Pittura di valori, in Registrazione di frequenze, catalogo, Galleria d’arte moderna, Bologna, 20 marzo 1982 (seconda parte)

La nozione di spazio, pure intesa come estensione in senso virtuale delle condizioni di misurabilità fisica, è alla base anche del lavoro di Nigro, nato negli anni Quaranta in se­no al Movimento Arte Concreta, di cui è stato forse il più lucido esponente. In lui, tuttavia, come in Dorazio, è centrale l’idea di una strutturazione condotta secondo modelli logici precisi, in cui anche le valenze espressive del colore (un colore netto, mai vibrante e a volte di secca evidenza, procedente per associazioni semplici: verde-giallo, blu-­rosso, ecc.) si subordinano alla costruzione rigorosa dell’immagine (6). In Spazio totale: struttura visiva 2b la postulazione di un modello strutturale dinamico – e sa­rebbe interessante approfondire quante connessioni abbia con quello futurista – mira a trasgredire la bidimensiona­lità della superficie e a produrre valori spaziali attraverso livelli integrati di rapporti: di piani, di superfici colorate, di tensioni lineari, e via discorrendo. L’uso del colore, in tal senso, è dunque per Nigro assolutamente funzionale: anche se innegabili vibrazioni segrete, umori fanno capoli­no tra le maglie severe del costrutto e assumono un ruolo centrale in lavori recenti come L’orma dell’Etrusco (1980), in cui la frattura tesa dello spazio – uno spazio espanso, totalmente mentalizzato – si veste di un colore avaro, aci­dulo, ma steso con la forza di un’urgenza mal rattenuta: e verrebbe voglia di scrivere, con una sorta di angoscia in­troversa e inquietante.

Nigro, Dallo Spazio, totale, 1954

Nigro, Dallo Spazio totale, 1954

Per Matino invece la grammatica strutturale e strutturata dell’immagine sarebbe già una forma di ridondanza ri­spetto alla questione centrale, che consiste nella produzio­ne della visione attraverso i suoi elementi primari, nella ri­cerca di un’evidenza concentrata nei suoi dati effettiva­mente sostanziali (7). Bhavati (1981) e Diagonale (1982) sono superfici marcatamente verticali, indicanti una direzione prioritaria di lettura, qualificata da bande contigue di colore. Il limite tra banda e banda è indicato come differenziale minimo di percezione piuttosto che come nervatura costruttiva, e si affida solo alle variazioni luminose pro­dotte dal colore. Il colore, d’altronde, è spinto al grado estremo di immaterialità, a un punto di trasparenza vi­brante che pare addirittura negarne il valore di sostanza visiva in favore di quello di pura apparenza attraverso la luce. È ben chiaro che, in questo processo di determinazione del visibile per rarefazione estrema, Matino non tra­scura poggiature di tipo analitico, e insieme pensa lo spa­zio come distanza, come soglia tra la percezione fisica e la dimensione mentale del guardare: tuttavia è assente, in queste opere, ogni sospetto di controllo a freddo del processo esecutivo, perché l’esercizio razionale non è che l’ab­brivo di un percorso che si nutre di luminose intuizioni poetiche, di saporose sospensioni emotive.

Anche nel lavoro di Griffa sono ben presenti implicazioni scrutinanti che riguardano la pratica della pittura e la na­tura dei suoi strumenti. La relazione (a un tempo empirica e riflessiva) supporto-colore-segno è la portante, in lui, così come il ripercorrimento e l’eccitazione della memoria storica e culturale di cui essa si è alimentata (8). Se la superficie è il luogo proprio della visione in quanto campo deter­minato di rapporti significativi, e il senso si produce attra­verso la messa in relazione (intellettuale e psichica) da par­te dello spettatore dei segnali che vi insistono, allora il di­pinto si configura come unità conoscitiva pienamente compiuta – ma allo stesso tempo come frammento di una totalità possibile, come spazio indeterminato – caratterizzata dai valori stessi, continuamente rinnovantisi, che fa scaturire. Muovendosi “su quel filo estremo della cono­scenza in cui le relazioni non sono ancora rappresentario­ni” (9), Griffa ha chiamato in gioco di volta in volta tutti gli spessori che concorrono alla pratica complessa della pittu­ra, facendo dei loro connotati i momenti primi della rela­zione: i rapporti costanti-varianti, l’iterazione non mecca­nica del gesto, la regolarità spaziale, la qualità del colore-­segno in Policromo, del 1975; la valenza decorativa, il se­dimento storico-pittorico dei tracciati, la possibilità addi­rittura di un feedback evocativo in Olio su tela, del 1981, eccetera.

Gastini, Il peso della pelle, 1981

Gastini, Il peso della pelle, 1981

Assai differenti sono la sostanza e le modalità cui si affida la ricerca di Gastini, più volte artatamente associata a quella di Griffa, Olivieri e altri. In lui il segno e il colore sono i veicoli di una serie complessa di pulsazioni energeti­che, di scariche di tensione fisica e mentale sulle quali il controllo razionale si esercita non nel senso di un ordina­mento logico, ma della concentrazione per via di intensità (10). In 6 lastre, del 1971, la superficie si dichiara esplicitamente come pellicola trasparente, come pura estensione determinata dai segni che vi insistono: la cui virtualità, tuttavia, implica anche una dimensione tattile di lettura, una trasparenza di materialità che rimanda all’idea di materia-energia di marca informale. La lettura, così, si effonde per trame multiple di senso, che nel recente Irradiante grezzo (1981) si impongono – nel dialogare serrato e aggressivo tra stesure perlacee, grafie brusche e fluenti e filamenti metallici – con gli andamenti fratti del­la concentrazione e della disseminazione, della densità e della fluidità, della rarefazione e dell’accumulazione. La tensione dell’immagine fa scattare quella psicologica della lettura, senza ricorrere alla componente immediatamente emotiva del colore e sollecitando invece le pulsioni più profonde e risonanti.

Una radice informale è presente anche nel lavoro di Olivieri, ma la sua maturazione è avvenuta nel senso di un se­vero controllo del processo pittorico, mirante alla soluzione in valore assoluto di tutti i dati formali attraverso il co­lore (11). Il colore come sostanza stessa della visione e della pittura, ora animato da forti pulsazioni emotive (come in Campo rosso, 1972) ora svolto nella suntuosa dosatura delle trasparenze e delle opacità (in Aniene, 1981), in una sorta di saturazione visiva che nasce dal fatto che le stesure hanno in se stesse la propria condizione di spazio, e pongono alla lettura una distanza che è condizione prima di conoscenza. “Davanti alla superficie della pittura provia­mo la memoria del permanere. Abbiamo già visto, mentre vediamo, ciò che vedremo. Questo tempo dell’assimilazione visiva è la dimensione stessa del colore, unica materia che possa operare il traslato tra spazio e tempo. Ciò che accade nella pittura è tutto qui, senza referenze proprio perché ambito di tutte le relazioni, senza attributi essendo memoria dell’interrogare” (12). È un procedere, quello di Olivieri, in cui le condizioni del vedere e del guardare vengono sottoposte a un grado estre­mo di vaglio problematico, proprio perché non fuoriesce mai dell’ambito di una pratica ostentatamente rivolta all’intuizione poetica, sovrana, a un farsi che non è messa in forma ma genesi di puri valori.

Come si può ben vedere da queste brevi (e, ahimè, schematiche) tracce di lettura, in ognuno di questi artisti e in ognuna di queste opere si generano e si intersecano valori espressivi troppo fortemente connotati per poter essere ri­dotti a un banale campionario di declinazioni teoriche o di mestiere, oppure per essere sottoposti a un meccanico gio­co di associazioni e differenziazioni. La loro ragione d’es­sere è su un altro piano di complessità, e richiede modalità di approccio ogni volta disponibili a mettere in gioco ogni provvisoria certezza acquisita: salvo quella che, in ultima analisi, ciò che nell’arte – in tutta l’arte degna di questo nome – importa veramente è riconoscere la sostanza di questi valori, e non la griglia dei predicati e degli attributi contingenti che spesso li occulta: o che addirittura, in troppi altri casi, maschera la loro assenza.

Note. 6) Cfr. M. Nigro, Il mio contenuto, in “Annuario del M.A.C.”, Milano 1958; P. Fossati – C. Lonzi, Mario Nigro, Milano (Schei­willer) 1968 (con bibl.); P. Fossati – M. Nigro, Mario Nigro, Mi­lano (Electa) 1979 (con bibl.). 7) Cfr. A. Tagliaferri, Matino, Milano (Milione) 1975; D. Val­lier, Matino, Milano (Scheiwiller) 1978 (con bibl.). 8) Cfr. G. Griffa, Non c’è rosa senza spine, Torino (Martano) 1975; G. Griffa, Giorgio Griffa, cat. Martano, Torino, 28 gennaio – 28 febbraio 1980 (con bibl.); G. Griffa, Drugstore Parnassus, Torino-Aachen (Martano – Ottenhausen Verlag) 1981. 9) G. Griffa, Giorgio Griffa, cit., n. 3. 10) Cfr. P. Fossati, Marco Gastini, Torino (Stein) 1976 (con bibl.); T. Trini, Marco Gastini, Come un respiro che preme nei polmoni, Torino (Martano) 1981 (con bibl.); P. G. Castagnoli, Marco Gastini, cat. Appel und Fertsch, Frankfurt/Main, 9 maggio – 13 giugno 1981. 11) Cfr. C. Olivieri, Olivieri, cat. Salone Annunciata, Milano, 15 gennaio – 4 febbraio 1966; C. Olivieri, Il predicato cieco, in “Gizeh”, n. 1, New York, autunno 1980, pp. 106-117; C. Oli­vieri, Sette dipinti, Brescia (Banco – Massimo Minini) 1981. 12) C. Olivieri, Il predicato cieco, cit., p. 110.