Lee Ufan, in Lee Ufan. “With Winds ’91 at Milano”, catalogo della mostra, Lorenzelli Arte, Milano, 1991

With Winds ’91 at Milano, ancora, come nelle serie intense, di stupefatta qualità, degli anni recenti.

E’ un ascoltarsi, ormai, definitivo, e un auscultare il mondo, valore di cosmo, d’energia diffusa e vibrante.

E un “per non trovare”, “per non finire”, dove il rapporto tra la pittura e i suoi atti, e più, tra gli atti e le mozioni di coscienza che li inducono, ha valore antico d’interrogazione, di messa in consonanza con il problema – estremo dei Kôan? – in assenza di esiti vocati.

Diversa è l’assolutezza che Lee tenta, in questi anni di maturità avvertita, piena.  Prima – penso alle sequenze lunghe di From Point, From Line, in gioco era lo stacco estremo del gesto, la sua risentitissima fisiologia, la proposizione iterata e indifferente della sua attitudine.

Era una sorta di iperdeterminazione concettuale dell’intento e della modalità pittorica, che del segno – la tacca breve, come di crampo rattratto, di From Point, il dispiegarsi a tutto braccio, a sedimentare un’impronta dalle implicazioni anche quantitative, in From Line – distillava l’autoriflessività, la capacità di abitare il “blank” teoricistico, mentalmente postulato, della tela, in una sorta di ontologia primaria. Era segno originario, come ritrovato antropologicamente, momento primo d’identità tra il corpo agente dell’artista e le sue pulsioni affermative (e per questo “rayonnant”, aperto al possibile, avrebbe detto Leroi–Gourhan). Ma insieme era un picco di massima complessità, era tensione a contenere un tutto pensabile e affettivo: in un unicum, in un monema altissimo di senso.

Nella loro iteratività regolare o irritata, nella ricerca di un passo assertivo che sapesse la propria interna misura, quei segni, quegli spazi, mantenevano ancora un valore di differenziale, di proposizione relativa. La tela, in fondo, ancora era campo, manteneva una filigrana di proiezione visuale, d’introversissima ma persistente simbolicità e proiettività.

D’altronde, il processo di Lee muoveva da un’idea di plenitudine, di completezza – e a volte saturazione – dell’immagine, che interrogava il valore topologico dello spazio pittorico, ma ancora non lo trascendeva radicalmente.

E se il colore, il pigmento blu o rosso adottato in prevalenza, nella mescolanza con la polvere di granito perdeva il carattere di materia tinta, di equivalente organico e quantitativo di corpo, ancora s’assettava entro i termini dell’evidenza, di un seppur ridotto e decantato “pattern”.

Altro, però, già incubava in quelle pitture. Lo diceva il dittico di icone che accoglie i selezionati visitatori dell’eremo di Kamakura – non a caso, luogo storico di meditazioni – in cui Lee lavora: un blu di Klein, un taglio di Fontana. Il punto di trascendenza del colore e dello spazio, e quello del segno, nell’alta e definitiva contaminazione tra ragione e mistica, tra vertigine del pensiero e senso concreto di natura: e in quella tra le vocazioni dell’Occidente e la storia lunga, ineffabile, dell’Oriente. Non erano, beninteso, accrediti di paternità.  Così come il muoversi all’interno e a cavallo di una doppia tradizione non tendeva e non tende a implicare esotismi e stereotipi di modello culturale, come a troppi altri artisti, in questo secondo dopoguerra, è accaduto.  Anzi.

Lee aveva in vista, infine, una sorta di, “anartisticità”, di dissoluzione della questione dell’artistico in una dimensione esistenziale e di pensiero più alta e sottile, implicante un valore di opera irrelativo, antinominalistico e anticonvenzionale, e soprattutto totale, specchiante la soggettività tutta dell’individuo agente e la frequenza e qualità del suo rapporto con il mondo. Alla base, certo, era ed è una filtrata consapevolezza di appartenenza a una tradizione culturale.

Lee Ufan, With Winds, 1991

Lee Ufan, With Winds, 1991

L’avvertimento del proprio corpo/tempo come nucleo identico e consonante con il cosmo, l’attitudine di concentrazione, inspirazione/ispirazione, intonazione del fare attraverso la cadenza degli atti, risoluti e irrevocabili, che tentano l’ineffabile, ha ascendenze evidenti nella calligrafia.

La ritualità stessa del processo, non sistematica o metodologica ma eretta tutta su una temporalità silenziosa e risentita, benchè definitivamente laicizzata ha certo una nervatura di pittura zen.

Tuttavia, l’assunzione che Lee ne ha fatto è a sua volta criticistica, interrogativa: e soprattutto aperta sul soliloquio, su un senso del sè non disposto a perdersi nell’indefinitezza sublime della pittura.

Lo spazio della tela non è “yohaku”, simbolo concreto dei vuoto quale realtà ultima. E’ lo spazio, fisiologia cosmica ma insieme prigioniera della propria concretezza, dell’alterità continua in cui l’assoluto drammaticamente tenta di emergere dalle contaminazioni dell’estraneo.  “I recognize that painting includes the unknown; if I deal reticently with the indefinite objects they gain in significance, the alien atmosphere spreads on to the canvas”.

Se è vuoto, è il “vide” kleiniano, che l’artista raggiunge lasciandosi attraversare dai flussi di coscienza e di energia, avvertendo per una sorta di premonizione, di sospensione di scelta e di orientamento: come per fluttuazione, lucida ma mentalmente ed emotivamente nomade, che si sa, precisa, all’atto solo in cui l’immagine avviene sulla tela.

Ecco, allora, la pittura degli ultimi anni, e il ciclo nato in questi silenzi milanesi. Regole, e varianti, del darsi delle immagini, sono ormai a un punto limite di semplificazione e trasparenza. Variano le dimensioni della tela, a non ammettere dello spazio che l’interna proporzione, non la misura oggettiva: da minime, alla vastità impadroneggiabile del polittico in cui la mostra ha il proprio culmine. Fissi restano gli strumenti, e la scelta cromatica. E’ ora, un grigio perfettamente neutralizzato, tonalità dell’indistinto, stato medio tra fisicità e concettualità, tra valore proprio dell’esperienza e ineffabile alito mentale. E’ stato medio che vale come “ubi consistam”, bilico radiante tra afasia e infinito. Cui s’attaglia, sola, una sorta di bava acroma, irritazione atmosferica del bianco, dello spazio.  “While I am deliberately working on a painting, I become aware in the end, that it is, quite to the contrary, rather the painting that is making me paint it. So I return to my initial idea, and ‘I paint’; in vain, because by the time I have become aware of whatever it is I have given in to the temptations of the other, just to find myself being painted again. All this makes my canvas, without being the result of will, or even the product of an arbitrary power, take on an appearance of translucidity, diaphaneousness. I am continuously being infiltrated, enclosed, by the other, and the other never ceases to be forced through me. It is the experience of this strange vertigo that normally propels me forward towards creation. Thus, detached from me as well as from the other, a viewing of my canvas draws the observer to the outer limits of an unsaid unknown, confising him to the exent that he recognizes it. Doubtless it is the vibrations ot this incessant being torn to and fro that make up the transcendental aspect of that field called painting”.

Così l’artista, di recente.  E questa “strana vertigine”, e le “vibrazioni”, corrono tra le tele.

Esse non sono più sature, ora, tentate di plenitudine. Non dicono uno spazio e un’immagine. Agiscono, semmai, per sottrazioni, eccentriche, disorientate, appena certe dell’indifferente movenza struttiva verticale/orizzontale. S’addensano sui bordi, in una sorta d’impropria centrifuga del segno: si ritraggono, comunque, a fronte dell’epifania alitante del vuoto: che è infinito mentale, dismisura emotiva, e insieme luogo fisico del mondo: irrelativo, incommensurabile, ma percorribile, forzante i sensi a una perdita.  Nei bellissimi e poetici With Winds ’91 at Milano di questa mostra, la perdita è anche dismisura fisica, del braccio che agisce, dell’occhio che vede e vorrebbe toccare, annegando nell’alito di uno spazio che insieme è proprio e altro, sconfinato in ogni senso.

E, davvero, una via.  “Lo spazio – diceva Novelli – sono piccole strade per passare”.  Passare, transitare e lasciarsi transitare. E così sentirsi, e sentire.  Non c’è meta possibile.

Nota

Il percorso di Lee Ufan è ricostruito partitamente in Lee Ufan, testi dell’artista, Bijutsu Shuppan-sha, Tokyo 1986. Storici cataloghi sono quelli delle mostre personali alla Tokyo Gallery, Tokio, 1973 e 1977, con testi di Y. Nakahara. Fondamentale è inoltre la lettura del testo di Lee Ufan The Creative Process, in catalogo, Tokyo Gallery, Tokyo 1982.