Ruggeri
Piero Ruggeri. Dipinti, disegni 1983 – 1985, catalogo, galleria Bambaia, Busto Arsizio, 30 marzo – 28 aprile 1985
Ancora, lunghi echi antichi si proiettano nei quadri di Ruggeri. Quegli stessi affioranti in certi inizi (che Fossati ben indica in La porta, in Avana, anno 1962), quando il Seicento è ancora scoperta esaltante, e risposta: ma come decantate, scremate da più di vent’anni di ostinato, e oscillante, lavorare.

Ruggeri, Paesaggio blu, 1985
Non c’è più traccia del patetismo aggrondato, dello psicologismo, dell’esistenziale in vitro di tanta parte della pittura di quell’epoca. Come depositi calcinati, svuotati d’umori velenosi – eppure ancora così presenti, e capaci di senso – restano questi bianchi e rossi e ocra di combustione lenta, incapaci d’evocazione.
E soprattutto, il nero. Non colore, pasta, troppo facile traslato, anche, d’intenzioni letterarie. Invece, principio stesso del costituirsi dell’immagine alla visione, netto e potente corpo di un dràma che, ammutolito, si ritrova tutto nell’avvertenza del fare, nell’intensità del gesto breve, determinato, che sa bene la propria lunghezza, l’appoggio. Intensità che, finalmente, dice tutto da sé, non chiede attributo.
Ruggeri costruisce secondo misura, prosciuga le paste a pura consistenza, costringe in piano ciò che facilmente si dispiegherebbe in profondità indefinite e inutili. Questa è, forse, la vera memoria degli amati americani: e anche, la ritrovata intransigenza a fare solo per via di linguaggio.
Ma questo nero, insieme, non si riduce neppure a quantità; a strumento attonito. È, si fa, di nuovo, colore-simbolo, pretende un’ambigua e ricca pienezza di senso, è come gravido e teso, nevrotico. Antico, anche. Tassi dice, giustamente, Tintoretto e Caravaggio e Rembrandt e Goya. Che non ha più a che fare con lumi e visioni, che è tutto d’anima ormai, sottilmente intrigato di morte. Figura non più dell’ombra, ma della notte.