Milano anni ’50. Storie di figura, in La città di Brera. Due secoli di scultura, catalogo, Museo della Permanente, Milano, 1995, Fabbri, Milano 1995

E’ frutto di mediocre cultura nominalistica presumere di demarcare, nel decennio cruciale della cultura milanese del secondo dopoguerra, ambiti differenziati di esperienza scultorea. Molte sono le ragioni. Ove pure si ammetta che, a quei tempi, la temperatura della polemica teorica e ideologica intorno alla pratica artistica avesse fondamenti problematici non banali – il che, le riflessioni successive hanno dimostrato, è vero solo in minima parte – la specificità disciplinare fortissima della scultura faceva sì che tale polemica incidesse in modo assai blando, e per altri versi differente, nei corsi singolari del lavoro di studio.

Martini, La sete, 1934

Martini, La sete, 1934

In altri termini. Realismo, astrazione, concretismo, astratto-concreto, informale, eccetera, sono dizioni plausibili solo all’interno di un dibattito culturale concentrato in toto sul pittorico; teso, per di più, tra volontarismi cosmopoliti e sacche di catafratto provincialismo, ma ben lungi dal poggiare ancora su solide basi critiche. Inoltre, proprio la generazione che va affermandosi nel decennio Cinquanta si incarica, in prima istanza, di agire con forte piglio polemico all’interno del compound culturale di riferimento: realisti con realisti, astratti con astratti, e via discorrendo, per mantenere le dizioni d’allora. Dunque, tra aggiornamenti concitati e polemiche d’area, la mutazione è prevalente sulla continuità, e la deroga teorica sull’ortodossia che malintesi avanguardismi ancora volevano tenere in vita. Ciò, appunto, in pittura: la scuola scultorea, invece, avverte le congruenze e le solidarietà prevalenti sulle distonie, anche là dove tenti di esplorare nuove vie della forma e dell’espressione: sentendosi scuola, appunto, avendo stelle fisse alle quali ritiene ancora utile far riferimento.

Va poi considerato il peso specifico delle singole personalità, tanto più importante se si consideri che il milieu milanese, pur vivido e contraddittorio, è comunque assai compresso entro coordinate strutturali – si pensi alla critica, si pensi al minimo peso dell’istituzione pubblica – del tutto inadeguate alla violenza delle trasformazioni in corso. Posto tutto ciò, e rimemorato che il momento fondamentale sul quale riflettere è l’orgoglio e la separatezza disciplinare che fonda l’identità stessa della scultura, come è possibile, in modo non inutilmente classificatorio, individuare una presumibile zona “figurativa” della scultura? Assumendo come postulato d’indagine che, a quegli anni, tutto il dibattito scultoreo è, tendenzialmente, “figurativo”: ovvero, eccezion fatta per talune opzioni d’ambito concretista, ammantate di esplicita e deliberata veste antidisciplinare, non v’è scultore che non muova da una formatività di tipo organico, totemico: e, in ultima analisi, da un non dismesso schema genetico antropomorfo. Che poi tale formatività decida di mantenere per sé modelli di tipo accademico, rinverditi da amori rodiniani e mailloliani, oppure di giocare la partita della modernità attraverso esperienze più linguisticamente fratte e irritate, che taluni s’ingegnano di dire informali – anche se il termine mostra, applicato alla scultura, tutta l’ambiguità che già in pittura s’avverte, soprattutto nella cultura nostra e nelle sue varianti declinazioni della nozione di naturalismo – poco importa, in sostanza.

Messina, Torso femminile, 1990 c.

Messina, Torso femminile, 1990 c.

Si rammenti ancora che, di un Giacometti peraltro inteso come maestro dell’esistenziale, si parla decentemente solo dal 1956, anno della presentazione delle Femmes de Venise alla Biennale lagunare; che Moore, premiato alla Biennale del 1948, è un “difficile” caso di surrealismo astratteggiante; che la lezione neocubista, cruciale in pittura, lascia tracce assai labili negli ateliers di scultura… e che, al di là di ogni altro livello di lettura, si tratta e si tratterà di autori il cui antropomorfismo, il cui riferimento radicale alla concezione statuaria, permane comunque storicamente saldo. Per contro, certe lezioni forti provengono dalla sostanziale continuità con gli anni d’anteguerra. Da quel mondo non proviene solo la tormentata interrogatività di Arturo Martini – troppo “fascista” per essere condivisa da molti, allora – ma anche la più rassicurante maestria dell’apollineo Francesco Messina, destinata e perpetuarsi proprio nelle aule di Brera: e, soprattutto, la saporosa “terza posizione”, moderna e insieme perfettamente integrata con l’identità storica della scultura, di Marino Marini: già, ciò era allora di importanza ineludibile, di clima naturalmente europeo.

Per altro verso, il fronte dell’engagement storico offriva modelli non meno carismatici, dal presente-distante Giacomo Manzù all’appartata ma ideologicamente rilevante Genni Mucchi: entrambi, in modi diversi, richiamanti quel mondo tedesco di cui si favoleggiava più che conoscere. Tali erano le coordinate dell’ufficialità illuminata, in scultura: per intenderci, dell’ufficialità che non si riconosceva nel teatro – ma si ricordi, allora assai consistente ancora – degli accademismi veri, delle prosecuzioni prive di necessità e di senso. Erano, i Messina i Manzù i Marino, gli autori variamente “moderni” rispetto a un ambiente il cui disagio culturale tentava, decaduti i monumentalismi del regime, di rinverdire un ottocentismo di confortevole gusto borghese. Né allora, d’altronde, contributi sostanziosi potevano provenire dell’area forse più ricca d’esperienze, quella delle arti applicate, della ceramica, sulla quale pontificava un Gio Ponti troppo colto e intellettualmente sofisticato per poter incidere più largamente, e dove la stessa damnatio riservata all’artigianato pareva non aggirabile. Il Lucio Fontana di Albisola e poi di Cunardo, la memoria non banale del troppo presto scomparso Salvatore Fancello, il Fausto Melotti desaparecido dalla scena artistica, l’intorno degli Agenore Fabbri e Aligi Sassu, dei Nanni Valentini e Franco Meneguzzo, per non dire della montante genìa degli “informali” che crescono tra Milano e fornaci liguri, non hanno che un’incidenza minima nel dibattito di quegli anni, a scapito della straordinaria innovatività del loro agire.

Milani, Scultura, 1958

Milani, Scultura, 1958

Tant’è. I conti, ancora, si fanno con l’Ottocento, con il pondus, con la trattazione delle superfici, con l’illusionismo: con la figura. La polemica, negli anni della massima collisione tra “realisti” e “astratti”, parrebbe paradossale: ma è esattamente ciò che accade. I due fronti peraltro, l’un contro l’altro armati, mostrano di tenere in minimo conto la questione della scultura: non Genni è paradigma dell’un fronte (nonostante lo straordinario Monumento ai caduti partigiani del 1958), non Fontana dell’altro, essendo l’una pressoché relegata in un ruolo di magistero morale, e l’altro reso pubblico dalle frenesie barocche della quinta porta del Duomo, oppure dallo scandalo di buchi e dintorni. La militanza estetica degli scultori è caso assai raro, e mai cruciale: fatto salvo, ma si tratta d’una generazione assai giovane, forse il solo Floriano Bodini, nella fase germinale di ciò che si dirà realismo esistenziale. Le uniche tensioni riguardano, semmai, la rivendicazione di paternità di Marino, nietzschiano “maestro da distruggere” di entrambe le compagini. Superare la figurazione d’impianto ottocentesco, oppure rinnovarla distillata, ricaricata d’espressivo. A ciò guardano le figure maggiori del tempo, tutte, in un modo e nell’altro, facendo i conti con l’ingombrante e insieme stimolantissima vicenda di Marino. Se si allineano solo taluni importanti debutti di cui il decennio è testimone, si può avere almeno la suggestione della variegatezza di filoni d’esperienza che al gran toscano fanno riferimento iniziale. E se a ciò si affianca l’acmé dei più maturi, si nota come l’ombra, problematica e stilistica, di Marino sia nutrimento di ogni mozione di valore.

Lorenzo Pepe nel 1950 è da Barbaroux; Giancarlo Marchese si segnala al premio San Fedele del 1951; Alik Cavaliere debutta alla Colonna nel 1951, seguito di lì a un anno da Giancarlo Sangregorio; Carlo Ramous esordisce al Milione nel 1956, un anno prima del già maturo Mario Negri; Luigi Grosso, erede di Manzù, non terrà una personale che nel 1960, alle Ore.

Cavaliere, Grande cespuglio, 1965

Cavaliere, Grande cespuglio, 1965

Dei più navigati, Vittorio Tavernari, figlio di quell’aula accademica di Wildt da cui escono anche Fontana e Melotti, Luigi Broggini e Eros Pellini (autore nel 1953 della Fontana delle quattro stagioni in piazza Giulio Cesare), tiene una antologica nel 1951 al Milione; la “forma mossa, animosa” (Valsecchi) del Broggini che tiene un’antologica da Gian Ferrari nel 1954 è intesa già, a quegli anni, come quella di un “vecchio” maestro, emulo non si sa più a qual titolo di Medardo Rosso. Luciano Minguzzi, poi, vincitore su Fontana del concorso per la quinta porta del Duomo, nel 1955 è al Milione, colto nella fase di metamorfosi stilistica più profonda del suo lavoro. E d’altri ancora, si potrebbe dire, dal solitario Romano Rui che sperimenta, con brivido innovativo, la fusione d’alluminio nel San Babila e i Milanesi del 1955, a Umberto Milani, la cui struttura antropomorfa dell’immagine si è già aperta, in pari tempo, alle suggestioni autres d’oltralpe: la formella del 1954 per il Padiglione Soggiorno di Ico Parisi alla Triennale campeggia a fianco a un totem schematico di Francesco Somaini, di neomonumentale chiarezza plastica. E già altri giovanissimi si affacciano, autori di figurazioni riarse e fratte, da Bodini a Nino Cassani…

Per tutti, pur con speziature e distinguo, la plasticità fremente e insieme classica di Marino, la sua organica commensuratio e il suo sorprendente colorare, è soprattutto l’esempio che la via del moderno, in scultura, non passa per mozioni violentemente antidisciplinari, e piuttosto per un assorbimento progressivo e lento di temi e stilemi, e per una autoriflessività modale dalla quale non si può derogare. Essi non sono, dunque, più o meno figurativi, più o meno venati d’espressionismo, più o meno contaminati di art autre. Sono, e restano, primariamente scultori. E ciò significa, ancora, tutto.