Itinerario di Lucio Fontana, in Fontana, catalogo, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 25 settembre 1994 – 8 gennaio 1995 (seconda parte)

I manifesti e le aggregazioni tattiche di cui Fontana è protagonista in questi anni hanno, come si è visto, valore di mero abbigliamento mondano di un patrimonio intuitivo, che l’artista esplora effettivamente, e approfonditamente, come ha sempre fatto, soprattutto nella fucina inventiva dello studio. Più che in qualsiasi enunciato teorico, il Fontana “spaziale” si ritrova nella pratica, nell’opera.

Fontana, Concetto spaziale, IX Triennale, Milano 1951

Fontana, Concetto spaziale, IX Triennale, Milano 1951

Concetti spaziali già s’intitolano alcuni disegni argentini che ripensano le grafie automatiche fluenti delle lastre graffite. Grafismi analoghi, in un continuum plastico inedito per la cultura decorativa nostrana, informano i fregi per la casa di via Senato, a Milano, 1947, in cui Fontana collabora con Marco Zanuso e Roberto Menghi. Una Scultura spaziale, datante al 1947 e sorella di un meno risolto Uomo atomico, egli espone alla XXIV Biennale di Venezia, 1948, a fianco di ceramiche e di un mosaico che proseguono la sua ispirazione albisolese d’anteguerra (ne esporrà anche alla Biennale del 1950: Fontana terrà l’ultima mostra di ceramiche nel 1962). Sono, tutte, avvisaglie di un evento risolutore, che s’insinua nella modalità operative di sempre di Fontana: il disegno, la scultura architettonica, la ceramica.

L’evento è l’Ambiente spaziale che egli realizza alla milanese galleria del Naviglio, una forma fosforescente appesa e illuminata nel nero della stanza da una luce di Wood, ambiente del quale la traccia più cospicua resta oggi una piccola opera a inchiostri colorati eseguita da Fontana direttamente su una fotografia dell’installazione, con ambiguo e fascinoso arbitrio tecnico e intellettuale rispetto al concetto di verità dell’immagine (18). Raffaele Carrieri, in una memorabile recensione (19), dice di un Fontana passato dalla materia “lampeggiante e vorticosa” a questa “grotta cabalistica”, di un Fontana che “ebbe il coraggio di sacrificare le sue mani”, ovvero il virtuosismo, e di impiegarle per “modellare l’aria. L’aria che nelle sue mani diventava un corpo fluido e rutilante…”. Spazio fisico, spazio mentale, spazio emotivo; percezione intuizione suggestione: non immagine del cosmo, ma cosmo effettivo che si riaggrega, e si ripensa, dopo l’ekpuròsis della forma. Questo è l’Ambiente spaziale. Figlio di cromosomi barocchi – lo spettacolo, la mai dismessa condizione di bellezza – e insieme d’una intuìta nuova situazione e sostanza dell’arte, eccedente la gabbia convenzionale delle due e delle tre dimensioni. Nascono, per complicità intuitiva, i primi buchi. Concetti spaziali, come titoleranno tutte le opere a venire di Fontana, indipendentemente da foggia, modalità, tecnica, destinazione. Altro, ormai, è il problema. “I buchi! nessuna rivoluzione una forma come un’altra di decorare una tela”. Così appunta Fontana su un disegno del 1949. Ambigua, come sempre, la formulazione verbale, sospesa tra la sprezzatura aristocratica verso una concezione e una realizzazione vertiginosamente nuova, di cui egli è perfettamente consapevole – e orgoglioso, quasi a sottrarla all’ecolalia prevedibile degli épatements; e l’immissione provocatoria del valore di decorazione, il più svalutato e artigianale nell’opinione diffusa: e la remora più forte, è credibile, oppostagli dai detrattori, restii a seguirne le ben più alte e sostanziose avventure intellettuali, restii a uscire dal campo ottuso delle definizioni, delle categorizzazioni, delle nominazioni. Fontana non si vuole più pittore, o scultore, o decoratore, o quant’altro: è artista, artista spaziale. Nulla pretendono d’aver a che fare le discipline storiche con i mestieri artigianali corrispondenti: altrettanto egli nulla vuole avere a che fare con i prosecutori di quelle discipline. Fontana sta al pittore come il pittore sta, nel dire corrente, all’imbianchino. Ciò gli importa, questo è il senso della sua posizione. Ciò, infine, lo autorizza a ricorrere anche a modi e materie e artifici tipici dell’artigianato, talora, con serena souplesse, non essendo in gioco, per lui, alcuna rivendicazione d’auctoritas disciplinare.

Fontana, Padiglione Sidercomit, Fiera di Milano, 1953

Fontana, Padiglione Sidercomit, Fiera di Milano, 1953

Fontana fora la tela, talora grezza, sempre, agli inizi, monocroma. Ha, come dice Carrieri, rinunciato alle mani. Anzi, ha fatto di più: ha ridotto il processo di nascita dell’opera a una sorta di minimale e indifferente avvenimento fabrile, non qualitativo in sé, se non per il coagulo inventivo e mentale che ne è il codice genetico. I buchi sono, pienamente, l’embodiment di un’idea, il farsi luogo e spazio, immagine, d’un pensiero. La tela vi è oggetto, cosa, e insieme continuum e infinito mentale: sarà, poi, il blank dei concettuali. Non rappresenta, non allude, non racconta, non dice: è un eventum in senso proprio, concretissimo, mentalissimo. Non rinunciano, tali opere, a una misura estetica, e per di più di ascendenza tipicamente decorativa, nel senso nobile che verrà ripristinato da Gombrich (20). I fori vi s’imprimono per andamenti curvilinei, come galattici, oppure iterativamente lineari, iniziando a svolgere una sorta di respirazione tra ordine e disordine, tra un concertato destino e l’alea. Sono i passaggi della luce che, superando il plesso storico della superficie del rappresentare, davvero segna lo spazio, lo rivela qualificativamente in eventi plastici infiniti.

“Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere… tutti hanno creduto che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto, è lì la cosa…”: così Fontana a Carla Lonzi (21), rivendicando, nella stessa intervista, la necessità comunque di una “strutturazione estetica” dell’immagine: perché d’opera, e d’opera d’arte, comunque si tratta. Per la quale Emilio Villa scriverà di “fonte del non sapere”, e  di “decisiva sconfitta e tenace rifiuto del geometrico, del poliedrico, dell’assonometrico, del prospettico, del solidificato, del polimaterico, dell’asperità del sobbalzo, cioè delle convenzionali antiquate normative simboliche”, e di “iniziativa anamitica”, generata da “questa povera piccola irosa ombra del forato sulla superficie” (22): ma nella misura, nella logica, nell’etimologia dell’arte, e dell’opera. Segni di luce, sono i buchi, sorte di cellulari monemi plastici. Fontana prende a esplorarne le implicazioni e le possibilità tanto nella fisiologia altra delle sue superfici pittoriche, scrutandone i puri andamenti ripetitivi, quanto nella collisione e nella solidarietà espressiva con altre movenze artificiose, le stesure di sabbia, i graffii, i vortici oleosi, i gesti forti o nebulosi della pittura: sino alle pietre applicate, frammenti di vetro colorato, veri e propri “doppi” concettuali e percettivi dei buchi, nella loro concretezza e clangorosa esteticità. Articolando sempre più il processo, e la complicazione artificiosa messa in campo, Fontana mira a identificare e porre in risonanza quell’energia interna alla materia che si fa, nella luce, spazio, e che coagula primariamente l’evento plastico, sorta di gurgitoso momento-pausa nell’irradiarsi infinito di possibilità: una sorta di non metaforica cosmogonia, che fa dell’arte l’universo stesso del possibile, e che pare imparentare e per certi versi assumere questa stagione dell’artista alle poetiche correnti dell’art autre, e segnatamente alla milanese vicenda dell’Arte nucleare: benché ne sia ben evidente la distanza concettuale (23).

Ma segni di luce sono anche altri percorsi plastici che egli persegue nello stesso tempo. La scommessa decorativa per la quinta porta del Duomo di Milano (24), con quei disegni che paion figli dei teatri di luci e acque di Bernini, e quella assai ardita dello scalone d’onore della IX Triennale milanese, 1951, sul quale campeggia una fitta e fluente voluta di luce al neon, a far da contrappunto a un “teatro d’ombre” a neon e luci radenti, all’ingresso, il tutto congegnato in collaborazione con Baldessari; quella in cui neon e buchi s’associano in un soffitto di cinematografo al padiglione Sidercomit alla Fiera di Milano, nel 1953, e quella che, nello stesso anno e nella stessa occasione, scandisce il soffitto del cinema del padiglione Breda: entrambe, ancora, con Baldessari, antico compagno d’invenzioni architettoniche. Il corso del decennio Cinquanta si svolge tutto nell’esplorazione dell’energetismo materico e luminoso schiuso da questa nuova posizione.  Fontana stabilizza il proprio modo di operare per serie problematiche, ovvero basate su varianti svolgimenti possibili a partire da una condizione tecnico-espressiva unitaria. E’ a tali seriazioni, d’altronde, identificate con nomi indicativi e il più delle volte convenzionali, talora dall’artista stesso (buchi, pietre, inchiostri, gessi, barocchi, eccetera) che ha scelto di far riferimento Crispolti nell’organizzazione del catalogo generale dell’artista (25).

Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1959

Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1959

Sono, tuttavia, serie che non conoscono il corso dello svolgimento ordinato, della progressione per modifiche: sono piuttosto territori inventivi, che l’artista affronta e periodicamente abbandona, e che soprattutto, com’è suo costume, incrocia e continuamente contamina con altre serie, con altre tipologie operative. Due cose vanno fondamentalmente osservate, a proposito di questa stagione dell’artista. La prima è la sua evidente preoccupazione di mantenersi all’interno di una dimensione prettamente estetica dell’operare: preoccupazione spinta sino alla decisione di far ricorso a certe schegge della retorica dell’esteticità – certe soluzioni soavemente kitsch, certe ipertrofie decorative, come l’uso in talune opere dei lustrini, oppure di colori fortemente connotati sul piano del gusto, a cominciare dal rosa shocking – e di accentuare il versante spettacolare, di captazione sensibile anche epidermica e di gusto primario dello spettatore. Fontana mantiene una forte purezza intuitiva, nella concezione dell’opera, purezza necessaria a quella che egli stesso chiama “filosofia del niente” (26). Tuttavia, se da un canto in certe serie di opere, più direttamente esemplate sui buchi iniziali – penso a certe asciutte sequenze di buchi più tarde, a certi inchiostri lirici e sospesi, per la via che porterà ai tagli – egli mantiene anche una semplicità minimale d’impianto e di struttura, una economia di mezzi e di gesti assai rarefatta, in altre, pur ad esse solidalmente connesse, egli agisce per via di sovradeterminazioni, di eccessi controllati, di ridondanze turgide.

C’è una logica, in tale scelta: è quella di dimostrare che non il rigorismo operativo in sé conta, ma il nitore concettuale che anima il processo, e che è in grado di identificarsi anche laddove l’opera si conceda i massimi rischi sensibilistici, le massime compromissioni con le modalità più consumate della maniera artistica. Rigorista, d’altronde, Fontana non sarà mai: e per questa sua posizione pronto a scontare anche i rimproveri e le riserve da parte di certa critica, come molta della statunitense, incapace di vedere lo stile suo vero sotto le spoglie di questo anche divertito stilismo; così come, nel cuore degli anni Sessanta, le accuse di eccesso “produttivi sta” che gli provengono dai clerici del concettualismo, dagli strateghi dell’“en faire le moins possible”. Se la sua attitudine è corretta, se la sua sintonia con le materie e le loro fluenze energetiche è effettiva, tutto, ma davvero tutto senza riserve, può farsi arte. Ciò intende Fontana, per il quale inammissibile sarebbe qualsiasi limitazione teorica o eteronoma nei mezzi e nei modi. La seconda osservazione riguarda l’infittirsi, nel momento di massima sua concentrazione sulle possibilità dell’arte nuova, delle prove che l’aspettativa corrente chiama quadri, intercalate da brevi serie plastiche, come le sculture presentate alla Biennale veneziana del 1958, formalmente sorelle dei gessi e degli inchiostri coevi. Fontana pare avvertire un rischio, insito nelle realizzazioni brucianti del lustro iniziato con l’Ambiente spaziale del 1949. Il rischio che l’eccentricità modale delle sue operazioni faccia aggio sul loro spessore intellettuale, accreditando presso il pubblico ipotesi di antiartisticità o di anartisticità che egli considera fuorvianti. Inoltre, se egli affrontasse la questione della materia, della sua vitalità, della sua respirazione energetica, in forme e situazioni solo fortemente extradisciplinari, verrebbe meno il versante più sottile e determinante della sua scommessa, quell’intendimento della materia plastica stessa – pittorica e scultorea – come materia, che omogeneizza l’immensa estensione tutta della sua opera, abolendo di fatto la distinzione tra ciò che è propriamente artistico e ciò che non lo è, tra ciò che è artisticamente attuabile e ciò che non lo è: e tutto rendendo il possibile, artificiosissimo ma fervido, dell’arte. Ecco perciò che la metamorfosi genetica dell’opera d’arte deve esplicitarsi, in forme non dubbie, proprio nei tòpoi del pittorico: la tela, il colore, la pennellata: che si tratti del turgore felice e prorompente dei barocchi, oppure dell’opalescenza avara e meditabonda dei gessi, oppure ancora dei dilavamenti lievi e dei grumi nevrotici di segni degli inchiostri e delle carte.

Fontana, Concetto spaziale. Nature, Otterlo, 1959-60

Fontana, Concetto spaziale. Nature, Otterlo, 1959-60

Fine anni Cinquanta. Nascono i tagli, nascono le nature. E’ una fase risolutiva, nell’itinerario di Fontana. I tagli rappresentano lo svolgimento per molti versi necessario dell’intuizione prima dei buchi. L’annuncio del loro apparire è nei graffiti, sempre più avvertiti e intensivi, che trascorrono dagli inchiostri alle carte. Segni, sono, in concentrazione ultima: e gesti sospesi al limite zen della demateriazione definitiva, a ridosso dell’infinito. Fontana ne intuisce con chiarezza la prospettiva proprio allo scadere del decennio, dopo un primo e sperimentale impiego scritturale. Dapprima brevi e iterativi, e talora legati a una sagomatura fortemente oggettuale della tela, essi giungono a purezza definitiva d’enunciato nelle serie del 1959 e 1960. La superficie vi è monocroma, indifferentemente grezza, o bianca, o nera, oppure campita di altrettanto indifferentemente squillanti colori, verde giallo rosso… Il taglio vi s’inscrive con formulazione netta, a scandire lo spazio, a schiuderlo verso spaziosità definitivamente orfane dorizzonte. E’, sovente, solitario, unicum irrelato, differenziale minimo e potentissimo di forma. Vero evento, plasticamente perfetto, perfettamente trasparente. Oppure si declina iterativamente, seguendo cadenze regolari, appena disorientate: segno sorgivo e ultimo, insieme. Infittendone le cadenze, anche in questo caso Fontana ne saggia una sorta di concettualizzato potenziale decorativo. Ma ne prevarrà, nel tempo, la sospensione autenticamente astratta, la capacità di tracciare la soglia di quel nowhere, perfettamente reale perfettamente altro, che sarà anche il vide di Klein: come nell’installazione alla Biennale veneziana del 1966, articolata in grandi tele bianche segnate da un solo taglio, quasi monumento metafisico dell’idea, che la struttura di supporto serra in una visione singola, concentrata, spazialmente sospesa.

E’ una sorta di definitiva concentrazione cosmica, che Fontana trova nei tagli. E che si traduce anche nelle nature, di ben diversa conformazione ma assai vicine dal punto di vista dell’intuizione. Sono zolle, e ovoidi (fratelli di quelle shapes ovoidali che da tempo appaiono, tra altre d’eco biomorfa, nei quadri), che sembrano generarsi dall’indistinto della materia e, attraverso il segno primo –il buco, il taglio – cominciare il viaggio verso la forma. Fontana vi riprende il suo antico rapporto con la terra: ma, ancora, rinunciando alle mani. La formazione vi è brusca, sommaria, deliberatamente elementare e corsiva: e il segno vi s’incide con aggressività erotica, in oscura e potente complicità: senza estro, senza grazia. E’, davvero, l’intimità della materia che si fa opera, che si proclama al mondo: è l’idea stessa di generazione, che Fontana “vede” in una sorta di mineralità cosmica, dalla crescenza ineffabile. Fontana ha raggiunto una sorta di sapienza definitiva. Sa, ora, ciò che lega materia e infinito, nell’arte sua. E si pone sulla via di ulteriori concrezioni del suo disincantato eterno senza immortalità. Materia è la terra delle nature, ma materia è, si è visto, pariteticamente la materia pittorica, che già nei barocchi aveva conosciuto estremi d’eccitazione fisiologica. La serie degli olii è, da questo punto di vista, la più sistematica e approfondita contaminazione tra la concezione astratta della superficie dell’opera e la sua autonoma qualità materiale, corporale. L’olio si stende spesso, concreto, in stesure larghe ed evidenti, in esplicita a lussureggiante matericità. E’, a tutti gli effetti, sostanza artistica, né pittura né scultura. E su questa sostanza s’inscrivono graffiti che tracciano rabeschi biomorfi o andamenti automatici, che segnano l’ormai prediletta sagoma ovoidale; e s’incidono buchi, lacerazioni, tagli, che marcano il punto-limite tra l’escrescenza fisica, la germinazione, e la vertigine dell’infinità oscura che se ne schiude. Fontana si consente, come sempre, il trionfo estetico dei colori, gli ori e i rosa carnali, i gialli maturi e i verdi pieni, i rossi e i lunari argenti, fino all’estremo clamoroso delle Venezie del 1961, ove compaiono anche luminescenti frammenti di vetro eredi delle pietre. Tale turgore saggia una possibilità nuova di buchi e tagli, una condizione meno cosmicamente astratta e più intimamente legata all’artificiosissima intimità della materia, in parallelo con le severe e alte, e vien da dire senza forzature classiche, sequenze di tagli.

Fontana, Concetto spaziale. La fine di Dio, 1963-1964

Fontana, Concetto spaziale. La fine di Dio, 1963-1964

Così è anche, d’altronde, per altre più circoscritte operazioni, quelle utilizzanti il lucore caldo e straniato delle lastre di rame dei metalli, ove il segno incide più energetico e forte, meno sismograficamente avvertito che negli olii. Così è, soprattutto, per una delle serie più importanti di Fontana, la Fine di Dio, dipanata nel biennio 1963-64. La sagomatura ovoidale delle tele, di esplicita valenza simbolica (27), e lo spessore dell’olio – reso spettacolare dai colori forti e dalle stesure di lustrini – dicono che di materia, della materia fondamentale si tratta. E le costellazioni di buchi incisi, talora espansi sino alla lacerazione, tracciano una sorta di vertigine cosmica, alternativa – ecco la ragione del titolo – all’idea storica antropomorfa del divino. Sia che si tratti dei tagli, sia che si tratti delle serie di opere fondate sulla materia, dalle nature alla Fine di Dio, entrambi i percorsi principali d’esperienza di Fontana hanno in comune, oltre all’intuizione d’origine, un elemento evidente. Si tratta dell’aumento complessivo di teatralizzazione, di temperatura sensoriale, che l’artista sceglie di poter dispiegare, a questo punto della sua ricerca.

Anche la serie candida di tagli del 1966, a ben vedere, prevede una sia pur silenziosissima e sospesa messinscena. Inoltre, l’impiego sempre più variato di colori di forte accento timbrico, spesso saporosamente contaminati di gusto chic, la sensuosità prorompente e velatamente erotica degli olii, l’impiego più sistematico dei lustrini, la sagomatura delle tele di talune serie, l’impiego di lastre di rame e vetri… tutto dice, in questi anni, di un’accelerazione dell’evidenza spettacolare delle opere, e della loro lievitazione estetica. Perfettamente congruenti a tale tensione – che a sua volta non è che lo sviluppo d’una premessa ben presente sin dagli anni Trenta  e che fa delle stesse collaborazioni architettoniche delle vicende sceniche – nascono nel 1964 i teatrini. Si tratta di oli su tela incastonati in sagome di legno laccato. Monocrome sono le tele, tracciate da sequenze di buchi, e monocrome – di colore identico o divergente – le sagome lignee, che scaturiscono dal codice retorico della cornice sino a farsi degli interposti plastici veri e propri, con movenze d’arabesco oppure figurazioni biomorfe, assai vicine alle nature, intrise d’una sottile visionarietà “postatomica”. E’, ancora, una ripresa d’eco barocca, e un ripensamento della totalità, concettuale ma anche oggettiva, dell’opera d’arte (28).  Fontana vi persegue una nettezza operativa analoga a quella dei tagli: uniformi stesure monocrome, contrasto tra opacità della tela e brillantezza artificiosa della laccatura (brillantezza inemotiva che perseguirà anche nelle ellissi, pure in legno laccato, sorte di meccanizzazioni astratte degli ovali della Fine di Dio) e, pur nell’assertività forte dell’opera complessiva, rasserenata classicità d’impianto formale. Sono, i teatrini e le ellissi, insieme agli ambienti a luce di Wood realizzati per la mostra “Lo spazio dell’immagine” a Foligno, 1967, per la mostra allo Stedelijk di Amsterdam, 1967, per la Biennale veneziana del 1968, gli esiti estremi della sua tensione all’opera d’arte totale, all’opera spaziale perfetta. Che egli forse concepisce alla fine, per la Documenta di Kassel del 1968: un metafisico labirinto bianco, che rivela un taglio bianco.

Note. 18. L’opera, registrata al catalogo generale come 48-49 A 3, è sempre stata pubblicata come gouache su cartoncino. Devo la segnalazione a Valeria Ernesti della Fondazione Fontana. 19. R. Carrieri, Fontana ha toccato la luna, in “Tempo”, 8, Milano, 19-26 febbraio 1949. 20. E.H. Gombrich, Il senso dell’ordine, Torino, Einaudi, 1984. 21. C. Lonzi, Autoritratto, Bari, De Donato, 1969. 22. E. Villa, Fontana. Disegni e gouaches, cat. galleria 2RC, Roma-Milano, 1981. Su un’idea sostanzialmente plastica, e costruttivamente propositiva, e mai indifferente alla ragione estetica, di Fontana, insiste giustamente G. Ballo, Fontana: idea per un ritratto, Torino, Ilte, 1970; Lucio Fontana, cat. Palazzo Reale, Milano, 1972 (la mostra, allestita da Luciano Baldessari, si segnalava per l’attenzione al versante ambientale dell’artista). 23. Su questa vicenda cfr. G. Anzani, Arte nucleare 1951-1957. Opere-testimonianze-documenti, cat. galleria San Fedele, Milano, 1980. Il ruolo di Fontana in queste congiunture appare più di patrocinio che d’effettiva congruenza problematica: mentre, ha osservato assai giustamente Crispolti (Traccia per l’opera di Lucio Fontana, cit.) è da rivalutare l’influenza delle sue ceramiche della fine degli anni Trenta e soprattutto dei tardi anni Quaranta sulla genesi stessa delle poetiche informali, con le quali i barocchi instaurano una sorta di dialogo. Di Crispolti cfr. anche Fontana, lo Spazialismo a Milano, e il contesto informale, in Fontana e lo Spazialismo, cit. 24. Sui progetti per la quinta porta del Duomo, degli inizi degli anni Cinquanta, cfr. soprattutto G. Manganelli, L’ironia teologica di Fontana, Milano, Multhipla, 1978: “Quando Fontana si provò a far modellini in gesso e bronzo, cercò l’equilibrio dell’aria e dell’acqua in una schiuma tormentata e bizzosa, che ribollisse e fermentasse nell’ambito delle quinte da melodramma…”. 25. Lucio Fontana, cit., vol. 2: Catalogue raisonné des peintures, sculptures et environnements spatiaux rédigé par Enrico Crispolti; ampliato poi in E. Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo generale, 2 voll., Milano, Electa, 1986. 26. in C. Lonzi, cit. 27. Ova vengono indicate, con venatura ironica, in occasione della prima mostra in cui vengono esposte: G. Dorfles, Lucio Fontana. Le ova, cat. galleria dell’Ariete, Milano, 1963. Sul tema dell’“uovo”, cruciale per capire le nature e la ricorrenza di sagome ovoidali nelle sue opere, valgano le dichiarazioni, riferite al soggiorno parigino,  rese a Tommaso Trini nel 1968: “Io allora cercavo col colore di rompere la materia … Boccioni me l’aveva già suggerito, mentre in Brancusi… Sì, io sono stato amico di Brancusi, abbiamo avuto delle grandi discussioni, lui era un genio, però io ero un giovane di fronte a lui, e facevamo delle discussioni tremende. Io facevo le lineette, e lui diceva, ‘questa non è scultura’… Dicevo, ‘lo so, ma io non cerco il volume, mentre lei con l’Oiseau spezza la luce su una forma perfetta e la leviga, però Boccioni…”, e lui si arrabbiava a morte perché non capiva, perché lui la materia l’ha resa veramente astratta, il suo ‘uovo’ era veramente una cosa colossale”: intervista riportata in T. Trini, Lucio Fontana, cat. Palazzo dei Leoni, Messina, 1986. 28. Sullo “spazio come palcoscenico” insiste acutamente R. Sanesi, Lucio Fontana, Milano, Mappamondo, 1980.