, dell’antico disegno interno – non è limite e atipicità del disegno scultoreo, ma carattere e tipicità: ove si abbia l’avvertenza di non applicare alla scultura i parametri concettuali del codice pittorico, surrettiziamente sempre prevalente, e dunque di non guardare il foglio dello scultore in confronto a quello del pittore.
D’altronde, sembrando ovvio escludere il disegno architettonico da tali riflessioni, non si comprende perché un membro del sistema delle arti possa far parte a sé, e un altro non possa. È ben vero che l’esperienza degli ultimi decenni si è rivolta a elidere i confini disciplinari tra pittura e scultura: ottenendone tuttavia fervide contaminazioni che ci si è incaricati di rinominare con piglio definitorio agguerrito: non l’abolizione delle discipline e dei loro caratteri fondanti: né altrimenti, ora sappiamo, avrebbe potuto essere, eccezion fatta per l’unicum supremo dei concetti spaziali di Fontana, che vogliono essere, appunto, concetti spaziali, e la domanda se essere pittura o scultura proprio non se la pongono.
Altro è lo spazio dello scultore (è divenuto ormai slogan citare, a questo punto, la faccenda della dimora heideggeriana…), altra la genetica di quell’immagine, altra la sua formatività, altra la sua corporeità. Altra, dunque, è la physis del suo disegno, interrogativa e dubitante di spazio e di corpo anziché affermativa, capace di esplorare e attraversare le misure del fisico e quelle del concettuale non abolendole, ma riportandole senza tradimenti a una unità che vale continuità: chi ha detto di estensione e di disinvolta sostanza, come chi ha detto di rinascita dell’éidolon, certo intendeva anche il disegno, il suo proprio disegno: e non soffriva certo dei complessi prospettici e topologici della pittura.
Questa mostra, figlia d’una precedente del 1989, dedicata alle sculture nella Torre Martiniana, che titolava “Pensieri spaziali”, vuole essere una casistica del disegno contemporaneo dello scultore, deliberatamente estesa alle situazioni confinarie più problematiche: autonomia inventiva e progetto, iconografia e pura consistenza materica, sconfinamento del pittorico e ipertrofia disciplinare, continuità/discontinuità tra spazio storico e spazio dell’evento plastico, teoricismo e formatività… in cui le “pieghe nascoste delle idee” siano anche, qualche volta soprattutto, quelle delle idee sull’arte, e sulle sue pratiche.
Vi si può leggere, in taluno, la tentazione d’intendere la dimensione del foglio come dimensione imitativa, ancora, la cui griglia tridimensionale valga imitazione proiettiva dello spazio d’esperienza fisica, per via di trasposizioni rilassate oppure di già criticistiche spinte a forzare l’aspettativa percettiva: dove, è importante avvertire, proprio la somiglianza con il mondano, e la deroga che se ne innesca, è infine il nucleo problematico ed espressivo da cui l’autore muove. In altri, è invece una sorta di assunzione algida, e straniata dalla propria stessa catafratta proprietà, della scatola prospettica, l’elemento cruciale dello scarto concettuale (se un elemento comune a tutto il disegno degli scultori contemporanei va reperito, è lo scavo della diversità specifica tra situazione del foglio e situazione spaziale concreta), che induce una sorta di metafisica insinuante il dubbio che il costrutto plastico stesso sia, a ogni grado, doublure insanabile d’una verità ormai inesprimibile.
Per altri ancora, il processo si svolge per coaguli forti d’una materia sospettosa della propria alterità, vogliosa invece di declinarsi come materia propria d’una fisiologia propria equivalente, per forza costitutiva e facoltà di senso, alla vocazione materiale della scultura. Si dice della materia, delle materie, ma in alcuni altrettanto potrebbe dirsi di energia, di un vitalismo animante l’aggregarsi e il saldarsi della formazione, per formulazione dell’organismo formale come machina che solca lo spazio consistente e vi riverbera la propria carica assertiva.
Ancora. È, in certi, una vocazione alla demateriazione, all’intendimento del corpo spaziale, come metrica capace di sottrarsi alla gravità, alla dannazione del pondus, che si distilla sino a perfezionare puri segni che scandiscono uno spazio assai vicino al blank, ma che ha sentore, insieme, d’aria, d’agitarsi climatico lieve, come in certi disegni d’acqua berniniani. Per converso, in altri la condizione del disegno è strumentale, concrezione raccontata di situazioni e possibili fisici che si consentono eventualità ulteriori rispetto a ciò che l’esperienza dello spazio storico fa agibile. Se è attuabile un dessin autre, certo è questo, dello scultore, così diverso, così problematicamente disciplinare, così sempre certo della propria incoercibile identità.