Gino Severini. Opere su carta, catalogo, Pinacoteca Civica, Como, 28 aprile – 30 luglio 1995

Integrità, bellezza, chiarezza: questo il verbo del Severini pioniere ed interprete non secondo del rappel à l’ordre, trascorsi gli entusiasmi delle avanguardie originarie; del Severini rinascimentale di Du cubisme au classicisme; del Severini amico e adepto di Maritain, e della sua Art et scolastique. Dai tempi primi della formazione, a quelli del soggiorno parigino, come testa di ponte futurista e, più, come costruttore di visioni amico di Gris e – con vena non sotterraneamente competitiva – di Braque, cultore dell’eredità intellettuale di Seurat, Severini si staglia come una delle figure che maggiormente hanno ripensato il ruolo, e la fisionomia disciplinare, del disegno.

In questa serie di opere, i tempi sono tutti scanditi con larghezza d’esempio. Tra le opere, alcune vette qualitative. Lo studio per Souvenirs de voyage, 1910-1911, di intensità rara, la Natura morta con bottiglia, 1915, e ancora Femme assise e Le Journal du Peuple, 1918, e dire della vicenda futurista e cubista. La serie dei disegni per Montegufoni, 1920-1921, le tempere per Roche e Friburgo, 1925-1932, il memorabile Jeanne, 1927; ancora il curioso e antiquariale Sarcofago, 1940, d’incerta destinazione, ma, più, lo studio per un pannello dell’Expo del 1937, esempi perfetti del suo ordre, etico prima ancora che formale. La serie dei Ritmi e delle Danseuses, nel secondo dopoguerra, a narrare d’una età ultima ma fervida ancora, né nostalgica né acquietata.

Severini concepisce l’opera come forma formata, come determinazione ultima dell’agire intellettuale e tecnico: rinnovata, certo, dal bagno antiretorico dell’avanguardia, ma connessa per i rami più diretti al fondamento stesso della cultura occidentale, e a un Quattrocento non più mitizzato ma, finalmente, amato.

Resta, al di là d’ogni altro proclama, la volontà fondamentale di rappresentare, e rappresentando comprendere, il mondo sensibile: facendo del disegno lo strumento primo dell’approccio di una analiticità agguerrita, acuminata, che rimonta alle clausole e alle ragioni prime della forma e dello spazio: interrogandosi, insieme, su forma e spazio.

Severini, Natura morta, 1917

Severini, Natura morta, 1917

Il continuo muoversi di Severini tra solidarietà futuriste e frequentazioni cubiste, al di là degli intenti strategici di mediazione – epidermici, in un artista che ha ben chiara sin dall’inizio la propria vocazione anacronistica – a questo, in fondo, si può dire che miri: esorcizzare il culto conclamato dell’istintivo, dell’intuizionismo irrelato di una certa declinazione futurista, del trascorrimento irrazionale nell’uso del linguaggio plastico, in favore del puntiglioso esercizio dell’analisi, di una precisione stilistica non affetta da accademismi.

La clarté che chiede a se stesso, e agli altri protagonisti degli anni Dieci e dei primi Venti, è una costruttività motivata e forte, autorevole per consapevolezza non per peso di tradizione, capace davvero di dire il mondo in immagine, e di avvertirne le implicazioni metafisiche.

E’, anche, etica della pratica artistica in un’accezione aristocratica e intransigente che in quei tempi, nei quali a prevalere è comunque il versante teoricistico, quando non polemico e di schieramento, è difficile e certo non pagante rivendicare.

Che il Braque delle Canéphores, che lo stesso Gris avvinto dal gioco classico dei modelli geometrici della forma, prevalente sui residui referenziali del soggetto – penso alle Nature morte del 1918 – per non dire di momentanei compagni di via come l’illuminista e illuminato Corbusier con Ozenfant, e i neoplastici nordici, si arrestino, nell’apprezzamento dell’operare e del ricercare del Severini di quel momento, alle soglie della pratica sofisticata del linguaggio, infine dell’accezione stilistica del fare, non accogliendone l’ansia di peintre philosophe, mostra bene come il grande toscano si trovi solo, a ripensare senza remore le grandezze e le ansie d’infinito che egli assapora nel Rinascimento.

La sperimentazione inesauribile della divina proporzione, del numero d’oro, la ricerca di regole e canoni, la tensione a cogliere ed esprimere, sotto le spoglie sensibili dell’immagine, una verità plausibile in misura oltremondana, alle quali Severini affida i propri corsi nuovi, non hanno valore meramente, e in ogni senso, disciplinare – come pure gli obietta un Croce insolitamente attento all’arte coeva – e tanto meno formalisticamente modale. Severini vuole rifondare lo statuto fondamentale dell’arte, con la lucida consapevolezza che solo questo potrà fare la grandezza del moderno, dopo l’avventura propositiva dell’avanguardia: il ritrovamento e la riformulazione dei fondamenti conoscitivi, e processuali, che accomunano pittura e architettura, musica e astronomia, geometria e scultura.

E’ quell’unità conoscitiva, quella capacità, ancora, di vedere e specchiare la scintilla divina oltre le spoglie transeunti del sensibile, la vera Gesamtkunstwerk cui l’arte non solo può, ma deve tendere: questa, dunque, l’integrazione delle arti alla quale lavorare, ben oltre il tecnicismo utopico di cui tutti, in fondo, discorrono, e che solo in pochi altri autori – penso a Jawlenskij, a Kandinskij, a Mondrian – assume i connotati d’un misticismo non confessionale né manierato.

E’ notevole la scelta tematica cui Severini affida la propria ricostituzione dell’albertiano “disegno, commensuratio et colorare”. L’inamenità nitida delle sue immagini, che nascono come scandite, intarsiate dai propri fantasmi geometrici, non deve soffrire l’ingombro della captazione e della gratificazione sensibile del soggetto: esso è una sorta di pretesto mondano, che debba poter valere pariteticamente sia in senso referenziale, sia astrattamente inventivo: insieme, deve possedere il requisito della chiarezza, d’una evidenza non ambigua: e della semplicità, d’una immediata capacità d’innesco comunicativo.

Il mondo circense e quello della commedia dell’arte, ricchi d’echi e allusioni e insieme perfettamente stereotipati in cultura, ad esempio; un paesaggio asciugato ai tratti distintivi primi, come in un Quattrocento cristallizzato e popolare; le nature morte di sobrio repertorio postcubista; le rovine d’una Roma metafisicamente ridotta a emblema dell’antico (è la “Roma da Carnevale e da Opera” di cui scriverà l’amico Cocteau nel Tour du monde en 80 jours, forse pensando proprio agli scenari pittorici dell’amico, oltre che memore dei giorni di Parade) …

E’ già, a ben vedere, un repertorio emblematicamente “astratto”, con vaghi sentori d’allegoria e voglie, forse, di simbolo, come in un vasto programma decorativo pittorico o musivo – e tien conto ricordare che proprio nella decorazione Severini offre, nel tempo della maturità, i suoi esiti più alti – o come in una tarsia lignea: o, ancora, come in uno scenario teatrale.

Ebbene, alla semplicità tematica ricercata con sofisticato rigore, Severini aggiunge una trattazione pittorica veloce e senza imbarazzi di ben fare, di spettro cromatico abbreviato e ben retto dal ton moyen bruno o grigio, che trascorre dalla ricerca d’una popolarità bassa all’arguzia di montaggi à plat d’eco francese (per i quali la qualità sensibile della tempera gli è di fondamentale aiuto), da stilizzazioni prampoliniane qua e là affioranti a sprezzature derainiane – ben leggibili soprattutto nei dipinti dei primi anni Quaranta – a sapori complessivi proprio di décor teatrale.

E’, questo, un modo di leggere per le vie non esplicite dello stile le connessioni tra le ragioni del moderno cui egli riconosce mozioni qualitative e la sua propria, lucida sino al trasognamento, idea di classico: ove lo schema mentale stesso del teatro, prevalente, insinua una sorta di saporoso filtro, di messa in distanza, cui non sono estranee talune ragioni dell’ironia metafisica di de Chirico: del quale, non casualmente, egli non condivide proprio la factura tecnica laboriosa sino all’esibizione, ma ben comprende la tensione verso un’arte alta e in piena dignità. 

Resta e resterà, ancora, da chiarire un filone non secondario di lavoro, del Severini postfuturista, affiorante con regolarità nel corso degli anni. E’ una serie di nature morte, delle quali un chiaro avvio può leggersi nella Natura morta con bottiglia di vino, 1920, di Otterlo. La plasticità inseverita da ombreggiature marcate, i lucori chardiniani, imbevono l’anatomia geometrica in una pittura intensiva e cautelata, assai differente dalla prediletta, che pare voglia fingere, ancora, un corpo dell’immagine, una ragion d’essere non solo intellettuale della forma nella luce e nello spazio. Forse, queste offerte mute al demone luminoso della forma sono un momento di non banale accostamento di Severini al rimuginio affatto diverso di Morandi: ma, al pari degli amici francesi, anche il genio padano offriva all’ansia teorica di Severini uno spunto problematico ineludibile.

La ripresa, invece, di forme più dinamicamente “astratte”, i ripercorrimenti di certe modalità strutturali e cromatiche del tempo futurista sono, negli anni tardi, una sorta di rivendicazione orgogliosa del primato nella fondazione d’una vicenda di cui proprio il secondo dopoguerra sta intuendo ed esplorando le conseguenze tutte. Anche a questi Jungen, par dire Severini, occorre il rigore non il rigorismo, occorre l’ansia della qualità plastica, non quella della strategia teorica. La coscienza critica delle stagioni sue pionieristiche è ancora tutta lì, sentinella d’un’arte che competa, con amore, con la propria storia.