Trovare delle forme. Un ragionamento, in Scultura italiana del dopoguerra, Strada coperta di Luchino Visconti, Castello Visconteo, Vigevano, 24 giugno – 22 ottobre 2000, Silvana, Cinisello Balsamo 2000

Non occorre risalire sino alla questione del primitivismo, dei pellegrinaggi d’inizio secolo al Musée de l’Homme (1), per cogliere il punto di frattura del canone antropomorfo nella ricerca scultorea.

Esso entra in crisi, nel dibattito internazionale, nel quadro più complesso e generale del trascolorare del modello rappresentativo, complici la fotografia e una ecolalia culturale in cui l’immagine, nonché sedimentarsi come garantita da rassicuranti ragioni eteronome, altro non diviene che la ripetizione liturgica di protocolli ormai neppur più consapevoli di se stessi.

“…la scultura! Confessa che è ben divertente e molto facile o molto difficile: molto facile quando si guarda alla natura, molto difficile quando si vuole esprimere un po’ misteriosamente in parabole, quando si vogliono trovare delle forme… Il tuo amico definisce questo con la parola: deformare. Devi avere sempre davanti a te i Persiani, i Cambogiani e un po’ l’arte egizia. Il grande errore è l’arte greca, per quanto bella essa possa essere”. Così scrive Gauguin: e i tempi son quelli.

E’ la stessa retorica monumentale, l’equivoca celebrazione “eroica” del soggetto, figlia di un canovismo malato e in genere d’un classicismo ridotto a cascame (2), a sovraesporre la mozione iconografica rispetto alla sostanza plastica, e dunque a rendere il processo formale dell’organismo una mera stilizzazione d’apparenze. Il soggetto stesso, d’altronde, a sua volta non è, bensì rappresenta, in una proiezione indefinita di doublures mentali prima ancora che visive.

La grande parade funerea dell’Orsay, curiosamente sincrona nella concezione alla mostra Qu’est-ce que la sculpture moderne? al Pompidou, 1986 (3) – stiamo dicendo di luoghi canonici d’ufficialità culturale – ci conferma della tenace persistenza di quel modello come luogo comune, proprio nel momento in cui sul fronte del dibattito contemporaneo il ragionamento sulla scultura diviene a sua volta  puro esercizio di nominazione di modi: come se un’identità disciplinare ed espressiva potesse ridursi a mero fatto tecnico, oppure a scaramuccia di confine definitorio: quella scultura, e questi eventi plastici, o come li si voglia indicare.

Ebbene, un ripercorrimento problematico dell’ultimo cinquantennio – o poco più – di scultura italiana, certo una delle grandi scuole del secolo, ci dice che l’equivoco rappresentativo, e in pari tempo e modo quello mediale, non sono valsi a elidere la centralità di una ben più consistente ricerca, quella d’una scultura che sia sostanza, identità nata da dentro, necessità: trovare delle forme, appunto, passando per quella filigrana antropomorfa che è fatto ben più fondativo, e alto, del mero schema.

Il percorso di questa mostra, procedente per exempla forti e deliberatamente non univoci, questo ci dice, dalle generazioni storiche alle recenti. Ci dice che in gioco non era e non è un come, ma un cosa fare, e perché; che, soprattutto, non era e non è questione  di accogliere lo schema antropomorfo in termini rappresentativi, bensì di ragione di forma, d’organismo, d’individuo plastico.

Valentini, Focolare, 1985

Valentini, Focolare, 1985

Il territorio problematico nostrano è interessante per qualità specifica, ma anche e soprattutto per un’altra ragione. Qui, più che altrove, la relativa estraneità alle forme estreme del dibattito d’avanguardia ha significato che l’innesto dei fattori di innovazione e di sperimentazione avvenisse su un ceppo culturale consapevole del proprio retaggio storico, il quale nei casi migliori guardava alle fonti non ai miti (Michelangelo e l’antico su tutti: fonti e, per altri, mito), e che concepiva il proprio progetto di modernità a partire da una continuità storica – che significa anche responsabilità – condivisa, e per molti versi amata. Per riassunto paradossale, all’ordre, nella scultura italiana moderna, non occorreva un rappel: era negli occhi, nelle mani: negli intelletti (4).

Marino che sa d’etrusco e di romano, Melotti che distilla l’antica commensuratio, Fontana che medita ragioni estreme amando Wildt e ammirando Pogliaghi (5), e giunge all’evento del puro nascere delle Nature: e il più maturo Martini, classe 1889, su tutti, che il ragionamento spinge a dramma estremo, a cupio dissolvi dello stile e quasi abiura della maestria.

Lunga, e ben consistente, è l’ombra di Medardo Rosso, antesignano dei nemici di chi “fa assegnazione solo sulla steccata abile e sul cincischio della materia cercando di ottenere un effetto più simpatico ma superficiale”, maestro d’una verità plastica che è “faire oublier la matière” (6). Non meno potente è il lavorio delle Forme uniche di Boccioni, ancora un tema di figura che diviene altro da sé, e che si vuol leggere tanto per la faglia concettuale che schiude nella concezione plastica, quanto, ancora, in termini di profondo intendimento storico d’un antico che mai è davvero avvertito come antagonista (7).

Costante uomo di Melotti, 1936, è simbolo della mostra per tale ragione. Non è immagine, e neppure, a ben vedere, canone alla greca. E’ misura interna d’una idea plastica che non accetta di sopravviversi, che si vuole forma vera in spazio vero. E’ intuizione che, al di là di ogni altro possibile, l’idea stessa di scultura è l’idea del métron umano che si fa organismo, per equivalenza e tutta genetica rassomiglianza. E’ intuizione che lo spazio, comunque lo si organizzi  e classifichi e dilati, è dimora di passi, e braccia aperte, e sguardo che lo saggia moltiplicando la statura in tre dimensioni.

Meno importa, all’arte italiana, lo schema del totem e dell’amuleto (Arp, cruciale nei nostri anni cinquanta, parla di bonbon-obélisque), l’antropologia del senso. Importa, più, ripartire dalla costante uomo, e dal collasso martiniano, e trovare un altro percorso dell’absolument moderne.

“Non vogliamo riprodurre, vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto e non riprodurre. Vogliamo produrre direttamente e non transitivamente”: così Arp. E ancora: “Scelsi dunque a partire da allora / delle forme più primitive / delle forme parzialmente rettilinee / che permettessero d’attirare intercettare includere dei movimenti / e delle idee che s’avvicinassero all’ / immagine umana” (8).

E’ un caso che il più diretto erede di Martini, Alberto Viani, proprio sul modello critico di Arp moduli il proprio trovare delle forme (ricambiato peraltro dall’amico con i lievi e bellissimi Petits poèmes à l’intention de Viani), così come per altri è di Moore e González e, più, di Giacometti? E’ un caso che anche gli autori che da Colla a Consagra, da Franchina a Pierluca a Somaini, guardano al ferro e a tecniche adespote, lavorino su organismi plastici che, geneticamente altri, sono pur sempre, appunto organismi che chiedono verticalità e rapporto con l’orizzonte? E quelli più direttamente implicati con il nihil humani, i Leoncillo, i Guerrini, i Negri, i Milani, i Tavernari, i Cavaliere dico, più esplicitamente abbiano elaborato un’idea di scultura come antropico forte, a costo d’esser tacciati di debolezza teorica? E che, infine, un Nanni Valentini sia morto, dopo aver dato case e omphaloi e ombre d’angelo, mentre in studio affollava fogli su fogli d’ossessiva ricerca d’una statua possibile?

Scontato il pitagorismo dei tempi, è davvero la costante uomo melottiana ad agire: agire nel profondo d’un linguaggio che non si rassegna a divenire mera tecnica materiale, e che più d’ogni altro fa dell’interrogarsi la propria stessa matter: come mostrano, anche, i frammenti di pensiero, non statements risoluti, che s’è scelto accompagnino in questo catalogo le opere degli autori.

Nagasawa, Musa, 1975

Nagasawa, Musa, 1975

Si pensi al costruire, all’idea del costruire che presiede esperienze all’apparenza eccentriche, da Uncini a Carrino a Legnaghi, e per altri versi da Mattiacci ad Habicher, ad estremi di virtualità come Magnoni e Coletta. Non il rigorismo del metodo, non l’intelligenza dell’effetto: piuttosto, il “poeticamente abita l’uomo”, la dimora heideggeriana, distillata sino a farsi umore d’idea.

Si pensi ai più giovani, generazioni frastornate dall’avvertimento del trascolorare delle ragioni d’arte in nome di più amministrabili spettacoli estetici. Li si trova, infine, a polire marmi e a manipolare avventurosamente spazi e gesso, a riscoprire la carezza confidente e complice del legno (albero e uomo, da Jacopo da Varagine in poi).

“Esiste una persona che rimarrebbe sorpresa dalla freddezza metallica toccando il Bambino malato di Medardo Rosso? La scultura non significa imitazione della natura ma creazione di un altri tipo di natura. Un albero è sempre un albero anche quando si è seccato. Una pietra è sempre una pietra anche se si è spaccata. Una scultura è sempre una scultura anche quando cadendo giù da un dirupo si rompe. Però un vaso non è più un vaso quando cadendo per terra si rompe. La scultura significa dotare un albero o una pietra di una melodia che esiste originariamente in questi materiali, dare una melodia significa dare vita alla scultura”: così Nagasawa (9).

E le misure son sempre quelle, le misure d’un palmo, le misure d’un passo, di un abbraccio.

 

Note

1. Il minuzioso lavoro di ricostruzione di W. Rubin (a cura), “Primitivism” in 20th Century Art. Affinity to the Tribal and the Modern, catalogo, 2 voll., The Museum of Modern Art, New York 1984, rimane in tal senso fondamentale. Esso riguarda tuttavia più interpretazioni di tipo stilistico e formale che l’assai più radicale modificazione nel concepire il paradigma antropomorfo.

2. Della partita è anche il fraintendimento della statuaria antica in ambito specialistico, a cominciare dalle distinzioni perigliose tra greca e romana. Non va dimenticato che ancora nel 1899 Julius Lange, in Darstellung des Menschen in der aelteren griechischen Kunst, dice della frontalità arcaica come di caratteristica delle espressioni infantili e primitive, e solo nel 1911 Emanuel Loewy, in Die griechische Plastik, abbandona il paradigma classico di perfezione, mostrandosi allo stesso tempo ben consapevole delle differenze concettuali tra verità dell’arte greca e ‘vero’ dell’arte romana. Solo nel 1923 uscirà Die Kunst der Primitiven di Herbert Kuhn, la prima in cui il valore di ‘barbarico’ non suoni più svalutativo. Il dibattito artistico del tempo s’è, dunque, dovuto ingegnare da sé.

3. Qu’est-ce que la sculpture moderne?, catalogo, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Paris 1986. Affine ambiguità si riscontra in D. Waldman (a cura), Transformations in Sculpture. Four Decades of American and European Art, catalogo, Guggenheim Museum, New York 1985.

4. Notevole l’impostazione di tali temi in Z. Birolli (a cura), Letteratura-Arte. Miti del ‘900, catalogo, Padiglione d’arte contemporanea – Idea Books, Milano 1979: soprattutto per quanto attiene alla nozione di “nonavanguardia”.

5. Fontana esprime un tale rispetto per Lodovico Pogliaghi da rincrescersi soprattutto, alla notizia che la sua quinta porta non si farà, di non potersi confrontare con il vecchio faber sulla facciata del Duomo milanese: che è storia, davvero, di magistri che si parlano attraverso le generazioni.

6. Per le citazioni, Mostra di Medardo Rosso (1858-1928), Società per le Belle Arti ed Esposizione  Permanente, Milano 1979.

7. In un saporoso articolo in “Avanti!”, primi anni Cinquanta, Guido Ballo legge le Forme uniche in parallelo alla Nike di Samotracia, non più famigerato obiettivo polemico futurista e anzi precedente riconosciuto dell’idea di dynamis in forma volume spazio.

8. Per le citazioni, J. Arp, Jours effeuillés. Poèmes, essais, souvenirs 1920-1965, Gallimard, Paris 1966.

9. Per la citazione, C. Niccolini, Nagasawa, De Luca, Roma 1997.