Gian Carozzi spaziale, in Gian Carozzi 1949-1955/1985-2000, catalogo, Palazzo Civico e Oratorio di S. Croce, Sarzana, luglio-settembre 2000, edizioni Cardelli & Fontana, Sarzana 2000

“Sarebbe un’assurdità affermare che eravamo spazialisti. Lo spazialismo appartiene a Fontana e basta. Non so spiegarlo ma credo che, sia per me che per tutti gli altri, la visione dello spazialismo fosse legata a una sorta di ammirazione e adesione per qualcuno, come Lucio, più vecchio di noi, che sconvolgeva le regole della buona pittura” (1): così Peverelli sintetizza una vicenda, una stagione, tra le più dibattute negli anni Cinquanta, e nella pittura del dopoguerra in genere.

Carozzi, Senza titolo, 1949

Carozzi, Senza titolo, 1949

Le stesse parole potrebbe sottoscrivere Gian Carozzi, che di quella temperie fu protagonista tra i maggiori: con l’accentuazione, oltretutto, dell’appartatezza, della scontrosità naturale e dell’insocievolezza culturale, che ne hanno caratterizzato il percorso biografico: “Devo dire che mi annoiavo abbastanza, e capivo ben poco o nulla di quello che si diceva. Le cose che facevo cominciarono presto a venirmi a noia e a lasciarmi molti dubbi” (2). Tuttavia è là, a quel torno d’anni breve ma fondamentale, che occorre tornare, inevitabilmente. Anche perché, se la memoria del poi appare così svalutativa, diverse dovevano essere le sensazioni, gli entusiasmi, le ansie anche, di quei giorni.

Carozzi giungeva a Milano pittore già tecnicamente maturo, tra fondamentali accademici, una giovanile passione cézanniana e una prima Damasco dell’avanguardia: vi giunge per trovarvi senza mediazioni il frisson d’una cultura internazionale che allora non suonava provincialismo, ma voglia febbrile di uscire il più in fretta possibile dalle secche strapaesane della cultura italiana.

Essere “astratti” rappresentava, allora, più che una scelta di campo, una sorta di conversione fideistica, un modo brusco, non sempre delucidato, di tagliare i ponti con la tradizione: essa tradizione incarnata, allora, prevalentemente dal gusto piccolo borghese che si compiaceva d’un ottocentismo attardato ed edulcorato: quello che transitava da un Ojetti a un Borgese, per intenderci. Essere astratti era, allo stesso tempo, molte cose e nessuna, tra MAC, Forma e geometrismi diversi, maturazioni postcubiste, e i formulari cangianti della deroga dal sensibile, i recuperi della non oggettività storica come la curiosità per il già circolante abstract surrealism statunitense. E c’era, agente forse sottotraccia nel dibattito, ma ben presente nelle intelligenze e negli ateliers, la questione del surrealismo, del quale molti dicevano – si pensi al graffire e segnare automatico del Fontana dei Quaranta, si pensi alla “irrealtà” di Licini…  –  ma del quale, a quelle date, non si aveva contezza ampia e diretta.

Ebbene, proprio una suggestione surreale, una sorta di empirico all-over dalle frequenze tra biomorfe e visionarie, in uno spazio dalle dimensionalità periclitanti, è Metamorfosi della Grotta Azzurra, presentato da Carozzi al Premio Golfo della Spezia nel 1949 (3). La voglia di tessitura bidimensionale della superficie, le colature certo debitrici del dripping, il collidere deliberato fra la trama di tracce rettilinee e il rovellarsi sinuoso dei segni generatori dell’immagine: e quel ritrarsi pudico d’un colore smagritissimo, pur di tono così pieno e sottilmente disagiato, come a esorcizzare da subito la captazione sensuale in favore d’una suggestione deliberatamente intellettuale: tutto dice, in quest’opera, che la lezione del “sondare il primordio”, che da Corrado Cagli viene a Carozzi e agli altri spezzini del gruppo dei Sette (4), è intesa dal nostro come deroga definitiva dal motivo naturale, in una sorta di eccitazione che coniuga umori di Blake con la nuova pittura internazionale conosciuta nel 1948 alla Biennale veneziana: più del Fronte nuovo italiano, la collezione Guggenheim e Klee.

Carozzi, Senza titolo, 1955

Carozzi, Senza titolo, 1955

Al fianco di quest’opera eccone altre assai affini, più esplicitamente connesse, per via di quel saturnino figurare rocce dalle genesi organiche che s’impossessano di un trasognato palcoscenico proiettato su un infinito con pianeti; altre invase da forme dai toni ancor più avvelenati, che s’espandono a saturare di sé la superficie.

La portata innovativa, l’alterità delle pitture di Carozzi subito sottratta alla divaricazione figurare/astrarre che va montando quasi esclusiva nel dibattito italiano, è viatico prezioso per porlo in contatto con la galleria del Naviglio, a quelle date l’iniziativa più impegnata sul fronte del nuovo. Al Naviglio Carozzi tiene una personale nel 1950, l’anno in cui tengono personali anche Gianni Dova, Franco Garelli, Beniamino Joppolo, oltre a Jackson Pollock per l’intercessione di Peggy Guggenheim. La stagione della galleria, è vero, è segnata dalla cospicua mostra cubista: ma è un fatto che l’irruzione di quei nomi va prefigurando una situazione possibile. L’anno successivo ecco Deluigi e Tancredi – ma anche Mirò e Kandinskij, e Klee al Milione: molto deve certo Carozzi, in questo tempo, alle biomorfie oscure di Kandinskij, dicono talune opere. In quel 1951, ecco soprattutto il manifesto spazialista sottoscritto da Ambrosini, Carozzi, Crippa, Deluigi, Dova, Fontana, Guidi, Joppolo, Milani, Morucchio, Peverelli e Vianello, in cui si dice tra l’altro dell’arte come di “forza di intuizione del creato”, quasi a chiosare le pitture di Carozzi – non solo, beninteso – di quel tempo (5).

Carozzi è ancora nella mostra Arte spaziale al Naviglio, 1952, con Crippa, Dova, Deluigi, Fontana, Joppolo, Peverelli, e tra i firmatari del Manifesto del movimento spaziale per la televisione, con Ambrosini, Burri, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Guidi, Joppolo, La Regina, Milani, Morucchio, Peverelli, Tancredi, Vianello. Da queste poche note si può evincere l’estrema variabilità di compagine che sempre caratterizza il fronte spazialista: a conferma che di un raggruppamento tattico, con forti intenti promozionali, certo si trattava, all’interno del quale Fontana offriva carisma e patronage, ma ciascuno operava in sostanziale autonomia.

Di tale autonomia Carozzi fa buon uso, guardando ora a ipotesi di formulazione di una primarietà visiva dal vago sapore antropologico, in cui il segno – un segno ora fortemente materiato, com’è nelle pitture coeve di Peverelli e di Sottsass, ad esempio: per non dire delle Spirali di Crippa – ora alle suggestioni climatiche, di più marcato accento surreale, delle parallele esperienze nucleari, segnatamente di Dova, come avviene in molti lavori del 1952.

Quanto alle poggiature prevalentemente surreali che l’orizzonte tutto degli spaziali va precisando, e che di gran momento sarà soprattutto alla metà del decennio, passaggio fondamentale è un’altra mostra di quello stesso 1952. Essa si tiene all’Associazione Amici della Francia, in quegli anni sede di mostre prestigiose, e allinea Brauner, Ernst, Duchamp, Lam, Magritte, Matta, Seligman, al fianco di Aldrovandi, Crippa, Carozzi, Donati, Dova, Fontana, Joppolo, Peverelli (6). Segno che la lettura in prevalente chiave surreale proposta da Joppolo per la personale di Carozzi nel 1950 è passata ad essere, da “caso” tra “casi” d’un fervido milieu pittorico, a frequenza complessiva di ragionamento d’arte, a prospettiva, anche, di un ubi consistam storico che riguarda la parte migliore di una generazione tutta.

Scrive, nel 1950, Joppolo: “Possiamo dire che questo pittore è un pittore surrealista ma surrealista di un surrealismo che ha saputo seguire il surrealismo nel suo logico divenire. Difatti i piani, le atmosfere, e anche gli oggetti, le forme, i movimenti si muovono in una realtà intuìta esistente ma non controllabile con occhi, tatto, orecchie” (7).

Un’opera senza tiolo del 1955 indica come nella riflessione di Carozzi il germe intellettuale surrealista operi ancor più esplicitamente, con l’assunzione di motivi iconografici e con una sintassi formale per le quali riferimenti certi sono Ernst e Lam.

Poi, “nel 1959 a Milano il padrone di casa decise d’aumentarmi l’affitto, era un uomo antipatico, pensai quindi di lasciare l’appartamento. Ma dove andare? Cambiare per cambiare perché non Parigi?” (8).  Un altro tempo ha inizio.

Note. 1. C. Peverelli, Un Milanese a Parigi, in “Bolaffi Arte”, III, 24, novembre 1972.  2. Così, nel ricordo, lo stesso Carozzi: Intervista a Gian Carozzi, a cura di Ferruccio Battolini, in Mostra antologica di Gian Carozzi, catalogo, Centro Allende, La Spezia, maggio 1984.  3. Cfr. ora M. Ratti (a cura), Premio del Golfo 1949-1965. Sedici anni di pittura e di critica in Italia. I. Le mostre di Lerici 1949-1952, catalogo, Silvana, Milano 1999.  4. Il gruppo dei Sette si presenta alla Spezia nel 1948 in una mostra organizzata dal quotidiano “La Gazzetta” con Bellani, Carozzi, Carro, Frunzo, Giovannoni, Guaschino, Porzano. La vicenda è ricostruita in Premio del Golfo…, cit.  5. Il manifesto, con gli altri, si legge ora in G. Giani, Spazialismo, Conchiglia, Milano 1956, e in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra (1945-1957), Schwarz, Milano 1957: le pubblicazioni differiscono per l’ordine cronologico dei manifesti. Cfr. inoltre T. Sauvage, Arte nucleare, Schwarz, Milano 1962; G. Anzani (a cura), Arte nucleare 1951-1957. Opere testimonianze documenti, catalogo, San Fedele, Milano 1980; AA.VV. (a cura), Fontana e lo Spazialismo, catalogo, Città di Lugano, Lugano 1987; T. Toniato (a cura), Spazialismo a Venezia, catalogo, Mazzotta, Milano 1987; F. Gualdoni – P. Campiglio (a cura), Lucio Fontana e Milano, catalogo, Electa, Milano 1996; F. Lanza Pietromarchi (a cura), La pittura spaziale e nucleare a Milano 1950-1960, catalogo, Galleria Bergamo, Bergamo 1997.  6. Su questi aspetti, F. Gualdoni (a cura), Milano 1950-1959. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo, Palazzo dei Diamanti, Ferrara 1997; F. Gualdoni – S. Mascheroni (a cura), Miracoli a Milano. Artisti, gallerie e tendenze 1955-1965, catalogo, Museo della Permanente, Milano 2000.  7. B. Joppolo, Gian Carozzi, catalogo, Galleria del Naviglio, Milano 1950.  8. Intervista a Gian Carozzi, cit.