Vedova
Emilio Vedova. Urto di verità, catalogo, galleria L’Incontro, Chiari, 26 ottobre – 19 novembre 2003
Il Barocco, il Futurismo. Questo riferimento, assai più delle poggiature cubiste e del rapporto agonistico con la pittura d’azione statunitense, conta nell’intendimento dell’opera – la prima, ma poi di sempre – di Emilio Vedova.

Vedova, Senza titolo, 1977
Il quale ne eredita e rielabora la nozione di espansione artistica, di totalità sensibile e dismisura emotiva dell’opera, assai più che un mero repertorio di modi, di gesti doverosamente altri. Insieme, conta per lui una tensione etica, una sorta di estremismo della moralità espressiva, ch’è per l’artista reduce da Corrente, da Oltre Guernica, dal Fronte Nuovo delle Arti, insomma dalle vicende tutte che segnano il dopoguerra concitato e nobile, il modo solo di ripristinare uno statuto di necessità, di verità, dell’arte.
Quando scrive, anno 1954, “non mania iconoclastica anarcoide, non equivoco commentario d’illustrativismo scientifico: ma urto di verità, catartico rovescio per un aprirsi di nuova coscienza”, Vedova dichiara assai più di quanto sembri: il sospetto, da subito, delle retoriche nuove, di un formalismo d’accatto, la smobilitazione precoce dell’espressività sorgiva, cruda, capace di ferocia, che è condizione d’arte perché condizione d’anima, senza alternative. Il nuovo dei modi, l’appello del gusto moderno, non lo attrae: sì, la conflagrazione del senso sino a quando l’immagine non si faccia sindone della verità ultima possibile.
Riflettere sulla sua opera della tarda maturità, come consente la scelta di queste opere datanti all’ultimo ventennio, dice di una sorta di distillazione estrema del suo approccio. Il decennio Ottanta si apre con una serie imponente di retrospettive, di omaggi; di riconoscimenti definitivi, infine, a un’autorevolezza così aspra e intransigente da essere risultata, troppe volte in passato, ostica. Ed è anche l’occasione di un à rebours tutto personale dell’artista nei motivi dei propri trascorsi. E’ il tempo del riaffiorare del colore dall’estremismo visionario, verrebbe da dire goyesco, del bianco/nero assoluto: è il colore aspro, allarmato, dei suoi anni Quaranta – ho nella mente il dramma sontuoso di un Incendio nel villaggio, 1946 – che corrisponde a dotti grafici che procedono come crampi, episodi, grumi d’una organicità dell’immagine che si riversa tutta nel tendersi delle sonorità coloristiche: com’è in Diario de Mexico, 1980, tempo primo di questa sua fervida stagione finale.
Ecco i nuovi grandi cicli, …als ob…, Oltre, …in continuum…, in cui ora ancora è il respiro di quei viraggi di primari, oppure, di nuovo, è il nondum, il non ancora, e il consummatum est, l’implosione, del colore, come scrive Massimo Cacciari: il quale anche parla di presagio dell’immagine da parte delle mani di Vedova, presagio che si ritrova in una fluenza concitata, in una sorta di agonistica cecità di destino. Non è più, come ai tempi dell’informale primo, un corso di riduzione, decantazione, deretorizzazione dell’apparato storico della forma formata per combatterne la chiusura mortale: ora, è vitalità che non si racconta non si dice, semplicemente si dà, in quel momento tremendo e fortissimo, e per ciò stesso è immagine. Sempre più, per questo, Vedova fa collidere il continuo interno dell’opera, solo momentaneo e pericolante momento pausa di un flusso che si sa infinito, con il continuo esteriore, convenzionale anche nell’aspettativa dello spettatore, dello spazio fisico. Da qui, nelle opere grandi, i doppi binari, i tondi, forme di transito e continuità; da qui, nei fogli – penso a un Senza titolo, 1986, a Oltre ’86-3, a Oltre ’88, a Diptych II, 1990 – il prevalere di forme che si espandono e serrano come gorghi, nei quali non intuisci una possibilità di forma, ma una effusione sorgiva, un vivere dalle grazie barbariche, un’energia che già si sa prima delle nominazioni.
Quanto tempo è passato, per Vedova, dal tempo in cui verità morale era la mera scelta di non ereditare l’eloquenza della pittura, a questa consapevolezza bruciante, di una pittura che agisce come una combustione, una conflagrazione inappellabile, agitando entro di sé lo spettro della bellezza e della luce ma senza prostrarvisi, bensì con atto di dura interrogazione, di domanda estrema.cTroppe sono state e sono, nel gioco della mondanizzazioni veloci, le prosecuzioni senza necessità di un modo, le edizioni stanche di stilemi, caute, avare, sterili. Vedova, proprio nel momento del sin troppo procrastinato riconoscimento di un magistero pluridecennale, potrebbe infine lavorar di conserva, raccontarsi, giocare con le ombre di una storia già formidabile. Ma, tintorettesco nell’anima prima ancora che nelle ombre, egli ha scelto di stare all’arte come una coscienza severa, la cui stessa insoddisfazione incoercibile è strumento intellettuale.
Ecco ancora, negli anni Novanta, fogli in cui il colore pare ricrescere, per subito franare in tonalità dissonanti di disagio, sotto la primazia cruda del nero che gesticola largo, netto, ultimativo, in controcanto solo con se stesso, per via di quelle trame e tracce sottili, che aprono corsi e transiti e spazi, tra zona e zona, tra foglio e spazio. Scrive Vedova: “spinte di debordamento – incontinenza di perimetri. In questo sentimento, di perdite di gravità, centralità, di più subentrano prese in territori subdoli”; e ancora: “un gigantesco sentimento di precarietà – al limite di tensione massima di tenuta”; “ma si potrebbe anche pensare – aggiunge – questo mondo nei termini dell’espressività infinita ed erotica della materia pittorica”. Ecco, è questione di tensione massima di tenuta, non della forma beninteso, scordata ormai nella pura matter energetica, bensì del senso stesso dell’esprimere. L’occhio di chi guarda accetta il pascolo in questo spazio ambiguo, accidentato, cangiante, chiedendo comunque traiettorie, un viaggio, un senso, e ottenendo solo un’accelerazione progressiva e continuamente brusca. Non avverte, in queste opere, le trappole altrove usuali dell’inestetico ad arte: turgido vi è il noir couleur, il quale può permettersi d’esser suadente addirittura, e carnali, ancorché non affettuosi, i colori. Ciò di cui l’occhio s’avvede è che l’immedesimazione è, davvero, fisiologica, ed è il suo corpo tuttom che si fa, come le shapes dure di Vedova, accidente allo spazio d’esistenza, e fa dell’esistenza una pura quantità energetica in mutazione continua. Non si sa più, perché è questa vie autre che lo inghiotte nel suo gorgo, splendido e feroce.