Pino Musi. Il libro, il corpo, il segno, catalogo, Ta Matete, Bologna, 21 settembre – 21 ottobre 2006

Canapa, Cannabis sativa, dama; juta, Corchorus capsularis, huangma; lino, Linum perenne, yama; ramiè, Bohemeria nivea, zhuma… Cai Lun, cinese, inventava la carta a Luoyan, millenovecento e uno anni fa. Così dice la tradizione. Doncho, monaco coreano, quattordici secoli fa la portava in Giappone. Ibn Muqla undici secoli fa codificava una scrittura perfettamente proporzionata e i sei stili principali, che Yâqout, Mir ‘Ali, Soltân ‘Ali Machhadi, ‘Abd al-Djabbâr, hanno reso bellezza, e visione.

Musi, da Libro, 2002

Musi, da Libro, 2002

Intanto le pergamene, l’Ilias Picta e i monaci del Book of Kells, e Konrad Forster e la textura della Bibbia delle 42 linee di Gutenberg. Poi l’altra vicenda tutta del libro, fino a noi.

E’ questo il senso della storia condensata, coagulata nelle immagini di Pino Musi. E’ la “biologie de l’acte d’écrire” di cui parla René de Solier e il corpo della pagina, il segno che, prima d’essere altro, è se stesso, e la visione. E’ sguardo e tocco, toccare con gli occhi, assaporare per dolce bibliofagia. Annusare, soprattutto se la legatura è in Sagrinato, cuoio nero “d’odor tetro e ingratissimo” ci avverte Gaetano Volpi, il quale aggiunge del piacere d’assaporare il “bel testo Greco di Sofocle in ottavo dal Colineo impresso in Parigi nel 1528, di gratissimo odore” e “le Lettere di S. Caterina da Siena in 4 di Venezia del 1562 spiranti soave fragranza”.

E’ l’anima del borgesiano “volumen, un prisma a sei facce rettangolari composto di sottili lamine di carta che devono presentare un frontespizío, un’antiporta, un’epigrafe in corsivo, una prefazione anch’essa in corsivo, nove o dieci capitoli che cominciano con la lettera capitale, un indice del contenuto, un ex libris con una clessidra a sabbia e con un motto latino, un conciso errata corrige, alcune pagine bianche, l’indicazione ben spaziata della tipografia e la data e il luogo di stampa: oggetti che, come si sa, costituiscono l’arte dello scrivere”. Che è retorica, per gli stolti, per altri poesia.

E’ il libro corpo e immagine, prima che altro. E’ una storia, un’identità, un’appartenenza. Perché, ricorda l’Edmond Jabès di Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, “viviamo di scritti e moriamo di cancellature”.

Musi, da Libro 2002

Musi, da Libro 2002

Musi, altrimenti fotografo di architetture, ma in realtà sempre del sacro, lavora entro la fisiologia del libro, della pagina, proprio per non morire di cancellature, e restituirci il segreto atavico della pagina, capace sempre, sotto ogni latitudine, di diventare il Libro.

Il libro ha grandezze e miserie, è un senso della vita, ma come la vita, ci ricorda Paul Valéry, teme il fuoco (il fuoco che brucia libri ad Alessandria e Baghdad, a Efeso e a Berlino) come l’umido, le bestie come il tempo: teme, soprattutto, il proprio contenuto. Perché è alla fine persona, l’equivalente più prossimo d’un uomo.

La bellezza e le rughe, il fulgore e il dissolvimento, la pienezza sensuale e la miseria della perdita. Tutto, del libro persona, addensa Musi in queste immagini. Esse, a loro volta, sono scritture di luce, pagine d’un altro illimite libro che egli va tracciando nella fisiologia delle sue proprie immagini, nella densità dei carboni e nella tensione asciutta su cui s’imprimono: a loro volta tattili e odorose, mentali perché fisiche.

E di nuovo, per ciclo infinito, tutto torna libro.