Strutture virtuali
Strutture virtuali, Biblioteca Civica di Saronno e Museo di Castelvecchio, Verona, 1981
Questa mostra nasce dalla necessità di verificare la fisionomia e la consistenza di quel filone di ricerca che, in scultura, nell’ultimo decennio ha optato per un superamento della minimal attraverso la realizzazione di quelle che è possibile definire “strutture virtuali”.
La pattuglia di artisti che si muovono in questo ambito è variegata, ma con una sua precisa omogeneità di fondo. Essa comprende artisti come Panting, Sandback, Hall, Magnoni, Kolíbal, Icaro, Mladejowsky, Coletta, Legnaghi. Nell’impossibilità concreta di documentare in mostra tutti gli operatori stranieri, si è optato per un restringimento ai soli operatori italiani. L’approccio critico, tuttavia, è concepito e svolto tenendo conto del complesso della situazione internazionale, nell’attesa di realizzare in futuro, con maggior disponibilità di mezzi, una panoramica complessiva di questa situazione.
Già nel 1964 Herbert Read, nella sua Concise History of Modern Sculpture , segnalava la “transizione a una scultura lineare” volta a “mascherare la sua massa e la sua ponderabilità”. Era una notazione precoce e corsiva, viziata da una pregiudiziale negativa di fondo che ne impediva l’approfondimento, ma che tuttavia coglieva parzialmente nel segno i prodromi di uno degli indirizzi centrali della ricerca contemporanea: lo spostamento da rapporti di tipo quantitativo a rapporti invece puramente qualitativi, da una leggibilità pesantemente fisico-percettiva delle forme e degli spazi a una tutta logica e mentale.
I modelli fin d’allora certo non erano pochi, ma erano tutti grosso modo inseribili in un contesto di matrice costruttivista e concretista: da Hans Uhlmann a Kenneth Martin a Max Bill e molti altri. Erano esempi ancora saldamente inquadrati in una griglia metodologica e concettuale di tipo tradizionale, e si proponevano più come sviluppo estremo di una plastica basata su rapporti spaziali e strutturali verificabili (svolti nella polarità interno-esterno, con una misurabilità oggettiva) che non come una trasgressione radicale di quella che Carola Giedion-Welcher aveva ben sintetizzato, nel 1961, come “an Evolution in Volume and Space”. Con alcune aperture significative, peraltro, a cominciare dall’abbandono dell’ideologia artigianale dei materiali e dal coinvolgimento attivo, propositivo dell’ambiente.

Sandback, Untitled, installazione alla galleria Lambert, Milano, 1970
D’altronde, è proprio sul volgere della metà degli anni Sessanta che in qualche modo questo tipo di approccio viene ad assumere connotati estremi, a risolversi in proposizioni ultimative, chiudendosi definitivamente ogni possibilità di ulteriore sviluppo.
Con “Primary Structures”, nel ‘66, la minimal art indica la riduzione tautologica della scultura alle sue unità elementari, a standard costruttivi di assoluta oggettività. Abolita ogni componente espressiva in senso tradizionale (dalla soggettività alla referenzialità), azzerata ogni possibilità di articolazione e relazione strutturale nell’agglomerazione banale di elementi neutri, eliminata la polarità dialettica e attiva tra opera e ambiente, la minimal instaura nella scultura la logica di un “assoluto quantitativo” del tutto privo di valenze. Che, nelle sue enfatizzazioni scalari, rende omogenei lo spazio e la struttura come un tutto uniforme, esplicitando quella che LeWitt definisce “intenzione non-emotiva” e costringendo lo spettatore a un punto di vista non-significativo: non, dunque, secondo un percorso percettivorappresentativo, ma di attivazione mentale, di “idea della forma”.
Ora, se si assumono a unità di misura della minimal e dei suoi dintorni i lavori di Donald Judd, Carl Andre e Robert Grosvenor – e anche, con i dovuti distinguo, quelli di Richard Serra, e certe cose di Richard Nonas, Jene Highstein eccetera – indubbiamente tale approccio conserva una sua opaca coerenza fino in fondo. La fisicità del materiale à ridotta a pura presenza, l’ambiente è incorporato spingendo alla ridondanza i suoi connotati propri.

Magnoni, Senza titolo, 1968
Ma se invece (pur escludendo la variante minimal inglese in cui l’organizzazione seriale e l’aberrazione dimensionale diventano strumenti per un’eccitazione retorica e quasi barocca dello spazio) si osservano con attenzione certi esiti di Robert Morris – come l’installazione romana da Ferranti, nel ‘75 – oppure certe realizzazioni di atipici ed eclettici post-minimalisti come Suzanne Harris e Bob Irwin, si avverte subito, sotterranea, una nuova apertura di discorso. Essa non riguarda nessuna delle coordinate più cospicue della scultura dopo la minimal (dal soffice funk all’anti-form, dall’ambientalismo naturale a quello di marca concettuale), ma piuttosto la possibilità di generare una qualità spaziale in scultura, di suscitare percorsi totalmente mentali in una prospettiva non univoca. E’ evidente che non si tratta di nient’altro che di un’indicazione generica, che trova un limite invalicabile al suo sviluppo proprio nei presupposti teorici e concettuali dell’area minimalista.
Per prodursi, essa richiede infatti la determinazione di un sovraccarico psicologico – e non solo visivo – dello spazio, che è possibile ottenere esclusivamente attraverso una serie di manipolazioni prospettiche. Quindi, reinstaurando un sistema di relazioni (per quanto radicalmente nuovo), e ridefinendo un complesso dinamico di articolazioni strutturali e spaziali: in cui però sia predominante lo spazio interno, come campo autonomo di una riflessione visuale che vada oltre il puro approccio retinico o concettuale. Tale esigenza trova – riducendo schematicamente – due tipi di sviluppi. Il primo, tipicamente americano, procede su quella linea che potremmo definire della “struttura opaca”, per cui si punta a una qualità fisica delle soluzioni, alla misurabilità interna dell’opera, attraverso uno sconfinamento verso la tipologia architettonica dello spazio, che ne individua i punti nevralgici e ne altera la percezione. Che, dunque, si propone come devianza ma da un sistema dato, attraverso uno stimolo integrato fisico-mentale.
Il secondo, quello europeo, ha una genesi ben più sfumata e complessa, per la quale l’apporto delle riflessioni teoriche minimal (e del concettualismo di artisti come Sol LeWitt, Mel Bochner e Barry LeVa) non ha un valore centrale, determinante.
Certo, alcuni punti fermi sono ormai acquisiti. La pratica di “eventi ambientali concettualizzati” in artisti come Stephen Cox; la svalutazione ormai definitiva – comune a tutti – dell’aspetto oggettuale in nome della “dematerializzazione dell’arte” (Lippard) e nel contempo l’esigenza di individuare quel corretto supporto che comunque sostenga il pensiero, ben indicata a suo tempo da Bochner; la necessità di lavorare su uno spazio assoluto e non referenziale, non di finzione, e via discorrendo. Ma essi si innestano su un’autonoma e lunga tradizione di riflessione sullo spazio e sulla struttura plastica.
Essa si fonda su due precedenti importantissimi ma mai sufficientemente valutati in questo contesto. Da un lato, le folgoranti intuizioni di Lucio Fontana (che nasce scultore, e alla scultura lega certi suoi esiti fondamentali) sulla possibilità di eccitare l’ambiente a campo autonomo di lettura visuale. Quella che Crispolti chiama l’ “avventura spaziale, dinamica, agravitazionale” di Fontana, smaterializzata al punto da rendersi pura traccia di luce nell’ambiente, e che ingloba – anziché renderli esterni – il punto di vista e il codice di lettura, non può non essere assunta a momento di fondazione di una pratica strutturale tutta nuova. Penso ai neon per lo scalone della Triennale di Milano, del ‘51, oppure alla sala cinematografica della 31° Fiera di Milano, del ‘53, con l’impiego di una segmentazione elementare dei segni-luce, e ai molti interventi su grande scala di questo genere.
Dall’altro, è la scultura costruita e antimonumentale di Melotti, con le sue scansioni magiche, con quella nozione mistica del vuoto (e una mistica dello spazio è ben presente in seguito in più d’un artista, a cominciare da Sandback) e con il coraggio della trasparenza, della precarietà, della sottile alterazione di strutture imponderabili. Che enuncia, anche, la questione dello spazio come luogo di eventi squisitamente psichici, interiori, tracciando un solco che sarà percorso da molti. E’ poi da considerare la già indicata tradizione costruttivista, sulla quale soprattutto va a innestarsi il lievito minimal e concettuale. Essa attraversa una fase di transizione e ridefinizione piuttosto lunga e complessa, della quale possono essere considerati esempi illuminanti i trompel’oeil di Uncini, oppure le eversioni spaziali di Antico, ma anche e soprattutto le splendide frantumazioni della geometria di Giuseppe Spagnulo e la linea inglese che da Martin conduce alle analisi di William Tucker sulla gravità e la leggerezza, e sull’uso non fabrile dei materiali della scultura. A sé stanti, ma con una ricchezza di spunti non comune, devono essere considerate le operazioni sullo spazio-luce di Gianni Colombo e, per altro verso e in altri modi, quelle di Anthony McCall. Altrettanto eccentrica al filone strettamente costruttivista, ma fondamentale, à la precoce indagine di Claudio Olivieri sulle strutture costitutive dello spazio, che ne determina una lettura in pura chiave di tempi e dimensioni psicologiche, frutto di una totale introflessione in una misura interna alliopera. Figli più di Fontana che di Calder e datati significativamente al ‘66-67, questi lavori rappresentano una definizione già quasi esplicita della virtualità possibile in scultura. Non vanno poi dimenticati gli esordi di Luciano Fabro (Asta, Croce, eccetera) alla metà degli anni Sessanta. Le nozioni di pieno-vuoto, di dimensionalità, di equilibrio-struttura, di precarietà, vengono sottoposte a una lucidissima disamina e tradotte in formulazioni rarefatte e potenti, introducendo in maniera cospicua una lettura dello spazio in termini diversi dalla sua connotazione fisica. Dunque, un complesso piuttosto eterogeneo di elementi teorici ed espressivi, che trova il suo punto di condensazione e saldatura nel lavoro isolato (e purtroppo prematuramente interrotto) di John Panting.

Suzanne Harris, installazione alla galleria Ferranti, Roma, 1978
Le sue strutture-ambiente discendono per generazione diretta da quelle di Tucker, da cui riprendono la dilatazione spaziale e la deformazione illusoria delle quantità materiali e dei piani di visione. Tuttavia, esse compiono finalmente quello scarto significativo che apre alla scultura la via dell’evento virtuale.
Non c’è limite materiale, ma solo designazione di struttura; non c’è relazione interno-esterno, ma la conquista di una volumetria autonoma come proiezione psicologica; non c’è forma, ma solo una linea-limite dello spazio dell’opera: il punto di vista è qualsiasi punto dentro questo spazio. Uno spazio puramente qualitativo, dunque, totalmente artificiale, entro cui si eccita nello spettatore una percezione completamente nuova, né fisica né ideologica, qualcosa a metà strada tra l’intellettuale e l’emotivo.
E’ su questa strada che si mette, dalla fine degli anni Sessanta, un gruppo disseminato ma sostanzioso di artisti che ormai lavorano esplicitamente sulle strutture virtuali. Sono Fred Sandback, Nigel Hall, Teodosio Magnoni, Stanislav Kolíbal, Paolo Icaro, Jan Maldejowsky, Pietro Coletta, Piera Legnaghi.
I loro percorsi di ricerca sono affatto differenti e – salvo casi isolati – privi di espliciti punti di contatto. Tuttavia, ad una lettura d’oggi, con il dovuto scarto temporale, denotano più d’una tangenza e d’una affinità. Del resto, essi non possono essere considerati una pattuglia rigidamente a sé stante nella ricerca contemporanea, tali e tanti sono i fili che li legano ad altre situazioni, ad altre esperienze. Da un lato, a quella di matrice pittorica di Bernard Joubert, in cui il gioco di ambiguità e straniamento spaziale assume un peso fondamentale, pur nell’approccio rigorosamente concettuale e analitico dei suoi tracciati-segnali. Dall’altro, all’”organizzazione di spazio” di Sanejouand, legata a una matrice ambientale e di territorio, ma che, in esiti come Organisation de l’espace n. 2 del ‘68 realizzata a Parigi da Yvon Yambert, segna il preciso sconfinamento a una manipolazione illusoria dello spazio. E non si tratta che di due dei numerosi esempi possibili.
Esiste però più d’un elemento, a cominciare dalla matrice plastica comune, che permette di delinearne un complesso di tratti comuni e originali. Il caso forse più tipico è quello di Fred Sandback, la cui ricerca di una condizione precaria e illusoria dello spazio conduce al superamento dell’ambientalismo tout-court e alla ricerca di una sorta di fantasma dell’immaterialità: in lui la scultura – il cui corpo è abolito – raggiunge un massimo di trasparenza.
Analogo è l’atteggiamento di Hall, che mira ad “arrivare a fare una scultura che sia allo stesso tempo il proprio volume e lo spazio che la circonda”.
Kolíbal e Mladejowsky nascono invece da un uso “povero” dei materiali, ma in un’economia strutturale autre, fortemente intervallata, arricchita da un continuo ricorso allo sfasamento delle connotazioni spaziali proprie. Pezzi come Les miroirs di Kolíbal del ‘73, o come le installazioni di Mladejowsky allo Studio Marconi di Milano del ‘77, indicano il ricorso dichiarato a una dimensionalità tutta mentale, virtuale.
Anche in seno al gruppo italiano le matrici e gli esiti rappresentano una gamma differenziata ma con rimandi ben precisi.
Il caso più eccentrico è quello di Paolo Icaro, la cui concettualizzazione del “fare scultura” e delle conseguenti possibilità di espressione lo conduce, a partire dal ‘67-68, a un lavoro di sfaldamento delle prospettive strutturali della scultura. Opere come Black Cage del ‘67 e Cuborto del ‘68 segnano il momento di transizione verso un’analisi dall’interno di concetti come dimensione, misura, punto, struttura: ovvero, delle unità minimali di organizzazione dello spazio, di uno spazio che sia quello autonomo dell’opera. Ciò appare ben evidente nell’installazione da Annemarie Verna, a Zurigo, nel ‘72, e nella serie di opere che giunge grosso modo fino alla metà degli anni Settanta, fino ad una determinante accentuazione dei caratteri introspettivi, di vissuto, che si fa nervatura di un complesso e ricchissimo lavoro sui materiali.
Più rigorosamente centrata su un’analisi dello spazio come campo psichico e fisico di eventi virtuali è la ricerca di Teodosio Magnoni, in cui diventa fondamentale l’occultamento del punto di vista per rivelare la possibilità di una scultura dematerializzata, imponderabile, in cui lo spettatore si muova attraversando una dimensionalità nuda, completamente artificiale e straniante. Di matrice costruttiva, Magnoni giunge a queste formulazioni compiute nel ‘68, con pezzi come una struttura aperta in legno bianco Senza titolo e soprattutto con 34/68. In seguito, il suo percorso si espande a coinvolgere grandi ambienti chiusi (esemplari le installazioni per “Plan & Space” a Gand, nel ‘77, e per il Karl Ernst Osthaus Museum di Hagen, dello stesso anno) e, più recentemente, addirittura su scala urbana: a Volterra, nel ‘73, e alla Biennale di Venezia, nel ‘78.
Più giovani, anche biograficamente, sono gli esiti di Pietro Coletta e Piera Legnaghi.
Coletta assume a priori lo spazio come estensione virtuale, e vi costruisce attraverso una complessa manipolazione prospettica in un continuum tra struttura definita materialmente e indicata illusoriamente. Dai lavori iniziali (dei primi anni Settanta), in cui i materiali giocavano come presenza, come polarità di uno scorrimento dal fisico al mentale – come, per esempio, le installazioni all’Unimedia di Genova del ‘73 – Coletta ha operato per via di progressiva riduzione strutturale (con l’uso di tondini metallici, vetri, eccetera) e di dilatazione spaziale, giungendo a un’ipotesi di non-realtà misurabile psicologicamente, in una tensione estremamente rarefatta.
Anche Legnaghi istituisce una divaricazione psicologica tra la qualità fisica della struttura e l’immaterialità straniante del dato illusorio (il colore, il neon), il una “fiction volumetrica e prospettica” (Mussa) la cui provvisorietà stravolge le dimensioni del contenitore per instaurarne una nuova, ambigua, dinamicamente deviante. Le sue operazioni si svolgono sia in ambiente neutro, sia in dimensione naturale e architettonica (Museo di Castelvecchio, ‘77; parco di Riolo Terme, ‘77), senza scarti metodologici e concettuali: ciò lo porta, tuttavia, a sentire la dimensionalità architettonica in modo del tutto tipico. Dunque trasparenza, ambiguità, precarietà, riduzione della struttura a fantasma immateriale, superamento dell’ambientalismo nell’abolizione della polarità interno-esterno, referenza puramente mentale dello spazio, continua variabilità del punto visivo, che è comunque interno all’opera. Elementi, tutti, che concorrono a definire il filone di uscita dalla minimal certamente più ricco e più complesso tra i numerosi intrapresi dalla scultura.
Un filone che ha già una sua storia cospicua, e una vitalità tuttora integra.