Garutti
Alberto Garutti, in “Segno”, 51-52, Pescara, gennaio – febbraio 1986
Quando ancora, sul volgere degli ultimi anni Settanta, Alberto Garutti macerava in silenziosa tenacia immagini d’origine fotografica, procedendo per continue concentrazioni, aggrondando colori e ombre in rapporti sempre più introversi e ostici, già si poneva e poneva in modo assai lucido la questione di una lettura liminale dello spazio, al punto di deragliamento e redoublement tra la condizione fisiologica del percepire (la sequenza, la figura architettonica, la continuità/discontinuità con il muro e la sua neutralità apparente…) e l’innesco di una produzione di senso completamente altra, come una deriva sensuosa e a un tempo mentalmente distillata nella trama di minime emozioni e grandi ansie d’orizzonte, che si figurava all’interno di quelle laicamente e nevroticamente moderne “storiette”.

Garutti, Senza titolo, 1982
Erano, montalianamente, “d’alti Eldoradi / malchiuse porte”, ombre che segnavano già schiusure, attese. Soglie sì, ma di un desiderio. Da allora, certe cose sono in apparenza mutate, nel lavoro di Garutti. Eliso il diaframma di distanza, rassicurante e padroneggiabile, della matrice fotografica, egli ha affrontato la pellicolarità fantasmatica dell’immagine nel suo luogo più tipico, quello dell’esperienza totale e immediabile del dipingere. Dico dipingere, e non far pittura, per recidere fin dall’inizio ogni connessione equivoca fra il percorso di Garutti e la congerie di nuovi nominalismi in corso. Debiti contingenti con la temperie corrente, egli è renitente a contrarne: li sa asfittici, privi di necessità.
Dipingere, per lui, è concentrarsi sul senso primario del fare e dell’esprimere, dell’essere completamente e consapevolmente nei gesti che carezzano la crescita dell’immagine, innervati dalla sostanziosa soddisfazione organica di ritrovare identica la propria pienezza fisica e mentale nel corpo pittorico.
Senza l’edonismo sensibilistico, né i compiacimenti a vario titolo formalistici e iconografici, assunti ormai a paragrafi retorici del nuovo: ciò che conta è la catena continua di avvertimenti, e scelte, sempre radicali, rigorosi ma non rigoristici, che lo accompagna nel percorso raro dell’intensità, dell’egocentrismo dolce e febbrile, di una singolarità irripetibile che si sappia autentica, figlia di quell’immediatezza e “sincerità” cui una linea nevralgica del moderno, dall’espressionismo in poi, si è sentita vocata (linea non eloquente, tentata unicamente dalla poesia). Ecco allora le grandi sagome inquiete in scambio diretto con la parete, e poi le tele – al pari di carte minime, quadrucci, oggetti, trattati da affettuosi tableaux de chambre – farsi portatrici di queste stesure magre, increspate, felicemente laboriose, tutte condotte sull’onda di fluenze sottili, senza nostalgia: essere il cielo, assaporare le terre, prolungare fino all’estenuazione l’echeggiamento di un garanza antico, appena inacidito.
Si può forse discorrere d’evocazione, ma a patto d’intendere che essa, per Garutti, non è travaso biografico, ma complicità saporosa che corre attraverso i sensi della pittura, con la ritrovata sua capacità di far aggallare in ogni gesto, in ogni movenza, tutta la propria decantata memoria, e tutto il proprio poter essere. Penso ai lavori recenti esposti da Locus Solus a Genova e da Massimo Minini a Brescia. Opere in cui la componente ambientale, di implicazione con lo spazio metrico, appare ancora molto forte. Nulla sa di costruzione, di deregulation percettiva, di intervento concreto e tropico. Svolgendo i propri brani d’ombra – gli stessi che innescano il viaggio di molti quadri recenti – come puri schermi di proiezione fantastica, invece, Garutti indirizza l’assorbimento della lettura in una condizione radicalmente atopica, in cui la dismisura, da fisica, si iperdetermina simbolicamente come incoercibile pulsazione mentale.
La libidine catalogatoria che ancora alligna lo vorrebbe prosecutore, per quanto acuto, di esperienze come quelle del concettualismo meno definitorio, di certe valenze minimal, della poeticità reticente di artisti come Turrell, o Tuttle. Certo, la componente di lucidità critica, di sedimentazione attenta dei valori del fare, ha in Garutti punti di triangolazione molto precisi, tra cui quelli citati. Ma essi devono essere intesi in senso non definitorio, come materiali riflessivi facenti pariteticamente parte d’un orizzonte e di una economia espressiva in cui hanno luogo anche l’affresco antico e la tavola gotica, certo romanticismo e Rothko… in una parola, l’idea stessa di pittura nella sua lunghissima onda storica e insieme nella sua straordinaria capacità d’essere inattuale, non negoziabile. È qui che la microemotività proliferante di Garutti si riconosce, pienamente, e trova le sue stesse ragioni d’esistenza, d’autenticità.