Pittura di valori (prima parte)
Pittura di valori, in Registrazione di frequenze, catalogo, Galleria d’arte moderna, Bologna, 20 marzo 1982 (prima parte)
“À la difference de la sculpture qui occupe l’espace en tant que forme tangible, la peinture l’occupe en tant que couleur. C’est dans la structure de la couleur et non pas dans celle de la forme que l’on doit, par conséquent, chercher les signifiants de la peinture…”. Così recita uno dei passi salienti di un importante testo di Dora Vallier dedicato a Malevitch et le modèle linguistique en peinture (l).
Nella sua enunciazione netta e necessariamente schematica, esso apre uno spiraglio su una delle questioni più spinose ed equivoche entro cui si dibatte da anni la critica d’arte, l’elaborazione di uno strumentario realmente penetrante e a un tempo sufficientemente flessibile in grado di leggere il complesso di fenomeni che, con inveterata abitudine catalogatoria, sono stati definiti pittura astratta oppure concreta. In che senso? Se è vero che, in seno al tragitto brulicante delle avanguardie storiche, una delle acquisizioni centrali e imprescindibili è stata proprio l’elaborazione di un’arte senza oggetti, il cui nucleo si spostasse dal piano della referenzialità a quello di un’autonoma significazione, è anche vero che le smanie storico-critiche prevalenti si sono concentrate per decenni sull’aspetto più contingente e caduco della questione, la non-oggettività, trascurando malamente quello sostanziale, risiedente nella produzione di senso a partire dai valori che fossero i valori stessi della pittura: in questo operando una clamorosa e inadempiente inversione tra causa ed effetto, in virtù di un malcelato e appena riverniciato empito contenutista.

Dorazio, Ognuno tesse le sue indulgenze, 1960
Ebbene, oggi che appare ben chiaro che non si vive di sola avanguardia, e che la storia della buona pittura corre su binari diversi da quelli indicati da “quel nuovo orario delle ferrovie artistiche italiane che molti, per poltroneria mentale, tengono per vangelo” (Longhi) (2), l’occasione è forse propizia per riprendere le trame sparse di questa riflessione, e tentare quantomeno di indicarne l’assetto problematico. Se il senso profondo e autentico dell’esperienza moderna, in arte, risiede nel superamento dell’oggettivazione di significati mutuati da altri ambiti di esperienza (intellettuale e non), nella ricerca di una espressione misurabile esclusivamente per via di intensità, con il supporto di una soggettività riconosciuta e rivendicata come presupposto ineliminabile; nell’assunzione della pratica – mentale e fabrile – come luogo in sé della totalità dell’esperienza; nella configurazione di un orizzonte linguistico così ricco e coerente a se stesso da essere in grado di far scaturire formulazioni compiute e piene, le opere, la cui sussistenza è legittimata dalla stessa norma interna che le ha prodotte e ne sorregge la configurazione, allora la pittura che più di ogni altra ha concentrato il proprio rovello intorno a questo nucleo problematico assume un’importanza di sostanziale – e non epidermica – attualità: non in quanto pittura astratta, ma in quanto pittura di valori.
Non che, con questo, si voglia ridiscutere e riclassificare la ragione d’esistenza di pratiche pittoriche diversamente orientate e pure qualitativamente cospicue, perché ciò replicherebbe specularmente la logica di chi vuole aggrumare i percorsi dell’arte in un mosaico di funzioni ora storicamente “vincenti”, ora “perdenti”, in nome di chissà quale mai legge insita nel susseguirsi delle vicende. Invece, si vuole ribadire che esiste un’area di pittura non configurata e configurabile come mero meccanismo di poetica, alla cui base sta la vocazione e la scelta esplicita di concentrarsi esclusivamente sulla necessità interna dell’opera, e che esige perciò per sua stessa natura un approccio di lettura slegato dal nominalismo degli schemi storici, a favore di un percorso ben più affilato entro i percorsi di senso che la sostanziano.
A questo proposito corrisponde la delimitazione del campo di indagine individuato in questa occasione, che riguarda alcune ricerche esemplari maturate nell’arte italiana del dopoguerra, corrispondenti alle personalità di Piero Dorazio, Alberto Garutti, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Vittorio Matino, Mario Nigro, Claudio Olivieri e Giulio Turcato. La loro compresenza non ha il compito di indicare nessi e rimandi programmatici, né di suggerire, attraverso
le scansioni generazionali, alcun tipo di genealogia. Essa nasce dall’intento di fornire una gamma problematica, per forti polarità, delle varie e ricche declinazioni possibili che una distillata ricerca di intensità espressiva produce a partire dal pensare per valori: senza equivoci epigonismi rispetto alle cronistorie dell’astratto, e soprattutto senza il cilicio di quelle omologazioni teoriche che oggigiorno appaiono indispensabili.
Pittura di valori, dunque. Ovvero, una pittura attestata sull’armamentario dei suoi strumenti fondamentali – il colore, lo spazio, la struttura, i rapporti, la possibilità di forma, eccetera – per rivendicarne la coincidenza con la compiutezza dell’espressione, una primarietà intesa come possibilità in sé di significare, al massimo punto di trasparenza, piuttosto che come riduzione ai minimi termini in senso formalistico o analitico, dei dati della visione. Il che consente un orizzonte sconfinato di possibilità proprie di maturazione, in cui l’individualità dell’artista ha la facoltà di svolgersi nella più assoluta pienezza.
Si osservino, per esempio, le opere di Dorazio e Turcato. Originate dalle medesime situazioni contingenti (Forma 1 prima, e poi Continuità), non solo presentano evoluzioni differenti ma, a ben vedere, due modalità sostanzialmente divaricate di formulazione del quadro. In Mythification del 1962 la pittura di Dorazio si produce come trama fitta di stratificazioni regolari, come una tessitura in cui il colore (un colore-luce, di forte marca decorativa, di memoria certo matissiana (3)) e la struttura dialogano in un’alternanza germinante di costanti e varianti. Sul piano dello spazio, ordinato perché logicamente costruito e vibrante in quanto poggiato su una griglia non grafica, ma cromatica, ricca di sottili irregolarità e pulsazioni. Sul piano della superficie, intesa come momento chiave dell’unità compositiva, che è il punto di affioramento dei decantati rapporti ottici instaurati attraverso le stesure, fondate su una dominante non imposta a priori ma nascente dalla sensuosa interferenza tra colori complementari e fondamentali, tra caldi e freddi, tra effetti timbrici e tonali. Il colore vi è protagonista non perché quantità percettiva, ma in quanto qualità, produzione di puri eventi di pittura, instaurazione di valori tutti interni ai suoi meccanismi di organizzazione: in cui si configura come elemento proprio e sostanziale anche la fattura, la disposizione e l’andamento variato delle pennellate, che acquista un ruolo addirittura preminente nelle opere recenti, come Cycladic IV (1980), il cui fondo fa scattare con potente evidenza proprio le fini modulazioni delle bande policrome.

Turcato, Superficie lunare, 1973, particolare
In Turcato, invece, che pure assume il colore a fondamento espressivo e Matisse a riferimento obbligato, l’immagine non si produce per presenza, come frutto del guardare, ma facendo entrare in gioco una catena di pulsazioni eminentemente psichiche (4). In La bava, del 1959, così come in Superficie lunare, del 1973, la tensione superficiale è trasgredita dalla ricchezza indeterminata delle sollecitazioni visive (ottenuta ricorrendo anche a materiali inusuali, impiegati però in senso pittorico: la sabbia, le polveri fluorescenti, la gommapiuma) e configura una sorta di schermo che assorbe la lettura negandole punti di riferimento stabili e consolidati. Lo spazio è una cavità espansa, impadroneggiabile attraverso i sensi, e si qualifica come possibilità infinita di percorsi emotivi, ora ai limiti dell’evocazione, ora in una rarefazione stupefatta e meditativa. Il colore si stende magro, a gesti irregolari, con sottili brividi tonali e addensamenti improvvisi, seguendo i moti di una fluenza divagante e candidamente erotica. Non c’è dunque una struttura o una logica genetica dell’immagine procedente secondo modi accertabili (che in Dorazio, invece, è postulata), ma il senso radiante di un’identità tra colore ed emozione che si nega per definizione ogni presupposto di metodo, affidandosi ai puri ritmi dell’improvvisazione.
È curioso ritrovare atteggiamenti e soluzioni per certi versi affini a quelle di Turcato in un artista cresciuto in seno all’ultima generazione, Garutti (5). La sua pittura scaturisce da una sorta di accordo di compensazione tra le facoltà sensuali del colore e quelle raziocinanti delle sue modalità
di aggregazione, che si estendono a determinare la fisionomia stessa (forma e struttura) delle superficie. Le forme dipinte che ne escono – brulicanti di stesure colpeggiate, con un lavorio intenso e macerato, tutte giocate sulla fastosità dei toni caldi che scatta sulla densa introversione dei freddi – si dispongono nello spazio, uno spazio fisico, ambientale, negandone le connotazioni proprie per eccitarne di nuove, che la felicità della pittura instaura attraverso le sue porzioni trepide di favola. Anche in Garutti il dato primario è un feeling espressivo puro, la distillazione di stati emotivi che si risolve in momenti dì pittura raffinatissimi ma infine colloquiali, ravvicinati, che sollecitano lo spettatore attraverso una presenza non aggressiva, e ne smuovono percorsi psichici segreti e intensi.
Note. 1) D. Vallier, Malevitch et le modèle linguistique en peinture, in “Critique”, n. 334. Paris, marzo 1975, pp. 284-296. 2) R. Longhi, Officina ferrarese (1934), Firenze (Sansoni) 1975, p. 12. 3) Cfr. M. Volpi Orlandini, Dorazio, Venezia (Alfieri) 1977 (con bibl.); F. Gualdoni, Piero Dorazio. Carte e colori. Altre riflessioni, in “Lorenzelli arte”, n. 17, Milano, dicembre 1981, pp. 2-4. 4) Cfr. L. Venturi, Giulio Turcato, in “Commentari”, n. 2, Roma 1957, pp. 5-11 (con bibl.); G. De Marchis, Turcato, Milano (Prearo) 1971; F. Gualdoni, Turcato, Ravenna (Essegi) 1982 (con bibl.). 5) Cfr. B. Radice, Alberto Garutti, in “Data”, n. 26, Milano, aprile-giugno 1977, pp. 58-59; A. Garutti, Alberto Garutti, in “Saman”, n. 18, Genova, maggio-giugno 1979; M. Meneguzzo, Alberto Garutti, in “Segno”, n. 20, Pescara, marzo-aprile 1981, p. 26.