Angeli, Festa, Schifano
Angeli, Festa, Schifano, inedito, 1988
Quando Cesare Vivaldi, in un testo del 1961, riferisce di un gruppo di giovani artisti romani orientati in “una direzione grosso modo neo-geometrica, non immune da affinità con il neo-dadaismo”, coglie sintomaticamente uno degli aspetti più interessanti, dal punto di vista problematico, da cui muovono le esperienze di Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano.

Schifano, Bisogna farsi un'ottica 1965
In effetti i tre pittori, in compagnia di Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini, almeno dal 1958 si muovono nel fervido e spesso ambiguo clima di eccezione alle retoriche autres in voga, con un piglio e un’attenzione inizialmente assai diversi da quelli di cui più si discorre. Ricostruzioni di quel momento, ormai, ne circolano molte, quasi tutte autorevoli. Tien conto tuttavia richiamare qualche dato essenziale, capace in sé di dire più di ogni categorizzazione a posteriori. Nel 1958, alla galleria Appia Antica, Schifano espone con Lo Savio, Manzoni, Uncini; alla Salita, quasi contemporaneamente, si presentano Angeli, Festa e Uncini. L’anno dopo, ancora a Roma, l’effimera galleria L’Appunto presenta Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano e Uncini, nell’anteprima della mostra che passerà nel 1960, con gli stessi artisti, al Cancello di Bologna, con un testo di Emilio Villa, e alla Salita, per iniziativa di Pierre Restany. Questi “jeunes pragmatistes”, di cui Restany intuisce le potenzialità al momento stesso in cui lavora con grande verve teorica sul Nouveau Réalisme (la mostra all’Apollinaire e il manifesto parigino sono del medesimo anno), operano su un complesso punto-limite. Non solo è lo scorrimento tra la fisicità esperibile delle cose, quella dell’opera – che nasce da un fare di forte consistenza – e l’alterità di codice dell’immagine. È quello, più fondamentale, di sospensione della cauzione etica e semantica della forma pittorica, di ogni lògos formale, sulla scorta del “je suis un peintre réaliste” di Klein, in quegli anni più d’una volta compagno di esposizioni.
Queste monocromie dure, questo impiego di materiali inerti e opachi, questi gesti indifferenti e imperfetti, dichiarano da subito un forte tasso di combustione intellettuale dell’esperienza e del suo senso, un quantum di energetismo puramente mentale. “Perché invece non liberare questa superficie?”, chiede Manzoni. Da ora una componente di concettualità, di interrogatività radicale, entra nel lavoro di questi artisti, per non lasciarli neppure nelle più estroverse stagioni future. D’altro canto, a parte qualche residuo d’abbreviato informalismo (esemplare il Nero opaco di Angeli, 1957), questi lavori mostrano anche altre curiosità, altre intenzioni, frutti di un milieu fertilissimo d’incroci e, fatto inusitato, poco propenso inizialmente agli steccati ideologici: quelli, per intenderci, che di lì a poco innescheranno una nuova querelle tra iconografi e iperrazionalisti, per molti versi riedizione stantia di polemiche precedenti. Così come in Nouveau Réalisme s’incrociano anime assai diverse, da Klein a Raysse, da Arman a Spoerri, il cui processo di smobilitazione del “pletorismo magmatico simbolico” (Villa) non si avverte in diametrale opposizione alle ricerche di Fontana, o Castellani, o Manzoni (d’altronde, anche “Nul” allo Stedelijk di Amsterdam, 1962, radiografa una situazione internazionale cui l’iniziale osservazione di Vivaldi s’attaglierebbe perfettamente); ugualmente nel non meno ribollente crogiolo italiano l’humus indicato allora come neo-dada agisce non solo nell’ambito dell’erosione dei fondamenti linguistici della pratica artistica, com’è nella vicenda di Azimut e dintorni, ma anche su quello, più vasto e variegato, della referenzialità e della consistenza dell’immagine d’artificio, pressoché senza scarti e soluzioni di continuità qualitativa e problematica.

Festa, Dal peccato originale n. 2, 1966
Non si spiegherebbero, altrimenti, la pubblicazione di opere di Johns e Rauschenberg (proprio nel 1959 con mostre in Italia), di Angeli e Rotella, proprio sul primo numero di “Azimuth”; oppure le compagini di più mostre in questo volgere di anni. Che l’immagine sia questione di “apparenza di un’apparenza” (com’è in certi sottilissimi quadri, anche, di Sergio Lombardo, o negli “schermi” di Fabio Mauri) lo conferma l’approccio di “Possibilità di relazione”, 1960, all’Attico, con Adami, Aricò, Pozzati, Romagnoni, Ruggeri, …, e del Premio Lissone del 1961, la cui equivocità (replicata anche in “La nuova figurazione” a Firenze, 1963), spaziante da Manzoni a Paolini, da Romagnoni a Dadamaino, da Pozzati ai cinque giovani romani, è sintomo non d’incomprensioni e resistenze critiche, ma di un’oggettiva anticipazione d’intenzioni generali rispetto alla maturazione di singole, e stazzate, risposte. Ciò spiega l’apparente brusca divaricazione del momento immediatamente successivo, quello, appunto, in cui anche sul piano dello spessore qualitativo le personalità più forti trovano le proprie vie.
L’innestarsi di Nouvelle Tendance sulla matrice di Azimut induce un primato del percettivismo puro, linguisticamente privo di radicamenti referenziali, nell’ltimo soprassalto di avanguardismo storico. D’altro canto, la Nuova Figurazione che ha per epicentro Milano tende, nei suoi aspetti migliori, a una rifondazione comunque forte dell’immagine, in cui la lacerazione spazio/temporale presuppone che lo slittamento del senso avvenga per discrepanza tra aspettativa naturale di visione e struttura significativa dell’opera: soprattutto i montaggi di Romagnoni, non ancora adeguatamente indagati, ne sono un’aperta indicazione, cui l’effimero tentativo di moltiplicazione seriale dei Festoman (Romagnoni, Rotella, Matta, Adami…) aggiunge spunti di riflessione a proposito dei livelli gerarchici di rappresentatività della forma.
È la Giovane scuola di Roma, come la indica Vivaldi in un saggio famoso, a prendere con decisione la via della svalutazione significativa della referenza come valore, e della non-espressività, del prelievo veloce e folgorante, dell’assunzione indifferente. Di questo passaggio cruciale danno precisa testimonianza i testi per Schifano di Vivaldi, 1963, e di Calvesi, 1964. Di “messa tra parentesi” della realtà parla Vivaldi, ma ancora in termini esistenzialmente ed eticamente critici: ancora, cioè, concependo come fondativo il rapporto con l’esterno, e come atto di complessa conoscenza la definizione dell’opera. Il “colpo d’occhio incisivo, mobile, e il tipo di contatto spregiudicato e vitale” di cui dice Calvesi presuppone invece, in modo più pertinente, una distanza già scontata dai valori d’appropriazione sensibile del mondo. Lo spodestamento del percepire, il suo erigersi in fantasmagoria che nulla sa e vuol sapere se non se stessa, muove un diverso sentirsi vivere. È un vivere specificato attraverso le immagini, totalmente impermeabile proprio perché totalmente compromesso; attraverso una fluenza cangiante che è, in sé, svuotamento del tempo, afasia significativa, ma insieme proiezione possibile (e il valore di codice del rettangolo è, a un livello fondamentale, di schermo, di finestra sklovskianamente a sua volta rappresentata) tanto più concreta e sensoriale quanto più deresponsabilizzata.
Non si tratta, per Schifano come per Angeli e Festa, in questo breve ma preciso momento di sintonia, di far saltare butorianamente il lògos interno, spazio/temporale, degli eventi sensibili, riconoscendo comunque loro un grado specifico di sussistenza. La differenza –concettuale non stilistica – con Romagnoni e compagni risiede in questo. L’opera non è un processo di emblematizzazione. Presuppone, piuttosto, una presa diretta con un vivere che è già, nella psicologia profonda, pulsare frammentato di emblemi, stereotipi, slogan, incapaci di simbolo vero; con un continuum percettivo fatto di immagini e modalità comunicative seconde, mediate, artate, ma non labili, anzi di acuta penetrazione e di fisicissimo impatto: ed è questa concretezza non corporale, indefinibile ma a priori autre a far forte, e preciso, l’atto della pittura. La tensione, e la qualità specifica, delle opere di questi artisti, che ne diversifica la posizione anche rispetto alle parallele vicende statunitensi (che sono, comunque, quelle più concettualmente e pittoricamente cospicue: Dine e non Rosenquist, per intenderci) è nell’acuta – astuta anche, relativa, non presuntuosa – lucidità di questa consapevolezza.

Angeli, La lupa, 1964
Anziché contaminare differenti livelli iconografici in un indistinto piano di realtà, essa opera mettendo continuamente in scacco la nozione stessa di realtà in quanto universum a qualche titolo omogeneizzabile; operando una interna rifrazione speculare dell’immagine, la cui evidenza diviene un gradiente indipendente (talvolta, in Angeli soprattutto, inversamente proporzionale) dalla stabilità comunicativa e di senso. Così, oltretutto, può intendersi il doppio legame inscindibile intrattenuto, soprattutto negli anni Sessanta, in modi diversi ma concettualmente analoghi, da questi artisti con l’iconografia artistica, da Michelangelo a Balla, proprio a marcare il dato di normalizzazione discendente dal collasso significativo delle mediazioni. Così, a un livello ancor più determinante, si può misurare come tale smobilitazione etica rispetto al dato sensibile, pur senza intenti ideologicamente riformatori e rifondatori, si assetti su un pensiero comunque forte, laico nella sua spettacolare semplicità, della pittura, capace di dar forme, di sussistere in concreta dignità, pur abdicando al sedimento storico della qualità – tensione alla perfezione o al sublime non importa – e sottoponendosi a questa dimessa, imperfetta, approssimativa strumentalizzazione.
Che il profilo significativo, nobilitante, del vedere pittorico sia sì abbassato a termini di forma indifferente, ma in virtù d’una puntuale e radiante energia concettuale, appare inizialmente evidente soprattutto in Festa. La Lapide o il Pianoforte, ma non meno la bellezza sfiduciata di certe visioni degli anni Settanta, si congegnano continuamente intorno a una metafisica banale, a un teatrino d’ombre che si fanno corpi perché corpi, in sé, non sono mai. I cambi continui d’ottica, le provocazioni spaziali (sia l’evidenza esibita del costrutto, oppure il lento franare interno delle sagome), son frutti d’una variabilità e d’un programmatico divagare che non sono dell’occhio, del punto di vista, ma soprattutto dell’assunzione mentale, di codice culturale, della forma.
Ugualmente, aquile e mezzi dollari di Angeli, pittoricamente figli d’una “Monochrome Malerei” che, a ben vedere, mai si tradisce, anziché per apologia ridondante del simbolo agiscono in senso diametralmente opposto, per sottrazione, per svuotamento: quasi a rivelare, nella specchiante durezza smaltata del quadro, nella freddezza ostentata dello schema, una sorta d’inquietudine vertiginosa, un vuoto impensabile rivestito d’apparenze cieche.
Sotterraneamente mortali, sono questi ragionari sull’immagine. Più melanconico, innervato d’un lento senso di perdita, il lavoro di Angeli. Più votato a un’improbabile saturazione artificiosa, a un horror vacui cromatico e iconografico, che dichiara per eccesso la propria non fideistica incredulità, Festa. In entrambi, l’estroversione agisce comunque da deterrente a una tentazione meditativa, a una lontana ma ben avvertibile nostalgia. Di qualcosa.
Più ambizioso, e insieme più energicamente inemotivo, è il passo di Schifano. Sul proprio specifico, fisiologico,cortocircuito occhio-mente-mano riesce a innescare quello, massimamente problematico, di un fare che sia messa in forma di un pensiero della visione che continuamente si discute. Arbitraria, vischiosa, continuamente contraddittoria nell’apparenza, equilibrata su una provvisorietà che è captazione sempre radicale mai definitiva, la sua immagine è una richiesta alla pittura di essere comunque la pittura, snodo d’artificio e natura, qualità tipica e circolarmente relata: il paesaggio anemico, l’albero, la natura morta, nulla hanno dello sberleffo, all’occhio e all’arte come storia di visioni erette in lògos. “Se i quadri potessero gridare come porci scannati! E le immagini non morissero appena nate”. È l’invocazione angosciata di Novelli che trova, nella privatissima e nomade “storia dell’occhio” di Schifano, l’unica possibile risposta vitale che non supponga la messa in quarantena del mondo. Erigere la forma, il senso stesso, a barbaglio puntuale, splendido della sua provvisorietà d’energia, di gesto di colore, che si consuma lì davanti agli occhi. È vivere fagocitando le immagini, senza speranza senza nostalgia, con ironia disperata.