Corot. Visioni e souvenirs,  in “FMR”, 8, 2005

Quante volte Georges Braque ha guardato la riproduzione della Gitane à la mandoline, il ritratto di Christine Nilsson, e quante volte ha ragionato di quel “La couleur, pour moi, vient après” con cui Jean-Baptiste Camille Corot pareva contraddire lo spirito stesso del naturalismo così come gazzette e arbitri del gusto andavano definendo.

Corot, Il Colosseo visto dagli archi di Costantino, 1825

Corot, Il Colosseo visto dagli archi di Costantino, 1825

Eppure senza Corot molto, del cubismo, non sarebbe. Non lo scrutinio feroce della sostanza dello sguardo, non l’acribia esatta della luce, non il lavorio lungo e tutto mentale di ricostituzione del motivo entro le griglie di un comporre mille volte smontato e rimontato sino a farne congegno perfetto dell’immagine. E poi, appunto, il colore vien dopo. Dopo che la visione, la ragione del guardare, si è fatta ricordo. E viene come delucidazione delle scansioni minime della luce intorno al ton moyen, analizzato anch’esso, sfibrato sino a esorcizzarne il sensibilismo, sostanza che non accoglie le suggestioni dell’occhio ma riverbera l’accento primario (vuole, qualcuno, l’atmosfera) ch’è pura luce. E poi, ancora, la pittura è ars longa, ricercare talora monacale, indifferente alla cronaca, in sospetto alla storia. Corot è lì, ombra nello studio non solo di Braque, presenza eccitante così come ingombrante è quella di Cézanne. A dire che non solo Poussin va rifatto sur nature, ma anche Lorrain, a qualche titolo: perché ripensare il classico si deve.

E’ un passaggio cruciale non meno che silenzioso, dunque assai facilmente equivocabile, quello di Corot nella sin troppo fervida metà dell’Ottocento francese. Ben più clangorosa e militante è l’azione di Courbet, e già lo scandalo di Manet sposta, all’apparenza, i termini della polemica giusto al momento in cui l’appartata maturità di Corot offre i frutti più succosi.

Eppure le sue opere lavorano in profondità, schiudono faglie definitive di un prima e di un dopo in cui davvero può conoscersi la ragione profonda della modernità, quella che non ha bisogno della forzatura épatante, quella che può fare a meno di mandare al macero la Nike di Samotracia, quella che non deve vestirsi dell’armatura militaresca dell’avanguardia per dirsi d’esistere.

Felice d’una vita antiletteraria e all’opposto che di bohème, Corot viaggia e dipinge, dipinge e viaggia. Ed è a Roma, da subito, 1825. Il suo armamentario tecnico e culturale è di chiarita tradizione. Corot nasce dallo schizzo disegnato a captare scheletro e nervatura della visione, e dal bozzetto sul motivo con l’olio colpeggiato alla prima, come a tendere linee di forza e ad aggrumare gangli sostanziosi. Il disegno, soprattutto, ha valore di notazione prima ma, per essenza, già decisiva: il nostro sembra già ragionare dell’esigenza di un pencil of nature, per rubare il titolo a Fox Talbot e alla sua “Art of Photogenic drawing, or the process by which natural objects may be made to delineate themselves without the aid of the artist’s pencil”: sembra ragionare di fotografia, sperandola, insomma, ma inevitabilmente di una fotografia pensata sub specie picturae.

La sua figura, e più il suo paesaggio, sono tuttavia quelli del comporre classico, vogliono il tempo lungo dell’atelier, vogliono spaziosità architettate, e quinte, e commisurati punti di distanza. Roma è non tanto il mito della pittura italiana, quanto il mito in se stessa del classico, rifiltrato magari attraverso i repertori – quanto studiati e compresi – delle Imagines Urbis Romae, dello Speculum Romanae Magnificentiae. Topografia e rovina, natura intatta e aneddotica minima, ma soprattutto una retorica della veduta della quale Corot sa, da subito, di dover penetrare il paradigma sino a rivolgerlo in snudata verità sensibile: visione, non più veduta.

Corot lavora sul modello classico non sentendo il peso del retaggio normativo, ma avendo ben chiare le ragioni che quel modello hanno, nella storia, distillato. Lavora sulla topografia, sulla struttura elementare dei volumi. Lavora, da subito, sulla facoltà della luce di stabilire masse ed equilibri, flagranze e vacanze visive, di determinare d’ora in ora e di stagione in stagione uno spettro teoricamente illimite di evidenze. Da qui, decenni dopo, muoverà la scoperta impressionista della sensazione: ma per Corot ciò è, a queste date,  questione di volgere l’armamentario artificioso della tradizione grande – italiana, e non meno fiamminga, nel crocevia romano: più tardi, negli anni francesi, saranno piuttosto Van Ruysdael e Hobbema, e il vicino Constable – dalla messa in scena di un codice ormai ridotto a litania al ritrovamento del punto altissimo in cui la pittura si faccia rappresentazione di qualità sensibili rinunciando alle clausole dell’esotico, del pittoresco, del decorativo, del genere infine, e si ritrovi sguardo non stupefatto sulle cose.

Corot, Marietta, particolare

Corot, Mariette, 1843, particolare

Un nudo, paradossalmente, più che i paesaggi, forse inevitabilmente frutto di una delle stagioni romane, fa da manifesto a tale atteggiamento, che Corot si astiene – né altrimenti per lui potrebbe essere – dal rendere statuto di poetica. E’ la Mariette del 1843. E’ un’odalisca, programmaticamente concepita sul modello ingresiano, dunque proprio sul crinale pericoloso di un soggetto che la moda va già rendendo genere mediocre, e per troppi versi pruriginoso. Ma è anche un ripensamento della Venere allo specchio di Velázquez (per curioso ricorso storico, sia essa Flaminia o l’amante misteriosa, un’altra modella in luce d’Italia), e attraverso questa di Tiziano. Giusto vent’anni prima di Manet e dell’Olympia, eccoci dunque a una strategia della pittura attraverso una strategia del corpo, dell’idea di corpo e di nudo. Ma questa è Mariette, è se stessa, còlta in una posa che è scena quotidiana d’atelier, mentre ti guarda con erotismo complice e domestico, in una sorta di ‘basso’ tematico in sé definitivamente deretorizzato. Ed è l’opposto delle carni sontuose, della concussione sensuale tizianesca, sulla quale Manet costruirà il proprio discorso anticlassico.

Corot, del classico, tutto ritiene in animo. Lavora sui contorni, ora marcandoli d’ombre che nel colpeggio veloce e fluido sulla carta si aggrumano imperfette, ora lasciandoli trascolorare nel cangiare sottile della luce; lavora sui piani e sull’eccezione d’un modellato che, nascendo dalla statuaria marmorea, si fa brivido lieve di pelle, aroma prima ancora che forma delucidata. Lavora, soprattutto, sulla luce rappresa nel colore, cui l’intonazione temperata del grigio consente di rialzarsi dal bruno all’ocra, e dall’ocra a un rosa in dominante: un rosa che è sensualità en souplesse, clima d’animo attraverso l’estenuazione sottile del meriggio romano.

Così, con pari disposizione, complice e lucido, Corot declina il suo Grand tour, Roma Napoli Firenze, così s’inoltra nella campagna romana e nella foresta francese. Assume, del motivo paesistico, gli identificativi elementari, ritenendo in lunga elaborazione mentale il tònos luminoso. Il resto è metodica, concentrata, elaborante ricostituzione in studio. Negli anni sempre meno incombono Poussin e Lorrain, sempre più l’esattezza del comporre, i bilanciamenti, i contrappesi chiaroscurali, nascono da una sorta di chiarificazione esatta del visivo, resa in una trama fitta di pennellate che intessono variazioni infinitesime di luci, il cui spettro si ritrova, infine, in clima essenziale della visione.

Certo i Salons e la committenza lo inducono a distaccarsi con fatica dal paesaggio di costruzione, dalla cautelata citazione bucolica, soprattutto da una ritrattistica che, nello scalarsi perfetto dei bruni e, più, dei grigi, sa di una storia che va da Leonardo e Raffaello a Ingres, rendendosi dunque – per quanto genialmente – rassicurante.

Per paradosso, è con la stagione ultima, in quel ventennio in cui Courbet e Manet lo consegnano nelle cronache al ruolo di un maestro superato,  che Corot libera il proprio naturalismo (e lo si usi, infine, il termine controverso) addirittura dalla necessità della visione diretta. Il paesaggio si fa, ora, souvenir. Dunque, un veduto che si fa esplicitamente e definitivamente memoria, qualità e frequenza del vissuto (vorrà, negli anni Cinquanta del Novecento, erigere Corot ad antesignano del naturalismo “di partecipazione” la genia dei Sutherland e dei Morlotti, dei Longhi e dei Testori) spingendo l’artista alla scommessa di coniugare l’aspettativa della descrizione con la sostanza di un’attitudine in tutto poetica.

Le antiche sapienze compositive sono tutte lì: le simmetrie precise, la resa spaziale edificata sullo scarto tra ombre e luci che conoscono ora il sovratono, il gioco dei riflessi nelle situazioni d’acqua, le quinte e le portanti verticali, il tendersi sottile e trepido delle diagonali… ma ormai l’atmosfera esercita la propria incontrastata primazia, è una sorta di persistente dilucolo  argentino, una sottile bruma diffusa: “flutti di luce argentata”, ne scrive Téophile Gautier.

“Interpreto con il cuore tanto quanto con l’occhio”, afferma Corot, a indicare come l’aderenza al motivo non si basi sulle linee costitutive dell’immagine, quanto su un più complessivo clima affettivo e intellettuale. E il cuore diviene vieppiù sospettoso delle ampiezze di spettro cromatico sulle quali la generazione nuova, i Sisley e i Pissarro e i Monet, va fondando la propria stagione visibilista. Il miglior Corot ultimo, quello libero dalle incombenze mercantili, quello che preserva un margine di autonomia rispetto al proprio stesso successo e alla produzione servile, lavora pressoché su un’unica dominante coloristica, della quale intride le movenze tonali agendo sulle temperature e le trasparenze, sino a ottenere un trasognamento vaporoso, del tutto aereo e diafano, della visione.

E’, questo Corot ultimo, in fondo un bersaglio polemico diretto degli impressionisti, tra nuova scienza dell’aria e crepitii cromatici che la retina offre. Ma proprio per questa sua sorgiva fedeltà a un’idea classica dell’immagine, che si vuole ricostituzione pensata e pensabile del visivo attraverso la forma fondamentale, e per questo suo montante sospetto verso il meretricio facile del colore, che egli si erge a fondatore del Novecento dei costruttori, quelli che, come voleva Stravinskij, la tradizione non la rispettano, perché la amano.