Le strategie del pubblico
Le strategie del pubblico, in Europa 1700-1992. Il ventesimo secolo, a cura di E. Castelnuovo e V. Castronovo, Electa, Milano 1993
E’ con l’affermarsi delle avanguardie artistiche degli inizi del secolo che si produce quel “paradosso del pubblico” che figura tra gli elementi più problematici della modernità.
Paradosso rappresentato dal fatto che, mentre da un lato vicende come cubismo ed espressionismo, futurismo e neoplasticismo, presuppongono di sé un pensiero totalizzante, a pieno titolo universale, del conoscere attraverso la visione, dall’altro deliberatamente e pregiudizialmente si figurano un pubblico esclusivo e “specialistico”, con implicazioni iniziatiche e fideisticamente commilitanti, contrapposto alla più ampia figura retorica del pubblico di gusto corrente e ufficiale, nei cui confronti agire agonisticamente e provocatoriamente.
E’ un paradosso accentuato dai modelli differenti di amministrazione dell’oggetto d’arte, che dagli ultimi decenni dell’Ottocento almeno sono divenuti appannaggio di un mercato esteso e dominato, come gli altri settori dell’economia, dalle leggi dilatate di domanda e offerta, oppure dei progetti rivoluzionari di una gestione tutta sociale della cultura: quindi, in entrambi i casi, con una sostanziale anonimizzazione del rapporto tra produttore e utente, e una qualificata responsabilizzazione delle funzioni di mediazione, culturale tanto quanto gestionale.
Cosa significa, in concreto, tale mutamento? Che l’artista realizza opere il cui destinatario effettivo, in termini di identificazione culturale possibile, non è reale ma presumibile, quando non utopico: meglio, che l’opera nasce come frutto consapevole d’una singolarità socialmente straniata, o d’un gruppo d’azione intellettuale minoritario (le analogie con il modello dei movimenti politici rivoluzionari sono assai forti), che si sanno alieni dalle clausole culturali correnti, e la cui azione consiste non solo nel prodursi nell’eventum specifico del quadro, della scultura, del disegno, della litografia, ma anche nella sua utilizzazione solidale come strumento propagandistico e di proselitismo, tale da vincere la negatività della ricezione corrente e da produrne una nuova, a sua volta rivoluzionaria, avanguardistica.
L’oggetto d’arte ha dunque valore di exemplum, in sé, d’una operazione artistica la cui strategia si estende dalle qualità linguistiche interne ai modi e ai modelli di circolazione e fruizione mondana: e che dunque comporta, da parte dell’artista, anche una diversa consapevolezza del proprio ruolo storico e sociale, oltre che delle strutture cui è affidata la circolazione e la valutazione in ogni senso del proprio prodotto.
Due sono i grandi modelli di strategia del pubblico che i primi decenni del secolo ci hanno consegnato. Il primo è quello ideologicamente rivoluzionario, cioè intendente la pratica artistica come funzione integrata e coordinata di un più generale orientamento di modificazione della vita sociale, leggibile nelle esperienze connesse alla rivoluzione sovietica, in vicende parallele come il Rote Gruppe tedesco e i suoi esiti nel Bauhaus, e per certi versi nelle scelte controverse della militanza comunista dei surrealisti. Il secondo è quello elaborato da Filippo Tommaso Marinetti per il futurismo, e variamente da altri ripreso nei decenni, dalla declinazione politicizzata del surrealismo di André Breton, a quelle più “tecniche” e mondane che dall’automitizzazione di Salvador Dalì trascorrono alla gestione di fenomeni come l’action-painting da parte del mercato e della pop art da parte di Andy Warhol e imitatori: vi si prefigura lucidamente una tipica filosofia di marketing culturale, agente sulle strutture della mediazione del prodotto intellettuale con un abile e spesso cinico ripensamento dei meccanismi ordinari del successo.

Villers, Salvador Dalì, 1955
Nel primo caso, è proprio la non ben padroneggiata analisi della sdoppiata figura del pubblico a far fallire l’utopia rifondativa degli artisti rivoluzionari, in Unione Sovietica come in Germania e altrove.
Il modello nuovo di società presupposto dal leninismo comporta, oltre alla negazione sostanziale dell’opera come merce scambiabile, una crisi d’identità radicale, primariamente, della figura dell’intellettuale d’avanguardia. Essa invece viene intesa ancora – come ben mostrano le polemiche tra Kazimir Malevich da un canto, e Vladimir Tatlin, El Lissitskij e Aleksandr Rodchenko dall’altro, cioè tra l’artefice della negazione della destinazione funzionale, oggettiva e mondana dell’opera d’arte, e i vessilliferi della confluenza del conoscere tecnico-significativo dell’artista in un progetto storicamente ben concreto di comunicazione e utilità sociale – come incarnazione d’un ceto-guida, detentore d’una sapienza specifica per delega presunta del corpo sociale, e che si pensa solidale, ma al fondo e necessariamente autonomo, nei confronti del primato – pur riconosciuto in sede teorica – della classe politica.
L’esperienza degli anni Venti si incaricherà di dimostrare che, se il ruolo rivoluzionario dell’intellettualità d’avanguardia era accoglibile in una situazione di minoranza e opposizione, cioè come pars destruens d’un sistema, esso non era applicabile a rivoluzione attuata: ovvero laddove non era pensabile altro pubblico che un corpo sociale da omogeneizzare il più uniformemente possibile secondo standard culturali elementari e secondo un sistema di valori controllabili solo in sede d’indirizzo ideologico (cioè le ‘esigenze concrete del proletariato egemone che guida i contadini e le popolazioni arretrate’, secondo un’espressione tipica dei tempi): dunque, in assenza d’ogni autonomia propositiva da parte dell’artista, e soprattutto d’una “educabilità” della massa a valori, quelli dell’avanguardia, che sono in sé minoritari, tendenzialmente esclusivi e implicitamente aristocratici per genesi e definizione.
Il punto di contraddizione è che il “pubblico” verso il quale s’indirizza la strategia indifferentemente di suprematisti, costruttivisti e produttivisti, è la dirigenza politica uscita dalla rivoluzione, sentita consona in quanto, a propria volta, nata e cresciuta come avanguardia, cioè élite intellettuale: né può essere realmente la “massa”, ovvero il corpo sociale nuovo che le vicende dall’avvento di Stalin in poi si incaricheranno di dimostrare nulla più che una finzione retorica: e “pubblico” d’un’arte intesa come mero veicolo di comunicazione politica e ideologica, negato ogni margine possibile d’eccezione e d’alterità al sistema di valori scelto come referente.
A ben vedere, sia pure a fronte di un corpo politico e sociale pluralista e di condizioni storiche affatto diverse, sarà il medesimo limite di prospettiva del Bauhaus nei confronti della realtà della Repubblica di Weimar, in Germania.
A partire da quella vicenda, si osserva che in analoghe ambiguità d’’analisi incorrono, nel corso dei decenni, tutte le esperienze che s’ispirano alla presunzione della possibilità di creare valori innovativi, e insieme comunicabili popolarmente, cioè a un destinatario quantitativamente dominante e culturalmente identificato solo in via ipotetica. La sovrapposizione tra la nozione di pubblico e quella di popolo, ovvero della fascia meno acculturata ma più cospicua e politicamente decisiva del corpo sociale, si fonda d’altronde su mitologie ed equivoci: è il caso della “popolarità” presunta della cultura artistica medievale e quattrocentesca che ispira il muralismo messicano di David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e José Clemente Orozco, che si svolge su valori di epos e narratività “bassi”, facile riconoscibilità dei temi, evidenze declaratorie e allegoriche, e della tutto sommato non dissimile “arte pubblica” del muralismo italiano degli anni del fascismo, che Mario Sironi, Achille Funi, Carlo Carrà e molti altri teorizzano analogamente.
Equivoco evidente, in tutti questi casi, è non solo la tutt’altro che storicamente accertata fruibilità di massa dell’affresco antico – e, per estensione, l’esistenza stessa d’una qualsivoglia forma artistica linguisticamente stazzata e originale e insieme di larga circolazione sociale. E’, soprattutto, la presunzione non dimostrata di una reale educabilità del corpo sociale da parte del “dotto”, stante che, di fatto, mai entra in discussione il valore di eventum ed exemplum sacrale dell’opera d’arte, la sua implicazione antropologicamente liturgica, la sua natura di prodotto intellettuale alto, la sua sostanza di unicum irripetibile che esercita la propria facoltà di senso anche attraverso il terrorismo sottile del monstrum nei confronti del lettore, preventivamente assunto come inadeguato e dunque ricettore subordinato di messaggi.
Laddove, dunque, più apertamente e tenacemente la pratica artistica rivendica un ruolo civile e sociale, e un pubblico identificato con la collettività stessa, più evidente si fa la realtà d’un pubblico come “doppio” retorico e ideologico d’un progetto tutto intellettualistico e volontaristico, oppure come destinatario d’una comunicazione visiva che abdica alla propria stessa identità storica d’arte.
Di ben diversa natura, ovviamente, è l’amministrazione strategica e mondana dell’opera d’arte fuori da queste referenze ideologiche. La nozione di pubblico sulla quale operano le avanguardie francesi, e quelle che ne imitano le attitudini, anziché tentare di sanare questa situazione ancipite, ne fa uno dei reagenti problematici e critici della stessa ricerca linguistica. L’opera d’arte come frutto unico e geniale, e insieme la sua concreta destinazione “superdecorativa”; la sua natura di testimonianza incoercibile di libertà spirituale, e insieme di oggetto sottoposto alle clausole mercantili del valore di scambio; la sua capacità poetica singola e insieme di farsi vaso simbolico e mitico collettivo, anche attraverso la formazione del gusto… E’ la contraddittorietà stessa della natura storica dell’opera, la sua stratificazione indissolubile di livelli funzionali, significativi e di senso, a diventare l’elemento attorno al quale imbastire l’ipotesi di una controversa e folgorante politicità artistica.
Quando Marinetti, con lucidità critica e operativa esemplare, “lancia” il fenomeno artistico del futurismo, non fa che riassumere e organizzare una serie di elementi di fatto, e di elaborarne di congruenti, fino a dar corso a una compiuta strategia integrata d’affermazione culturale e mondana.

Gorgoni, Giorgio De Chirico e Andy Warhol, 1972
Ciò che gli preesiste è il “complesso di colpa” lasciato in eredità dall’impressionismo e dalle cronache dei salons: ovvero il dubbio ormai definitivo, da parte del pubblico, che sia tra i refusés, coloro che dispregiativamente sono stati indicati come i fauves e simili, comunque i misconosciuti da parte del gusto e dell’ufficialità culturale, che si elaborano le mozioni autentiche del nuovo: e che è, ancor più, il valore stesso di novità – valore cardine della cultura sociale moderna – al di là di ogni sempre più previsto, tollerato e infine titillato scandalo del gusto e dell’aspettativa, a erigere una sorta di autofondata garanzia di qualità, secondo clausole per molti versi indipendenti dalla maggiore o minore decifrabilità del fenomeno culturale in sé.
Inoltre, egli rielabora in modo preciso l’elemento di forza promozionale del movimento che gli proviene dallo statuto d’appartenenza a una sfera culturale d’élite: a ben vedere, la contrapposizione polemica di un’avanguardia artistica alle immediatamente precedenti, che diverrà da allora in poi uno dei meccanismi chiave del flusso wave on wave delle nuove esperienze artistiche, da un canto ne iperdimensiona proprio gli aspetti di novità, e dall’altro ne mantiene ben salda la congruenza a una sfera ritenuta e proclamata esclusiva, quindi invidiabile e appetibile in termini snob, rifiutando ogni reale possibilità d’altri confronti culturali.
Di questa élite di pubblico, cerchia preventiva e separata dalla sfera “bassa” del gusto corrente e dell’ufficialità culturale, fanno parte in realtà le figure prime di mediazione del prodotto culturale, in assenza di un reale problema di rapporto dialogico con il pubblico indiscriminato, che ne è solo teoricamente l’utente finale. Sono i galleristi, dei quali si profila sempre più chiaro il ruolo non solo di distributori commerciali in termini mercantili ma anche di creatori di un consumo altro dell’avanguardia, in termini di opinione chic; sono i critici, dapprima letterati e intellettuali commilitanti poi sempre più strateghi d’una generale formazione dell’opinione; sono i collezionisti, dei quali si riedita la proud of possessors in termini di militanza testimoniale del nuovo, e di partecipazione rarefatta a un evento mondano la cui appetibilità risiede proprio nella sua scarsa condivisibilità da parte della “massa”, con tutti i feticismi dell’opera connessi, e con tutte le implicazioni di autoidentificazione come ceto culturale di riferimento, come aristocrazia del nuovo; sono i dirigenti di museo, che vedono nella precocità dell’omologazione istituzionale del nuovo – che spetta e spetterà comunque all’ente “ufficiale” – uno strumento di complice gratificazione intellettuale, di assunzione come clerici nella moderna aristocrazia possibile.
Al di fuori di tale cerchia, la scelta strategica è di adottare appieno la possibilità di scandalo della nuova forma d’arte, nella prospettiva d’un “far notizia” il più incisivo e clamoroso: i manifesti, le conferenze, gli atteggiamenti stravaganti, le deroghe al bon ton corrente (la blasfemia, le anomalie di comportamento mondano, la rissa, e quant’altro), sono tutti fattori che devono ottenere, nel più breve tempo possibile, un indice di riconoscibilità del movimento il più vasto possibile, indipendentemente dall’indice di consenso.
Dunque, Marinetti elabora i prodromi di un marketing culturale in cui siano ben separati il momento della notorietà, dell’attenzione e del successo mediale, per il quale il target è il pubblico indifferenziato nella sua più vasta accezione, e quello del gradimento, deliberatamente riservato a una cerchia tanto più affascinante e desiderabile quanto più ristretta ed apparentemente inaccessibile. Tali due momenti sono complementari e indisgiungibili, naturalmente.
I fattori su cui il santone del futurismo non può operare adeguatamente, in questo quadro, sono quelli su cui maggiormente si opererà in seguito, quando, dagli anni Venti in poi, tale doppio registro del pubblico e tale doppio livello di mediazione mondana saranno una realtà corrente.
Figura esemplare di questo passaggio ulteriore è Dalì, esponente, non casualmente, del cuore della stagione surrealista, cui si deve la più consistente riedizione della strategia marinettiana.
Dalì perfeziona il meccanismo originario secondo tre direttrici. In primo luogo, una più netta demarcazione tra l’elemento épatant dello stile e delle modalità oggettive ed espressive dell’opera, con tutte le implicazioni teoriche e di gusto del caso, che si rivolge al pubblico chic, e la strategia di riconoscibilità mediale, della quale è protagonista totale l’artista stesso, che si configura come l’attore, la maschera – anche nei crudi termini dello star system – di un’esperienza linguistica di cui, al livello del pubblico di massa, non importa neppure dar conto: famoso deve essere l’artista, al livello più ampio, e accettata dall’élite intellettuale la sua opera, in due fasi gestibili solidalmente ma del tutto separatamente.
In secondo luogo, una attenzione marcata alla valutazione economica dell’opera. In una società che, dagli anni Quaranta in poi, secondo l’esempio statunitense è sempre più propensa a identificare la qualità d’un evento sulla base del suo monetizzabile valore di scambio, il raggiungimento di prezzi straordinari da parte delle opere di un artista funge da doppia gratificazione, in termini di possesso per la cerchia privilegiata di chi vi ha accesso, e in termini di desiderabilità mitica da parte del pubblico mediale: visto che, nei parametri nuovi dello star system, anche il prezzo inconsueto fa notizia, ed agisce sull’immaginario collettivo.
In terzo luogo, una precisa azione di omologazione ufficiale da parte dei musei, che sono sentiti da entrambi i livelli del pubblico come le chiese cui spetta il compito di consacrare “oggettivamente”, sul piano di una almeno retoricamente non opinabile storicizzazione, il nuovo. Non è casuale che, nell’immediato secondo dopoguerra, si consolidi una cerchia di istituti, negli Stati Uniti e in Europa – dal Museum of Modern Art al Guggenheim di New York, dal Rijksmuseum di Otterlo al Louisiana di Humlebaeck – e di manifestazioni, come la Documenta di Kassel, il cui scopo dichiarato è di fungere da terminali ufficializzanti delle strategie del nuovo, in contrapposizione con l’ufficialità dichiarata rétro dei grandi musei storici, come il Louvre, o il Metropolitan di New York, o la Tate Gallery di Londra.
Dalì è il primo artista a raggiungere compiutamente, nel secondo dopoguerra, il risultato della massima notorietà mondana e del massimo accoglimento in termini di nuova ufficialità culturale.
Dalla fine degli anni Cinquanta in poi, dal confluire di tutti questi esempi ed elementi viene a maturazione un vero e proprio “sistema dell’avanguardia”, compiuto in tutte le sue implicazioni istituzionali e di marketing culturale.
E’ tale sistema a rieditare, sempre più meccanicamente, il “mito” dell’artista innovativo, socialmente out e linguisticamente ispido ma circondato da un intangibile alone di rispetto e di fama: è il caso di Jackson Pollock, la cui morte precoce ha reso possibile una sacralizzazione analoga a quella toccata a James Dean nel cinema, basata sull’ormai storicizzata clausola retorica dell’artista malato e maudit, eretta su figure come van Gogh e Modigliani; il caso, concettualmente tanto lucido da divenire emblematico e sottilmente dissolutorio, di Andy Warhol, tutto svolto sulla sovraesposizione mondana e massmediale del personaggio nella conclamata indifferenza verso il prodotto artistico in sé; il caso, all’opposto, di Jasper Johns, in cui ha agito la sottrazione fisica del personaggio, e la mitologia della rarità assoluta delle sue opere, da subito basata su valutazioni – grazie a una complice politica d’acquisizioni e celebrazioni museali – sproporzionate alle regole ordinarie di domanda e offerta.
E’ verso la fine degli anni Settanta che questo collaudato meccanismo di strategia del pubblico tende a implodere. L’espansione del circuito culturale chic è stata tale da divenire, essa stessa, cultura ufficiale, elidendo lo storico termine polemico rétro che ne era la garanzia prima di modernità e di novità. Inoltre, l’accelerazione inferta alle nude logiche quantitative di consumo culturale da parte del grande pubblico (sulle quali si appunta criticamente addirittura un filone della pratica artistica, da Hervé Fischer a Hans Haacke), incarnata in prima istanza dal gigantismo spettacolare dei nuovi musei, e il primato riconosciuto al mercato – un mercato monopolistico e avvinto in mille protezionismi, va detto, data la sua comunque non immensa estensione: e quindi solo figurativamente espressione d’un conclamato potere selettivo del “libero mercato” – in termini di sempre più artificiosa circolazione e amministrazione delle opere, hanno fatto sì che venisse a decadere ogni ipotesi di autonomo valore, di istanza qualitativa, dei prodotti: dunque, ogni effettiva loro alterità culturale.
Più che di artisti, cioè di figure comunque portatrici di ipotesi culturali forti ed esemplari, tale perfezionato sistema si è trovato ad abbisognare di artmakers, cioè di agenti preliminarmente complici e coinvolti in un omologato sistema di produzione, circolazione, consumo d’una merce marchiata come culturale.
Da qui, è scaturita la crisi d’identità del tempo presente: crisi del mercato, crisi delle politiche museali, che si restringono sempre più nella remitizzazione delle figure dell’avanguardia storica, le uniche spendibili presso il pubblico più vasto; crisi, soprattutto, della ricerca e del linguaggio.
Nota
Lettura preliminare è l’ormai classico R. Poggioli, Teoria dell’arte d’avanguardia, Bologna 1962, cui fa da complemento R.E. Krauss, The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, Cambridge Mass.- London 1985. Sulla più specifica questione del pubblico, B. Watson, Kunst, Künstler und Soziale Kontrolle, Köln 1961; H. Read, The Grass Roots of Arts. Lectures on the Social Aspects of Art in an Industrial Age, Cleveland – New York 1961; H.J. Gans, Popular Culture and High Culture: an Analysis and Evaluation of Taste, New York 1974. La questione dello chic viene posta precocemente in C.E. Jeanneret – A. Ozenfant, La peinture moderne, Paris 1925: analisi ampie in R. Lynes, The Tastemakers, New York 1954; A.B. Saarinen, The Proud of Possessors, New York 1958; G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti, Torino 1965; P. Bourdieu – A. Darbel, L’amore dell’arte. I musei d’arte europei e il loro pubblico, Rimini 1972; F. Poli, Produzione artistica e mercato, Torino 1974. Sintomatico il titolo dell’autobiografia dello storico direttore del Museum of Modern Art: A.H. Barr jr., Missionary for the Modern, Chicago – New York 1989.
Per i singoli aspetti, cfr. almeno J.E. Bowlt, Russian Art of the Avant-Garde. Theory and Criticism, London 1988; H. Wingler, Il Bauhaus, Milano 1972; A. Rodriguez, La pintura mural en Mexico, Dresden 1968; F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista, Milano 1976; L. De Maria, F.T. Marinetti. Teoria e invenzione futurista, Milano 1983 ; K.v. Maur (a cura), Salvador Dalì, catalogo, Stuttgart 1989; A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol, New York 1976. Analisi lucida della situazione attuale è G. Celant, Artmakers, Milano 1984; cfr. inoltre D. Davis, Artculture: Essays on the Post-Modern, New York 1977.