Itinerario di Lucio Fontana, in Fontana, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 25 settembre 1994 – 8 gennaio 1995 (prima parte)

“Non mi interessa lo spazio di cui parlate voi. La mia è una dimensione diversa”. Così Lucio Fontana, a demarcare con nettezza la propria avventura dalle topologie orizzontate dell’arte statunitense (1), così come dai sensibilismi d’eco romantica che ancora animavano gran parte della vicenda europea del secondo dopoguerra.

Fontana, Testa di ragazza, 1931

Fontana, Testa di ragazza, 1931

Lo spazio, uno spazio diverso. Diverso per sostanza, non per intendimento. Uno spazio reale, non una figura dell’intelletto. Lo spazio degli eventi, della vita delle forme, del loro darsi puntuale e insieme impregnato d’eternità: eternità, precisa Fontana, non immortalità. E’ il valore stesso della nozione storica di forma nello spazio (quale forma, in quale spazio), secondo la radice originaria della cultura europea, a far da innesco al lungo corso riflessivo ed espressivo di Fontana. Egli nasce scultore, primariamente. Scultore: ovvero, negli anni Venti che lo vedono esordire, erede anzitutto d’un patrimonio disciplinare talmente forte e autorevole da aver introiettato in sé l’idea stessa di scultura.

L’origine artigianale, prima ancora che accademica, della formazione di Fontana, è fondamentale per comprenderne gli svolgimenti iniziali dell’opera: e per spiegarne, anche, la persistente vocazione, poi, negli anni maturi, a ragionar d’arte “the hand in the matter”: agendo anziché predeterminando teorie: e misurando il possibile nuovo dell’opera d’arte facendo opere, anziché giocandone a scacchi i destini. La scultura è, per chi cresca in seno alla generazione di Fontana, un fare ragionato, e un codice retorico ancora motivato, ove anche la maestria ha un suo luogo proprio, e la seduzione estetica è una condizione necessaria. E’ disciplina, e una disciplina con stelle fisse dalle quali non è possibile derogare: si chiamino Auguste Rodin o Aristide Maillol, oppure Vincenzo Gemito e Medardo Rosso. Ciò che Fontana affina, a fianco del padre Luigi, valente professionista, tanto quanto nell’aula di Brera sotto Adolfo Wildt (né è un caso che in quest’aula s’incrocino negli anni Fontana e Fausto Melotti, Vittorio Tavernari e Luigi Broggini…) è il senso di un’identità disciplinare più forte ancora della scelta modale, un’idea tutta qualitativa di tecnica, in qualche modo preliminare allo stile stesso: che consente, anche, ciò che altrimenti potrebbe dirsi eclettismo, e che invece per lo scultore diviene nulla più che continua ricerca di nourritures diverse, e verifica, e vaglio definitivo (2). In questo senso, oltre che tenendo conto delle normali curiosità dell’artista in formazione e in ricerca orgogliosa di sé, si possono spiegare molte vicende degli anni più antichi di Fontana.

Il trascorrere da accademismi ottocenteschi a poggiature déco, ai primissimi inizi, dalla schematizzazione di Alexandr Archipenko a echi futuristi e al classicismo turgido di Maillol, dai tardi anni Venti. Edoardo Persico, nella memorabile lettura degli esordi di Fontana (3), rimanda soprattutto, e con molte ragioni, ai modelli primari di Wildt e Archipenko: cui va aggiunta una curiosità critica e assai aperta a quanto da Parigi si diffonde per l’Europa e, forse con un ruolo assai più determinante di quanto si sia di solito indicato, una precisa e precoce insofferenza per il martinismo, ovvero per l’assunzione dell’arte di Arturo Martini a paradigma retorico di nuova statuaria, addirittura ben al di là degli stessi intenti espressivi di Martini. In ogni caso, dato eminente è l’indifferenza sostanziale di Fontana verso stringenti adesioni avanguardistiche, di modo non solo di gruppo. Ciò di cui è in cerca, tra fine anni Venti e primi Trenta, è piuttosto  una distillata ragione della modernità, una modernità non d’occasione non d’apparato, che passi per le vie battute della logiche degli -ismes tanto quanto per altri meno illuminati, ma non meno fertili, sentieri. E c’è, in lui, lucida come in pochissimi altri a quel tempo, l’interrogazione sull’integrazione delle arti, sulla possibilità mondana e insieme intellettuale di Gesamtkunstwerk, d’opera d’arte totale. Interrogazione che gli viene non solo dal clima culturale milanese, quella sorta di Bauhaus de facto che troverà espressione massima e puntuale nelle Triennali, ma anche dalla sapienza artigianale della sua origine, attraverso la quale passa di certo una non banale cognizione della cultura decorativa.

Fontana, Figure nere, 1931

Fontana, Figure nere, 1931

Assai complessa è la lettura del decennio Trenta, nel percorso di Fontana. Molte sono le opere, e molte le direzioni di ricerca, che egli intraprende in questi anni: e tutte per certi versi decisive. Se si confronti la stilizzazione lineare e la trattazione quasi pittoricistica delle superfici del Nudo del 1926, tipica prova di ricerca giovanile (d’una stagione in cui molte prove sono diversamente segnate da ragioni di committenza), con la bruschezza plastica del perduto Uomo nero, 1930, o delle Figure nere e del Toro, 1931, occorre convenire che il “primitivismo un po’ ingenuo ed arbitrario” individuato da Persico (4), ben analizzato da Enrico Crispolti in un memorabile saggio (5) è il primo autentico tentativo da parte dell’artista di identificare un proprio non banale ubi consistam espressivo. La semplificazione formale brusca, forte d’abbreviazioni lineari che si fanno impronte urgenti nel corpo stesso dell’opera; l’adozione come brutale, indifferente ad artifici di finitura, della materia, nella sua dimessa e splendente evidenza; il periclitare continuo tra una lettura volumetricamente assertiva ed una suggestivamente bidimensionale; e, infine, un uso “materiale”, barbarico del colore (che era già stato saggiato nel Nudo, come indicano le tracce d’una doratura originaria, poi cancellata): tutto dice d’un Fontana insieme attratto e analiticamente critico verso la capacità di sedurre della forma plastica, e segnatamente verso i momenti generativi, di assunzione organica di forma, della materia.

E’, in altri termini, l’intuizione profonda – e a quelle date incomparabilmente precoce – dell’intimità della materia, e della sua vitalità: dunque, d’un formarsi prevalente sulla nozione storica del formare: e d’una complicità genetica, erotica anche, che l’artista è chiamato a intrattenere con la materia, ribaltando antiche retoriche agonistiche. Il plasticare, il tracciar segni e l’inciderli, il dar di colore, acquisiscono in tale attitudine un valore di scambio fisiologico ed emotivo insieme tra l’artista e l’opera, ben lontano da ormai scontate suggestioni demiurgiche, di cui Fontana diviene via via sempre più consapevole: valore leggibile in tutta la scultura degli anni Trenta, certo, ma anche in prove come il geniale Ritratto di Teresita, 1948, e nelle nature del 1959-60: e nei tagli stessi, negli olii. Barbariche, o quanto meno anticlassiche rispetto al perdurante dibattito plastico nostrano, sono anche prove come Il fiocinatore, 1933-34, e la Signorina seduta, 1934, per non dire del più tardo Ritratto, 1938, in mosaico, delle quali va letta la sottrazione di monumentalità, una sorta di appena svagata ma determinatissima reinterpretazione delle classicità nuove. E’ con opere come queste che Fontana incrocia, in uno scambio problematico e pragmatico che durerà decenni, le sue operazioni con quelle degli architetti della generazione nuova, da Luigi Figini e Gino Pollini a Marcello Nizzoli, dai BBPR a Giuseppe Pagano, ai più giovani Marco Zanuso, Roberto Menghi e Ico Parisi, per non dire del lungo sodalizio ideale con Luciano Baldessari. Si tratta di esperienze nelle quali è folgorante l’intuizione di Fontana di accedere a un livello complesso di elaborazione operativa attraverso un’effettiva solidarietà d’intenti e d’invenzione: ma senza che ciò comporti deroghe e contaminazioni disciplinari, mantenendo alla scultura un ruolo e un’identità suoi propri, pur in un ambito ben più ampio di responsabilità plastica e significativa.

Un altro formare, un altro segnare, quasi sismograficamente emotivo, e certo almeno momentaneamente sottratto ai vincoli della referenza, è delle opere che contraddistinguono la tangenza di Fontana con il gruppo astratto del Milione, e più latamente con Abstraction-Création (6). Le lastre graffite, le sculture dagli andamenti tra organici e geometrici, dicono d’un astrarre non in cerca di visività essenziali, d’ordine d’eco più o meno metafisica, di un programma operativo più o meno estensibile e replicabile. Per Fontana la tangenza con la pratica che si voleva astratta non avviene sul piano delle scelte espressive ultimative, e tanto meno delle modalità stilistiche, delle moralità formali. Egli è in cerca d’una primarietà, d’una immediatezza dell’esprimere, che sia la frequenza stessa, e la respirazione, della materia che assume spazio nella luce, e dunque vive del tempo. Una primarietà che nei flussi dell’organico – e va ricordato che larghi settori della ricerca non oggettiva degli anni Trenta fanno i conti, in Europa, con il biomorfismo – trova l’identità prima di uno stato della coscienza formale precedente, anziché estraneo, alla nozione di figura. Tale esperienza, assai circoscritta nel tempo e nel numero delle opere, va detto, è una sorta di vaglio consapevole che Fontana opera delle intuizioni già ben presenti nelle sculture dei primi anni Trenta. Ciò che gli importa è verificare con ancor più sottigliezza la questione della lettura bidimensionale e tridimensionale della forma plastica, in una sorta di luogo sospeso tra il darsi concreto della forma e l’aspettativa rappresentativa che il codice artistico le ha indotto: il che significa, balzando alle conclusioni, assaporare il punto limite dell’ambigua nozione di spazio dell’arte.

Inoltre, egli è in cerca di un segno, un segno che non sia calligrafia ma grafia necessitata, che non determini eteronomamente la forma ma che la susciti congenita allo spazio: un segno automatico come quello surreale, del quale in questi anni molto si parla, ma figlio della tipica consapevolezza pragmatica di Fontana, di un fare che esplora ulteriori condizioni e possibilità attive, anziché gli spessori altri dell’irrazionale. Non è per caso, da questo punto di vista, che proprio ora il disegno, così importante per tutto l’arco della sua vicenda creativa (7), rivesta un ruolo centrale all’interno dell’opera tutta di Fontana. Egli vi può agire in una sorta di distillatissima fisicità, nell’ideale condizione d’identità tra lavorio concettuale e azione concreta, tra realtà fisica e realtà ripensabile e ripensata dello spazio. E il segno vi è la ragion d’essere stessa della forma, e del suo manifestarsi: secondo evidenza, e per autonomo codice genetico.

Fontana, Medusa, 1941

Fontana, Medusa, 1941

Al volger di lustro la curiosità “astratta” di Fontana è ormai esaurita, essendone state esplorate le ragioni congruenti alla sua vocazione plastica. Assai maggior tempo ed energie, intellettuali e creative, Fontana dedicherà da questo momento alla ceramica, alla quale si accosta su sollecitazione di Tullio D’Albisola (e per le suggestioni che certo gli provengono da Melotti), e che da questo momento sarà compagna fissa dell’operare dell’artista. Esperienza dapprima accolta con entusiasmo sperimentale, poi approfondita con rigore disciplinare sistematico (8), la ceramica è il luogo per eccellenza di questa fase problematica della ricerca di Fontana. Egli la pratica ad Albisola, con esiti in un primo tempo di forte eccitazione materica. E’ materia che pare crepitare in un prender forma aspro, concitato, telluricamente violento, eppure capace anche di tenerezze, di godimenti sensibili. E’ una sorta di suggestione dell’informe, o una combustione espressiva della forma, ad agire in queste opere: che trattano temi vegetali e animali, quasi e deproblematizzare, credo, il peso del soggetto in una fase in cui altre preoccupazioni (d’espressione, per la quale il tema di genere, fortemente naturale, è semplice e a un tempo congruente; ma anche, si può presumere, di pura acquisizione di un bagaglio tecnico adeguato, in vista di svolgimenti più ambiziosi) sono prevalenti.

La sollecitazione che queste esperienze esercitano su Fontana è forte: né va dimenticato che esse agiscono su un artista nella cui formazione è congenita l’attenzione alle arti minori, al decorare, alle pratiche artistiche considerate dai più artigianali. Fontana avverte che dietro il lavoro delle fornaci liguri sta un potenziale espressivo che gli “specialisti” appena intravvedono, ma che s’orienta esattamente nella direzione di ricerca scultorea che egli ha intrapreso: della forma come avvenimento contingente nella luce e nello spazio, come grumo vitale a radiante carica energetica, e a primario effetto spettacolare.

Decide di approfondire anche dal punto di vista tecnico tale interesse, e nel 1937, complice anche l’attrattiva esercitata dall’Esposizione Universale – alla quale ha collaborato – si reca alla Manufacture Nationale di Sèvres. Pier Paolo Pancotto, in una ricerca tuttora inedita (9), restringe il periodo di permanenza effettiva dell’artista ad alcuni mesi del 1937: mesi di lavoro matto e disperatissimo, verrebbe da dire, ove si consideri che all’amico Tullio D’Albisola scrive di aver realizzato “un trecento pezzi di ceramica”, dei quali però “solo una trentina valgono la terra”. I lacunosi archivi della Manufacture ci tramandano solo i titoli di poche di queste opere: Tortue, Singe, Coques, Crocodile, Taureaux … oltre a più generici “gruppi” e “vasi”, solo due dei quali, un Vaso con fiore e un sintetico e barocchetto gruppo di tre figure, di collezione privata parigina, sono stati sinora individuati con certezza. Sicuramente, preoccupazioni di ordine commerciale, legate al sostentamento stesso dell’artista, lo orientano verso produzioni di cui s’è persa la traccia: e anche l’intento, per lui primario, di svolgere una sorta di laboratorio tecnico intensivo. Tuttavia, ben due mostre – si suppone con le opere che “valgono la terra” – segnano, nella Parigi di quegli anni, il passaggio del Fontana scultore, e il successivo biennio italiano è contraddistinto da un’accelerazione qualitativa delle sue opere – che nel grand feu assumono i bagliori ora corruschi ora maravigliosi di policromie sofisticate, e forme di strepitosa spettacolarità barocca – e dalla scelta frequente di presentarsi anche in veste ufficiale come scultore ceramista: così avviene alla Quadriennale romana del 1939, con la folgorante e inquieta Medusa, 1936, con il Busto di Paulette, 1938, ora alla Galleria d’arte moderna di Firenze, e con una non riconoscibile Silhouette (10). E’ un’identità plastica diversa, che Fontana ha ormai trovato nella ceramica. E’ la vitalità della materia che cresce alla forma e irradia energie fino al punto del dissolvimento nella luce: come mediando tra le grandi lezioni alle quali continuamente fa riferimento, il lontano barocco e la vicina congiuntura Rosso-Boccioni, egli coglie la dynamis segreta della materia e la identifica con la sostanza cromatica stessa, contigua e congenita alla luce.

Ceramica, e collaborazioni architettoniche, segnano la fine del decennio. Se pure Fontana vi corrisponde con un persistente svariare di modi, tipico d’un rilassato rapporto professionale con la committenza, è pur vero che le recenti esperienze scultoree, seguite al bagno riflessivo della breve stagione del Milione, gli mostrano come sia impellente sanare le distonie disciplinari tuttora aperte, e risolvere le ambiguità ancora presenti. Da questo punto di vista, certo, gli anni del soggiorno argentino, che dura dagli inizi del 1940 alla primavera del 1947, sono decisivi, assai più di quanto appaia dalle opere: mentre nessun conto ha la tangenza, al volger di decennio, con il gruppo di Corrente, determinata da epidermiche analogie espressionistiche, e nulla più. Gli anni argentini rappresentano per Fontana una stagione di ripensamento della scultura più formale e assettata, dalla quale si era andato progressivamente allontanando, e di non banali esperienze monumentali e di collaborazione architettonica, a fianco dell’ormai preminente eccitazione espressiva della materia plastica (11). Ciò che accade nel suo studio, però, lontano dai fervori del dibattito milanese d’un tempo, è una sorta di riflessione di più ampio spettro problematico, quale presumibilmente la sua attitudine fortemente pragmatica, negli intensi anni precedenti, non aveva consentito: né la sua ricerca d’una identità e d’una coscienza artistica autonome, che possono dirsi raggiunte proprio verso il 1938-39. E’ da tale situazione che maturano alcune consapevolezze definitive, e la spinta prima alla vicenda spazialista.

Se, ancora nel 1939, egli può proclamare con orgoglio “Io sono uno scultore e non un ceramista” (12), è pur vero che l’intensificarsi delle collaborazioni architettoniche e decorative, e lo stallo sostanziale di ricerca che gli anni argentini comportano, certo gli fanno avvertire con chiarezza inusitata che la sua salvaguardia aristocratica di un’identità disciplinare, così come egli ha sempre rivendicato,  è cosa affatto diversa dall’adesione disciplinare tout court, e con essa viene troppo facilmente confusa. In altri termini: se per Fontana, sia che egli collabori con Nizzoli a un ambiente di qualità architettonica, sia che realizzi le sue trepide sculture geometriche, sia che veda il colore farsi materia e luce nel grand feu, è naturale e verrebbe da dir scontato che la questione non è se si tratti di pittura, o scultura, o decorazione, ma d’una ben più radicale mozione d’intento artistico, del quale la pratica è identità necessaria; se così è per lui, non altrettanto chiaramente la sua attività viene intesa dall’ambito artistico, per il quale la nominazione tecnica – allora come nei decenni successivi – è prevalente su ogni altra valutazione, e ciò che si spende subito in termini di lettura è il suo esser di volta in volta scultore, e ceramista, eccetera, con un quasi mai celato sospetto d’eclettismo.

Fontana, Concetto spaziale. Scultura nera, 1947

Fontana, Concetto spaziale. Scultura nera, 1947

Occorre, quindi, elaborare uno schema di artisticità che, facendo salva la qualità e il prestigio fabrile che dalla sapienza disciplinare discendono, e ai quali egli non intende rinunciare, renda evidente e centrale proprio la sua non riducibilità alle nozioni classiche di pittura, scultura, decorazione (con l’aggravante, per la decorazione, oltretutto, d’una mai sanata implicazione riduttiva): meglio, renda insussistente la questione. Fontana s’avvede, in ultima analisi, che la sua scommessa di modernità – nelle rare interviste, egli insisterà sul dovere dell’artista di essere “contemporaneo” – deve passare in modo più strategicamente esplicito attraverso un atteggiamento avanguardistico: quello, per intenderci, e se è consentito un paradosso lieve, che fa promuovere presso pubblico e critici un sospetto d’eclettismo in un fertile sperimentalismo. Le sue intuizioni sulla materia, sulla formatività, sul colore, sulla luce: sullo spazio; il suo lavorio sulla coscienza tecnica dell’arte e sui suoi limiti storici; il suo agire in campi e modi sempre cangianti inseguendo il filo rosso d’un medesimo intento d’arte. Tutto ciò va razionalizzato e sistematizzato in discorso d’arte, sotto l’abbigliamento nobile – echeggiante l’amato futurismo – del manifesto, e del gruppo. Del resto, se pure Fontana è estraneo ai fideismi e agli ideologismi dell’avanguardismo, pure con l’avanguardia, storica e recente, vive un rapporto di naturale consanguineità: essa è in fondo, già, tradizione nuova, l’unica – insieme alla tradizione grande, non stereotipabile dall’accademia – sulla quale la riflessione valga l’impegno, con amore critico e scrutinio appassionato. E’ da questa congiuntura, biografica e intellettuale, che tra l’accademia Altamira, dove Fontana insegna,  e la frequentazione con il gruppo d’avanguardia Madì, nasce il Manifiesto blanco, antefatto argentino della serie fitta di manifesti spazialisti (13).

Numerose ed esaurienti analisi sono state compiute, a proposito delle implicazioni teoriche e programmatiche del Manifiesto blanco e delle enunciazioni successive. Prima di sintetizzarne i temi, occorre tuttavia osservare subito un fatto: che Fontana assume lo strumento avanguardistico – il manifesto, il gruppo, lo statement – da un punto di vista modale, sostanzialmente straniato rispetto al nucleo autentico della sua riflessione. Occasionale appare l’adesione attraverso la sottoscrizione, al Manifiesto come ai successivi, da parte di altri artisti. Non c’è selezione “strategica” delle adesioni da parte di Fontana, né sollecitazione, né, a ben vedere, alcuna verifica di plausibili ortodossie. Come, in altri tempi, egli non si è posto soverchi problemi nel percorrere tratti di strada comuni con gli amici del Milione e con i giovani di Corrente (avrà, in seguito, analoghe generiche tangenze con il Movimento Arte Concreta (14)), così negli anni cruciali dello Spazialismo egli appare in cerca più d’una cerchia confidente di solidarietà “di pelle” per il suo percorso solitario, che non d’una compagine in grado di proseguire congruentemente le attività di gruppo dell’avanguardia storica. Di queste cerchie, spicca come dato non banale la ricca presenza di giovani, primo segno concreto d’un patrocinio delle vicende del nuovo che diverrà tratto corrente della curiosità del Fontana maturo, e che lo avvicinerà stabilmente a Yves Klein, a Piero Manzoni, alle esperienze di gruppi come Gutai, Azimuth, Zero, Nul, eccetera (15). Conta, certo, la preoccupazione di Fontana di porre in massima evidenza la propria qualità di ricercatore rispetto all’immagine, allora più lumeggiata, di scultore ceramista. Ma, soprattutto, la determinazione di legalizzare per le vie brevi e perentorie del proclama i materiali, le modalità, le tecniche, sui quali egli sta esercitando la propria intuizione. Senza ansie di proselitismo, ma soprattutto per estendere e confermare un proprio ubi consistam operativo in una fase storica estremamente fervida e fluida, ma dai termini di dibattito critico sicuramente gracili e attardati.

Quanto agli enunciati, tien conto soprattutto osservare alcuni punti cruciali: la determinazione di un nuovo valore di tecnica, non più confondibile con il mestiere e le sue processualità obbligate (progetto, padronanza, materiali, sequenza operativa, compimento); la rivendicazione della afisicità possibile – meglio, straniamento fisico – dell’opera, e della sua puntualità nel tempo e nello spazio (contrapposizione tra eternità e immortalità, congeneità tra eternità e infinito); l’antiidealismo, ma non la rinuncia allo spessore spirituale, oltre che intellettuale, dell’evento artistico; l’affermazione che realtà è primariamente coscienza cosmica dell’esistenza – attraverso la fantasia, l’immaginazione, il trascorrimento del controllo razionale, anche, e insieme attraverso un rapporto fertile con la scienza e la tecnologia nuove – e che l’opera ne è, non deduttivamente ma specificamente, l’embodiment (16); il programma, infine, di un’arte come  scienza e sapienza attiva, che “galvanicamente” si informi nello spazio e nella materia dell’esperienza (17). Sconta, ovviamente, la serie dei manifesti, anche taluni aspetti per così dire climatici, in quel suo entusiasmo per nuove frontiere della tecnologia, o per l’avventura aeronautica e spaziale. Ma quel suo assumere il Barocco, e il Futurismo, a precedenti genealogici, dice comunque della volontà di Fontana di non disperdere la nozione di arte entro altre, e diverse, categorie, ma di farne semmai la categoria per eccellenza, la summa unificante ciò che in altri ambiti si nomina, e si pratica, e si pensa, diviso. Questa è la sua Gesamtkunstwerk; questo, come ribadirà Manzoni, il dire cose diverse anziché il dire diversamente le cose di sempre.

Note. 1. The last interview given by Fontana, in “Studio International”, London, novembre 1972: riportata in J. van der Marck, Lucio Fontana. From Tradition to Utopia, in Lucio Fontana, vol.1, Bruxelles, La Connaissance, 1974. 2. Una più ampia riflessione su questo punto ho svolto in Scultura a Varese dal verismo a oggi, cat. Castello di Masnago, Varese, 1994, ove sono presentate le nature di Fontana. 3. E. Persico, Lucio Fontana, Milano, Campo Grafico, 1936. 4. ibidem. 5. E. Crispolti, Traccia per l’opera di Lucio Fontana, in Lucio Fontana, cit., vol.1. 6. Cfr. su questa stagione P. Fossati, L’immagine sospesa, Torino, Einaudi, 1971; inoltre C. Belli, Racconto degli anni difficili, in Anni creativi al Milione, cat. Palazzo Novellucci, Prato, 1980; idem, Lettera sulla nascita dell’astrattismo in Italia, Milano, Scheiwiller, 1978, e E. Pontiggia, Il Milione e l’Astrattismo 1932-1938, cat. Palazzo dei Priori, Fermo, e Centro Studi Osvaldo Licini, Monte Vidon Corrado, 1988. 7. Bilanci complessivi del disegno di Fontana sono F. De Bartolomeis, Segno antidisegno di Lucio Fontana, Torino, Pozzo, 1967; E. Crispolti, Lucio Fontana, cat., Istituto Italo-latino americano, Roma, e Fondazione Cini, Venezia, 1972; F. Gualdoni, Lucio Fontana. Il disegno, cat. Galleria Civica, Modena, 1990. Per gli anni in questione, cfr. soprattutto E. Crispolti, Disegni di Fontana. Anni Trenta-Quaranta, cat. galleria Farsetti, Milano, 1989. 8. Cfr. a tal proposito D. Presotto (a cura di), Lettere di Lucio Fontana a Tullio D’Albisola (1936-1962), “Quaderni di Tullio D’Albisola”, Savona, Liguria, 1987. Un profilo sintetico di Fontana ceramista in P.G. Castagnoli – F. D’Amico – F. Gualdoni, Lucio Fontana. La scultura in ceramica, cat. Galleria comunale d’arte moderna, Bologna, 1991, ove si legge anche P.P. Pancotto, Fortuna critica della scultura in ceramica di Lucio Fontana. Cfr. inoltre F. Gualdoni, Lucio Fontana, in Scultura e ceramica in Italia nel Novecento, cat. Galleria comunale d’arte moderna, Bologna, 1989, e E.Crispolti, Fontana ceramista, in Albisola, gli artisti e la ceramica, Savona 1990. Assai utile infine il contributo recentissimo di P. Campiglio, “Io sono uno scultore e non un ceramista”. La ceramica di Lucio Fontana nella seconda metà degli anni Trenta: uno scritto e alcune ceramiche inedite, in “Faenza”, LXXX, 1-2, 1994, che rintraccia precoci esperienze argentine in ceramica di Fontana, e fornisce indicazioni per talune controverse datazioni. 9. P.P. Pancotto, Lucio Fontana a Sèvres, relazione della ricerca effettuata nel 1992, Accademia Nazionale di San Luca, Roma  (dattiloscritto). Su quel tempo cfr. C. Belli, Parigi 1937, Roma, Cometa, 1980. 10. III Quadriennale d’Arte Nazionale. Catalogo generale, Roma, 1939, p.141: ove, per il clima dell’epoca, Paulette è indicata come Paoletta, e la Silhouette come Siluetta. Una cronologia delle esposizioni di Fontana ceramista è in E. Crispolti, Lucio Fontana. “Via crucis” 1947, cat. galleria Niccoli, Parma, 1988. 11. Sulla stagione argentina di Fontana, D. Liquois, Fontana, l’Argentine et la modernité, in Lucio Fontana, cat. Centre Georges Pompidou, Paris, 1987. Assai utile anche l’analisi di questi anni svolta da J. De Sanna, Lucio Fontana materia spazio concetto, Milano, Mursia, 1993, pubblicazione che si segnala per ricchezza documentaria. 12. L. Fontana, La mia ceramica, in “Tempo”, 21 settembre 1939, riportato in P. Campiglio, cit. Del resto scrive S. Bini, Lucio Fontana scultore, in “Il secolo XIX”, Genova, 7 gennaio 1939: “Il ceramista va posto, così, sul piano dello scultore”. 13. La vicenda è rileggibile in G. Giani, Spazialismo, Milano, Conchiglia, 1956, e ricostruita partitamente in E. Crispolti – W. Schoenenberger, Fontana e lo Spazialismo, cat. Villa Malpensata, Lugano, 1987. Oltre che nel catalogo luganese e in altre sedi, la serie dei manifesti è pubblicata tra l’altro, con altri documenti del tempo e osservazioni critiche sull’esatta cronologia interna dei testi, in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1957, ove è possibile istituire confronti e paralleli con il clima complessivo del dibattito italiano. 14. Per i rapporti con Corrente, cfr. soprattutto D. Morosini, Lucio Fontana: 20 disegni, Milano, Corrente, 1940, del quale si leggano anche gli Appunti su Fontana in “Corrente di vita giovanile”, II, 2, e II, 18, 1939. Sul Movimento Arte Concreta, cfr. L. Caramel, M.A.C. / Movimento Arte Concreta, cat. Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 1984. 15. Tale aspetto è ben indagato in M. Meneguzzo, Azimuth e Azimut. 1959: Castellani, Manzoni e…, cat. Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 1984. Notevoli taluni disagi interpretativi attualmente persistenti, segnali dell’atipicità di Fontana rispetto al comportamento avanguardistico ritenuto classico: “Non è ben chiaro il meccanismo di delega ai suoi giovani simpatizzanti da parte di Fontana”: così A. Negri – C. Pirovano, Esperienze, tendenze e proposte del dopoguerra, in La pittura in Italia. Il Novecento/2, tomo I, p.293. 16. Impiego il termine nell’accezione di B. Bosanquet, Three Lectures on Aesthetic, London, MacMillan and co., 1915. Con i debiti distinguo, si può dire che Fontana, per vie intuitive, agisca nella piena consapevolezza che la fisicità e fisiologia dell’opera ne dispiegano il potenziale qualitativo e intellettuale stesso, nell’unicità piena dell’atto estetico, né figurano come esplicitazione contingente del processo ideale e fantastico. 17. Di “processo galvanico” dice H. Focillon, Technique et sentiment, Paris, Laurens, 1919. Tien conto ricordare che, negli stessi anni delle ipotesi di Fontana, la riflessione estetica di Banfi pone la tecnica come identità stessa del farsi concreto ed essenziale dell’arte. Sul valore di tecnica cfr. D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, Parma-Lucca, Pratiche, 1978.