Arp. Dans le silence rayonnant, in Arp e l’avanguardia, catalogo, Museo della Permanente, Milano 1 aprile – 10 maggio 1998, Electa, Milano 1998

Quanto tempo, quanta vita intercorre tra la recitazione zurighese dei “poèmes sur le mode hurlé” (1) e la scelta della scultura da parte di un poeta?

Una serie intensa d’anni, in termini di cronologia. Assai meno in termini d’anima: appena un’estensione di strumenti, l’adozione di un ulteriore modo possibile.

Il percorso di Arp è così. Lunghissimo se si consideri la trama straordinaria delle esperienze, degli incontri, delle iniziative, delle opere. Perfettamente concentrato su un unico stabile punto, il silence rayonnant della poesia, dall’inizio alla fine: e moderno, modernissimo, proprio perché consapevole della sua sorgiva primarietà, del suo incontrattabile rimontare al fondamento dell’humanum.

“Sempre più mi allontanavo dall’estetica. Volevo trovare un altro ordine, un altro valore dell’uomo nella natura. Egli non doveva essere più la misura di tutte le cose, né rapportare tutto alla sua misura; al contrario tutte le cose e l’uomo dovevano essere come la natura, senza misura”. Così, anni dopo, Arp dice del suo approdo a Dada (2).

Vi giunge attraverso una formazione atipica, caratterizzata da una omogenea identità espressiva tra prove artistiche e prove poetiche. E’ un’identità che troppi – i cultori dei Kunstismen in testa, sui quali Arp e El Lissitzkij ragionano nel 1925 – s’ostinano e si ostineranno a considerare doppia, fatti forti talora del gretto argomento retorico della doppia lingua (francese e tedesco: ma parlava correntemente anche il dialetto nativo, eretto a lingua viste le traversie storiche della regione), quindi doppia anima, dell’alsaziano (3): e che invece agisce come unum sovrano, oltretutto generatore di un cosmopolitismo e di un nomadismo che fa anche del personaggio Arp una delle figure più carismatiche dei primi decenni del secolo.

Del resto, nel suo spirito si agita da subito, sin dagli esordi, una tensione alimentata da forti nutrimenti romantici, volta ad attingere il sublime nell’essenziale più che a stabilire una lingua storicamente adatta alla modernità. La reazione di Arp al clima di stagnazione retorica dei linguaggi, visivi e letterari, si produce per distillazione romantica, non per superamento moderno, in nome magari di ottimismi positivi e di ansie progressive: com’è, egli dice, anche in Wasilij Kandinskij, incontrato nel 1912, nel quale avverte una affine “nostalgia di libertà creatrice”.

La sua formazione irregolare risponde, in una rilettura di prospettiva, proprio a tale diversità fondamentale d’intonazione. Gli studi a Strasburgo, Weimar, Parigi, sono in scuole d’arte: tra gli incontri che segnano il suo destino, figurano quelli con Henri van de Velde, Oscar Lüthi, Walter Helbig, Fritz Huf. Contemporaneamente pubblica le prime poesie, dal 1902, frequentando il gruppo di autori di Der Stürmer.

Quando, nel 1911, fonda in Svizzera Der Moderne Bund con Lüthi e Helbig, l’intonazione del suo lavoro è neoimpressionista, con tentazioni espressioniste, secondo il canone prevalente nelle nuove generazioni mitteleuropee, il cui sospetto per l’accademismo corre di pari passo con quello per la “sovrastima della ragione”, in favore d’una espressività effusiva, libera nelle dismisure e nelle eccitazioni antigraziose.

Tuttavia, il biennio di solitudine trascorso a Weggis, sul lago svizzero dei Quattro Cantoni, ha lasciato nella sua vocazione il segno di una abitudine all’introversione, all’introspezione, allo scavo radicale e impietoso, inflessibile, entro le ragioni dell’anima. “Era davvero un paesaggio di rigorosa astrazione, quello che mi circondava. Avevo tutto il tempo di dedicarmi alla filosofia”. Arp ha l’occasione, rara, rarissima, di distillare una condizione affettiva, intellettuale, espressiva; una condizione poetica, in una sorta di a parte rispetto alla riflessione linguistica e tecnica. Anzi: proprio i limiti della sua crescita tecnica, in poesia come nell’arte (“nella solitudine di Weggis ho cercato con fatica i miei mezzi espressivi”), gli impediscono in questo momento di orientarsi decisamente verso una delle numerose declinazioni del nuovo, e gli insegnano per sempre che non il virtuosismo e gli armamentari del mestiere, ma la chiarezza e intensità dell’animo sono la condizione necessaria per le arti.

Gli anni fino alla guerra sono, ancora, di laboriosa formazione, e soprattutto di incontri, le tappe di un nomadismo e di una curiosità solidale per gli altri artisti che, questa mostra ben lo testimonia, durerà tutta la vita. Il cursus è quello classico: Kandinskij e Robert e Sonia Delaunay, Paul Klee e August Macke, Ernst e Amedeo Modigliani, Pablo Picasso e Auguste Herbin, Viking Eggeling e Arthur Segal, Max Jacob e Jean Cocteau, tra Monaco, Parigi, Berlino, Colonia, Ascona: ovunque qualcuno stia lavorando a distruggere “le  forme e le idee ricevute”.

Arp matura, prima ancora dell’esperienza fondamentale di Dada, la consapevolezza di dover giungere a quadri che siano “realtà in sé, senza significato, né intenzione cerebrale”. Quadri concreti, ben diversi dai collages cubisti che l’avanguardia assume a paradigma. Quadri come quelli di Sophie Taeuber, che incontra a Zurigo nel 1915 e gli sarà compagna per decenni, assai più che musa: “Già nel 1915 Sophie Taeuber divide la superficie dei suoi acquerelli in quadrati e rettangoli che giustappone in orizzontali e verticali. Li costruisce come un’opera di muratura. I colori sono luminosi, vanno dal giallo più crudo al rosso o blu profondo”.

Anche Arp si avvia sulla strada del collage, e di un lavoro cartaceo – memorabili sono le sue sequenze di inchiostri di questo tempo, dalle sagome quasi xilografiche – che rappresenterà, sino alla scelta della scultura, il suo ubi consistam prevalente.

“I miei collages erano fatti interamente di carta, e non erano né disegnati né dipinti. Non erano speculativi, ero ossessionato dall’idea di fare una cosa assoluta. Il cubismo introduceva nei suoi papiers collés il trompe – l’oeil, mentre io costruivo con delle carte le mie realtà plastiche”.

Da questo momento, cioè ancor prima che l’esperienza Dada irrompa nel percorso di Arp, alcuni dati fondativi del suo lavoro si precisano.

In primo luogo, la perfetta identità del segno scritto e del segno plastico nella misura della pagina, che rende equivalenti anche sul piano disciplinare scrittura e pittura, alla luce di quella che, con parole di Gottfried Benn, potremo dire “visibilità interiore”. Da questo punto di vista molti riferimenti confluiscono in questo suo orientamento, che appare da subito più un comportamento naturale che una scelta di poetica. L’editoria della Riforma e l’eredità che la grafica espressionista tedesca ne porta; gli esperimenti grafici a cavallo del nuovo secolo in area art nouveau, Ver sacrum in testa; l’editoria d’avanguardia, italiana e russa… d’altronde già Arp ha collaborato all’Almanach der Blaue Reiter e a Der Sturm, e sin dalle prime prove di illustrazione ha mostrato di intendere tale pratica secondo la nozione, attiva sin dal barocco, di “composizione visiva” unitaria: negli anni a venire, egli sarà forse il più assiduo e originale collaboratore alle molteplici riviste d’avanguardia che nascono e muoiono in Europa.

In secondo luogo, la pariteticità non solo tra scrittura e visione, ma anche tra pratiche artistiche differenti, indipendentemente da gerarchie intellettuali e tecniche. Un dipinto, un affresco, un arazzo, un inchiostro, una xilografia, un volantino, una scenografia sono per Arp – e per Sophie,  la quale gioca il proprio trascorrimento disciplinare con la danza – esattamente la stessa cosa: a far prodromo del dibattito largo sull’integrazione delle arti che porterà l’artista a instaurare rapporti intellettuali e d’amicizia privilegiati con figure come Kurt Schwitters, Theo van Doesburg, Hans Richter, El Lissitzky, Friedrich Vordemberge – Gildewart, Willi Baumeister, Johannes Itten, Josef Albers.

Ancora, una disposizione ad atteggiamenti desunti e mediati dalle culture orientali che, scoperti a Parigi e nutriti dagli incontri nel cangiante crogiolo culturale svizzero, accentua in Arp da un canto la disposizione meditativa, la centralità del dentro e la ricerca del centro interiore (“E’ l’arte che si distoglie dal mondo esteriore per aprirsi al silenzio, all’essere interiore, al reale”), e d’altro canto una nozione di hasard, di caso, che fa dei suoi gesti pittorici degli atti sì non intenzionati e impreventivi, ma  perché generati da una forza non padroneggiabile razionalmente, naturali in virtù della loro congeneità allo statuto fondamentale dell’essere. Soprattutto nelle chine degli anni Dieci il valore di grafia delle sue forme, e di nascita non progettata (così, raro nelle compagini di quelle avanguardie, Arp intende la composizione), che si schiude a ineffabili simbologie, rivela tale preciso e non banale penchant con le arti d’Oriente.

Viene dunque il tempo del Cabaret Voltaire, e l’ingresso ufficiale en artiste di Arp nelle vicende dell’avanguardia a fianco di Hugo Ball, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Hülsenbeck. La letteratura su questa stagione è amplissima, e il peso dell’artista in quelle cronache, in quella conflagrazione intellettuale, assai ben delineato (4). Un punto val la pena tuttavia di riprendere e sottolineare: la consapevolezza immediata, da parte dei suoi compagni di via, della atipicità di Arp rispetto alla ekpuròsis linguistica e tecnica in corso, insieme alla sua figura carismatica in quanto pioniere di un atteggiamento espressivo precedente i mezzi e i codici, e non da essi procedente.

Scrive nel suo diario, 10 marzo 1916, Hugo Ball: “Arp si leva contro l’ampollosità degli dèi della pittura (gli espressionisti). Dice che i tori di Marc sono troppo grassi, le cosmogonie e le stelle fisse pazze di Baumann e Meidner gli ricordano le stelle di Bölsck e Carus. Vorrebbe che tutte le cose fossero più ordinate e meno capricciose, meno grondanti di colore e di poesia. Preferisce la semplicità della geometria alle versioni dipinte della Creazione e dell’Apocalisse… Se lo capisco correttamente, egli s’interessa di più alla semplificazione piuttosto che alla ricchezza”. E Arp: “Cercavamo un’arte elementare che doveva, pensavamo, salvare gli uomini dalla follia furiosa di quel momento. Aspiravamo a un nuovo ordine che potesse ristabilire l’equilibrio tra il cielo e l’inferno”. Ancora: “Dada è per il senza – senso, che non è il non – senso. Dada è senza senso come la natura e la vita. Dada è per la natura e contro l’arte. Come la natura Dada vuole dare a ogni cosa il suo luogo essenziale”.

Arp, Rami, 1959

Arp, Rami, 1959

Arp spinge la propria ricerca di una essenzialità e di una naturalità artistica fondamentali sino a mettere in discussione taluni dei fondamenti stessi della pratica. La scelta di dar vita a opere anonime, fatta in questi tempi con Sophie e con altri amici (in poesia, scrive a più mani con Tzara e Walter Serner), non è figlia in lui tanto del sogno romanico di un’opera collettiva, di una comunità edificante – sogno che pure alimenta una componente non secondaria di vicende come De Stijl e Bauhaus, e del quale Arp ha già offerto sintomi nell’esperienza di Der Moderne Bund – ma della consapevolezza di dover sottrarre ogni sintomo di soggettività, in termini di intenzione pur implicita e di personalizzazione del gesto, alla nascita della forma. La sperimentazione di materiali adespoti e senza carisma storico, la rinuncia addirittura a taluni strumenti avvertibili come prolungamenti della mano (nel collage, ad esempio, l’abbandono delle forbici in favore della più neutrale taglierina), la preferenza per tecniche meno legate all’interpretazione, come l’arazzeria, il ricamo, o la tempera stesa in modo uniforme, sono altrettante conferme del radicalismo di quella scelta. L’artificio è non qualcosa di radicalmente diverso dal naturale, ma la naturalità divenuta ragione genetica del fare dell’uomo, la sua estensione a qualità di pensiero e di pronuncia del mondo, dell’essere: è un creare, non un ricreare.

C’è, in queste opere, indeterminazione e alea, secondo codici perfettamente inscrittibili nell’attitudine Dada. Ma senza la volontà dissolvente in termini di chiarezza, precisione, trasparenza, dell’opera, la quale anzi deve scaturire da questo processo in forza della pienezza della sua necessità, e della definizione incontrattabile della sua identità: che porta Arp a insistere sul concetto, tutto orientale, di “accordarsi alla legge del caso” e che vale, l’artista ne è certo, assai più dell’automitologia soggettiva del versante “scandaloso” e sperimentale, esso sì in termini più vulgati, di Dada. “Dada è senza senso come la natura. Dada è per la natura e contro l’arte. Dada è diretto come la natura. Dada è per il senso dell’infinito e dei mezzi definiti”.

Parimenti egli mette da parte i principi stessi del buon comporre, la simmetria, gli equilibri, i rapporti plastici, in favore di grafie fluenti e cieche che tendono a coagularsi in sagome organiche – organiche perché nate organicamente – le quali crescono in perfetta autonomia generativa, per metamorfiche e non gerarchiche modificazioni, secondo un formarsi a netta e ineffabile valenza simbolica, di topoi emblematici, “forme decisive”: uovo, ombelico, occhio, …, come formule d’una magica risalita alle ragioni prime del naturale. E’, questo, un mondo al limite plastico d’un formarsi che è anche interrogare e dire la formazione, alla soglia minima dell’infingimento: “Uso assai poco rosso. Mi servo di blu, giallo, un po’ di verde, ma soprattutto del nero, del bianco, del grigio. C’è in me un certo bisogno di comunicazione con l’essere umano. Il bianco e  nero, è scrittura”.

“Il grande artista dell’età della pietra sapeva dirigere le mille voci che cantavano in lui: disegnava così, lo sguardo rivolto dentro di sé. Così il disegno perde ogni opacità, così le armoniche, la pulsazione, i ritorni, la metafora della melodia interiore si fondono nel ritmo di un soffio profondo”. “L’arte è un frutto che nasce nell’uomo, come un frutto su una pianta o il bambino nel ventre della madre. Ma mentre il frutto della pianta, il frutto dell’animale, il frutto nel ventre materno assumono delle forme autonome e naturali, l’arte, frutto spirituale dell’uomo, affetta quasi sempre una somiglianza ridicola con l’aspetto di qualcos’altro”. “Con gli occhi vuoti e morti da ciechi, gli uomini palpano la terra. Si agitano in modo ridicolo su quest’onda rappresa e tenebrosa in cui peraltro sprofonderanno e scompariranno in breve tempo. Quando si sono chinati sul suolo e la sua contraffazione, l’hanno forse contemplato? Quando hanno studiato e tentato di leggere la terra e i suoi mille disegni?”

E’ evidente che ben presto, nello svolgersi tumultuoso delle cronache Dada e nelle emulsioni intellettuali che esse determinano, Arp tende a trovare ragioni di solidarietà con le personalità, magari le meno estroverse, attente più alla pars construens che allo spirito di contraddizione a ogni costo: Philippe Soupault, compagno di avventure parigine, in Vingt mille et un jours dirà di lui come di un “uomo discreto che vuole sorprendere, ma mai scandalizzare”.

La frequentazione con Schwitters, così come quella con Lissitzky e van Doesburg, è fondamentale, nei primi anni Venti. Assai più che l’intensità della sua partecipazione a esperienze collettive – la tangenza con le attività di Bauhaus, la partecipazione al Surrealismo parigino sin dagli inizi – conta la qualità di questi rapporti: che indicano un Arp poco propenso alle ortodossie e alle sudditanze metodologiche, e soprattutto spinto da una concezione della modernità non avvelenata da oltranzismi avanguardistici, da sempre esente da estremismi fideistici, attenta piuttosto a coltivare quel progetto di “nuovo ordine” enunciato sin dai tempi zurighesi.

Nella direzione del versante Bauhaus, e poi di Cercle et Carré e Abstraction-Création – in cui contano anche i profondi rapporti amicali che lo legano a figure come Michel Seuphor e Auguste Herbin – è spinto dalla coscienza concretista che Arp e Sophie hanno maturato come dato ineludibile e come fondamento, di pensiero prima ancora che operativo. Interessa loro il pensiero della forma, e lo statuto di necessità del fare artistico, perfettamente messi a fuoco nella seconda metà del decennio Dieci.

Parimenti, lo spinge verso le rive surrealiste non solo, ancora una volta, una trama di fitte solidarietà personali, da quella con Ernst a quelle con Francis Picabia e Meret Oppenheim, ma soprattutto l’amplificazione della renitenza disciplinare che l’esprit surréaliste rivendica come dato sorgivo. Poco attratto dall’anartisticità duchampiana, Arp vede in una vicenda in cui la costola letteraria e quella artistica tendono a proclamare un terreno comune d’origine e d’azione, per di più sottratto alle ipertrofie metodologiche altrove perseguite, un fertilissimo luogo buono della ricerca. Anche se, proprio per la stessa ragione, egli sin dall’inizio avverte i limiti della logica di groupage militante, e di ortodossia codificata, che mina sin dall’inizio le concezioni di Breton.

Va avvertito che, tuttavia, tale sua posizione radiante, che nutre vicende espressive diverse e da esse è nutrita, è garantita presso amici e colleghi da un carisma che permane, negli anni, intatto: vuoi per la precocità di certe sue opere, che lo fanno considerare un precursore, vuoi, soprattutto, per quell’impasto di leggerezza e profondità che innerva la sua personalità, e fa considerare normale e non problematica l’estraneità fondamentale di Arp anche da parte di chi vive di feroci polemiche di gruppo. Quando, nel 1936, il Museum of Modern Art di New York terrà il dittico di storiche mostre Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada and Surrealism, Arp figurerà in entrambe come padre nobile: e la sua influenza sull’arte americana degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta, più pragmaticamente disinteressata a distinguere tra astratto e surreale rispetto all’europea, sarà vasta e circolare.

Tra il 1925 e il 1927 si collocano i lavori murali all’Aubette di Strasburgo, nei quali Arp rinnova sia la sua riflessione sul rapporto tra autonomia dell’opera e destinazione funzionale, sia, soprattutto, l’esperienza di lavoro anonimo a più mani, in solidarietà perfetta con Sophie e con van Doesburg (“Le opere d’arte concreta non dovrebbero più essere firmate dai loro autori. Queste pitture, queste sculture – questi oggetti – dovrebbero restare anonime, nel grande atelier della natura come le nuvole, le montagne, i mari, gli animali, gli uomini”).

I rilievi in legno, i legni dipinti, i collages, le tempere, gli acquerelli di questi anni stabilizzano il valore di shape organica maturato da Arp nel tempo precedente. Naturalezza e autonomia della forma, attratta verso affettuose e ironiche suggestioni biologiche, composizione per crescita anziché per costrutto preventivo, intendimento del rilievo come emergenza dell’individuo plastico allo spazio degli oggetti (5), colore cautelato a un tono dominante mediato da grigio nero bianco. Questi sono i caratteri del lavoro di Arp nel decennio Venti, al cui scorcio si colloca, nella casa di Meudon che egli sogna casa della vita, la scelta di affrontare la partita, per molti versi decisiva, con la scultura.

Arp ha appreso le tecniche della scultura, soprattutto quella del gesso, già nei suoi anni formativi, avendo per guida Fritz Huf, mediatore nella cultura di lingua tedesca dell’opera di Rodin, Bourdelle, Maillol. Tuttavia è solo ora, e a partire dal ben diverse consapevolezze formali, che prende a saggiare la possibilità dell’emergenza della forma plastica allo spazio fisico d’esperienza.

Da un canto egli è sorretto da uno sviluppo diretto del proprio lavoro, l’assunzione di verticalità dei rilievi, che divengono sorte di sagome ritagliate dello spazio: ancora, scritture/forme, come nelle pagine candide degli inchiostri, come nell’indefinitezza con mezzi definiti del collage (6). Per altri versi, Arp è evidentemente attratto dall’idea che molti aspetti della scultura primitiva, dotata di una carica simbolica e di una sacralità naturale, siano un’estensione del formarsi per intima vocazione genetica che l’uomo leggeva nelle pietre, nei rami, negli ossi: ciò che era, per lui, un intendere la techne umana come estensione organica del naturale anziché come una forma antagonistica.

Le dèe paleolitiche (con la meraviglia della Venere di Laussel scaturente dalla pietra grezza…), le placche ossee e i ciottoli incisi e figurati, gli idoletti fittili neolitici, la scultura cicladica (Seduto, 1937, sottotitola In ricordo dell’arte cicladica), sono altrettanti esempi che si possono indicare come inneschi primi dell’invenzione plastica di Arp, in una declinazione del primitivismo affatto differente da quella vulgata come prevalente nell’avanguardia parigina e tedesca del tempo (7), con affinità semmai con le contaminazioni coltissime e divaganti di un Giacometti.

La questione della referenzialità è ridotta a risonanze formali meravigliate – il debito maggiore che Arp contrae con il Surrealismo di marca iconografica – tra queste crescenze plastiche e teste, conchiglie, frutti (8), ed è incrociata da subito con gli standard della scultura antropomorfa storica (solo in tal senso si possono leggere opere fondamentali come il Torso, 1931, e il Torso preadamico, 1938, per non dire dell’esplicita Scultura automatica con alcuni interventi detta “Omaggio a Rodin”, 1938): ciò che conta, in questo momento, è trovare nel fare il passo di una crescita della forma che risponda solo a se stessa, al proprio fluente metamorfico esistere nello spazio, coagulandosi in un esemplare momento/pausa della propria sostanza materiale, naturale.

“Non vogliamo riprodurre, vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto e non riprodurre. Vogliamo produrre direttamente e non transitivamente”.

“In natura un rametto spezzato vale in bellezza e importanza le stelle, e sono gli uomini che decretano la bellezza o la bruttezza. Chi ha mostrato la bellezza degli steli e dei ramoscelli, delle schegge, dei frammenti, dei resti della terra? Il lastricato, il pavé, le mattonelle delle piazze, la terra lavata e seccata del letto di un fiume, la sabbia di una spiaggia bordata di un pizzo di rifiuti sottomarini, le innumerevoli costellazioni scintillanti, mucose, vegetali, schiumose, drappeggiate, rosse, metalliche non si trasformano che per i sognatori in una sfera o in un tempio”.

Tema prevalente diventa, a partire dal 1933, quello delle Concrezioni umane, assunte a crogiolo problematico cruciale rispetto alla questione stessa della genesi della forma plastica, e della sua necessità. Biomorfismo, antropomorfismo, concretismo e rappresentazione, trovano in questa sequenza formidabile (esemplata in mostra da Ombra cinese, 1938) il laboratorio maggiore.

La continuità curvilinea delle superfici mai assertive, quel loro darsi candido, ma curioso di pittoricismo, come luce rappresa in materia, in sostanza visiva, ai limiti d’una corporalità decantata; la molteplicità radiante e indifferente dei punti di vista; la negazione per squilibri continui della verticalità e dell’aplomb, a forzare lo schema archetipo dell’uomo, “bonbon – obélisque” che si fa cosa tra le cose nella cecità magica della natura: tutto occorre a dire della rifondazione plastica che Arp ha alle viste: su fondamenti che spiegano, al di là delle pur sensibili assonanze con certi lavori di Brancusi, la distonia incontrattabile che lo tiene e lo terrà sempre ben lontano dal grande pioniere, al quale pure dedica una poesia: concreto Arp, astratto Brancusi.

Congruente a tali concezioni è l’intendimento della materia di cui Arp fa esplicita mostra. Il gesso è, per lui, la materia per eccellenza. Diverse ne sono le ragioni. Dal punto di vista tecnico, la sua disponibilità infinita e impreventiva al formare, in una sorta di area extraterritoriale tra il senso di padronanza del plasticare e l’agonismo dello scolpire. Dal punto di vista concettuale, che più importa, la sua assoluta neutralità in termini sia di connotazione sensibile, sia di connotazione storica: non è materia né ricca né povera, né aulica né banale: si identifica per lungo corso tradizionale con la scultura, ma da tale tradizione non subisce condizionamento alcuno. Più che la whiteness, incarna la blankness (Arp dirà di blanc infini) metafora inverata della non-materialità dalle implicazioni mentalistiche. La scultura che nasce è concreta, ma aderisce a uno statuto di fisicità prodotto dall’intelletto e dalla fantasia: è natura ripensata da mente umana, più che natura fisica nata da mano umana. E’ forma, non cosa. Ragiona dell’oggetto, ma non si fa oggetto.

In tale determinazione, una parte non banale certo ha la solidarietà potente con Schwitters, con la altrettanto agguerrita blankness del suo Merzbau, al quale anch’egli ha lavorato, nel 1923 e al quale deve la pubblicazione delle Arpaden: “Schwitters scopriva il senso della vita: la metamorfosi del mondo visibile, palpabile, verso l’assoluto senza forma”.

Poche sono, in Arp, le escursioni dalla priorità assegnata al gesso. Il cemento, il legno o il marmo politi sino a rastremarne all’estremo la tattilità, più tardi il duralluminio, del quale lo affascina certo il pari nitore, la capacità di dar sostanza  alla forma senza caricarla di umori allogeni. Il bronzo, invece, non è che la reincarnazione funzionalmente durevole del gesso.

Insieme a un procedimento semplificato sino a renderlo indifferente al virtuosismo e alle interferenze manuali – frutto delle sue antiche riflessioni sul fare, ma insieme del sospetto che da subito avverte per i troppi retrogusti artigianali che permangono nella disciplina scultorea – l’artista ritrova la confidenza affettiva assoluta che aveva già maturato nel lavoro grafico precedente, nelle sequenze di inchiostri più ancora che nei collages. E riproduce parimenti il senso della serie, della concatenazione necessaria e continua tra lavoro e lavoro, il cui passo e la cui intensità sono, a loro volta, specchi d’un fluire, d’un avvertire la forma come processo metamorfico e l’arte come auscultazione e scrittura della formazione.

Arp, Ombra cinese, 1938

Arp, Ombra cinese, 1938

La forma nasce dalla forma, continuamente, in modo imprevedibile e improgettabile, seguendo un philum genetico del quale l’artista è maieuta stupefatto, disposto al magico, alla cecità fertile.

“Spesso un dettaglio di una delle mie sculture, un profilo, un contrasto mi seduce e diventa il germe d’una nuova scultura. Accentuo questo profilo, questo contrasto, e ciò innesca la nascita di nuove forme. Tra queste, alcune – due ad esempio – germogliano più e più in fretta delle altre. Le lascio germogliare sino a che le forme originali siano divenute accessorie e pressoché indifferenti. Infine, sopprimo una di queste forme accessorie e indifferenti per liberare le altre. Mi occorrono spesso dei mesi, degli anni per portare a buon fine una scultura. Non me ne stacco prima che sia passato in questo corpo abbastanza della mia vita”.

E’, di nuovo, la legge dell’alea che si fa forma necessaria. “Dall’inspiegabile, dal divino, dal fatto che mi sveglio, che mi muovo, agisco, penso, che vivo, nasce la poesia, il disegno, la scultura, la scrittura, le linee, i piani, la scelta dei colori, delle forme, dei fiori, delle pietre, la scelta dei frammenti di pietra, d’uno sguardo, d’un percorso, d’una sagoma, d’una figura umana, d’una figura di nuvola. L’inspiegabile che mi lega a uno stelo, a una zolla di terra, a delle macchie, ai bagliori del lampo, decide l’espressione della mia opera. Il mio lavoro è legato al sogno del giorno, senza disprezzo per la materia”.

Negli stessi anni dell’avvento sulla scena della scultura, Arp evolve in parallelo il suo prediletto lavoro cartaceo. Giunto alla indeterminazione metodologica dei collages realizzati con la taglierina, decide di esplorare sino in fondo la via della legge dell’alea con i papiers déchirés, che nascono sintomaticamente nel 1932 (9). Ora, i brani di carta sono strappati irregolarmente e poggiati su un supporto. Dapprima la logica è – né in Arp altrimenti potrebbe essere – nero e bianco; in seguito essa si espande a implicare brani colorati, e soprattutto brani di opere precedenti – xilografie, disegni, inchiostri, tempere, suoi o di Sophie, con la quale duetta spesso anche in scultura – in una sorta di deidentificazione/reidentificazione continua della forma possibile. Il passo distributivo dei lacerti è affine per molti versi a quello degli inchiostri, che riprendono a nascere fitti e regolari in una trama di scambi che prevede tanto lo scavo parallelo di affinità tra i due modi diversi di nascita dell’immagine, quanto la collisione delle due tecniche.

E’ di nuovo, per Arp, un ribadire la vitalità dei suoi cromosomi di dadaista costruttivo – insieme, il suo corrisposto amore per Schwitters – in una pratica che continuamente dice a se stessa il rischio di inaridirsi in un formalismo soltanto nuovo: e, verrebbe da pensare, un ribadire la distanza che lo separa dal raggruppamento di Abstraction-Création con cura pari a quella posta nell’evitare la comprimarietà nella compagine surrealista.

“Ero ossessionato dall’assoluto. Incollavo, scollavo, ricominciavo e distruggevo, distruggevo e ricominciavo, ma la decomposizione, la decadenza di tutte le opere umane mi spingeva, nel 1930, a strappare le mie carte invece di tagliarle alla taglierina. (…) Tra queste carte strappate, questi brandelli di carta, ce n’erano che alzavano il dito nell’aria, delle carte Zen, delle carte che erano fuori dal tempo e dallo spazio. Tutta questa evoluzione avvenne a mia insaputa”.

“Mi faccio portare dall’opera che sta nascendo, le do fiducia. Non rifletto. Le forme vengono, attraenti o estranee, ostili, inesplicabili, mute o assonnate. Nascono da se stesse. Mi sembra di non fare altro che spostare le mani. Queste chiarezze, queste ombre, che il caso ci invia, dovremmo accoglierle con stupore e riconoscenza. Il caso per esempio che guida le nostre dita quando strappiamo una carta, le figure che appaiono allora, ci danno accesso a dei misteri, ci rivelano i camminamenti profondi della vita. Il lavoro interrotto e rimandato a dopo – ce ne accorgiamo in seguito – lo è stato al momento giusto (si tratta d’un momento capitale nella nascita delle forme). Spesso è il colore scelto alla cieca che diventa il cuore vibrante del quadro. Il soggetto deve presentarsi all’artista in punta di piedi, senza cercare di imporsi; deve farsi leggero come la traccia d’un animale nella neve. (…) Basta chiudere le palpebre, e il ritmo interiore passa nella mano con più purezza. Questo passaggio, questo flusso è ancora più facile da controllare, da guidare in un pezzo oscuro”.

Carte Zen (“Non posso più spiegare cosa è lo Zen e cosa è Dada. Tuttavia sono stato dadaista per molti anni. Una sola cosa è certa, è che si è in un reame all’opposto di quello in cui regna la ragione”), ritmo interiore, flusso: nei papiers déchirés, come nelle sculture, è l’intensità della concentrazione, dell’auscultazione del dentro rispetto alle movenze del fuori, è la misura dell’essenza: la forma ne nasce pura, congenita all’infinito.

Come accade per la prima guerra mondiale, ridotta a delirante rumore di fondo al Voltaire, anche la seconda ha su Arp solo l’effetto di un nuovo nomadismo. Ancora, è una geografia amicale a condurlo: Gabrielle Buffet e César Domela in Dordogna, Peggy Guggenheim ad Annecy, Alberto Magnelli e Sonia Delaunay a Grasse: nuove occasioni, anche, di lavoro collettivo. Poi, ancora la Svizzera degli esuli.

Vera tragedia è la morte di Sophie, unico evento che possa scuotere il sogno diurno dell’artista, che gli faccia guardare il cielo le stelle le nuvole con altri occhi.

 “Tu eri un fiore chiaro e certo. / Tu sognavi giorno e notte con lucidità. / Tu erigevi torri di candore. /Tu costruivi con calma gradini di cristallo / Verso il bianco infinito”.

 Sono amici nuovi come Max Bill, e antichi come Marguerite Hagenbach, preziosa collezionista, a spingerlo di nuovo all’opera. Che riprende a Parigi, alla fine della guerra, e negli Stati Uniti, dove rivede Walter Gropius, Hülsenbeck – ora Hulbeck – e la moglie Beate, Richter, Marcel Duchamp, e conosce la prima celebrità internazionale.

Il lavoro prende a fluire, ininterrotto, secondo l’operosità silenziosa e concentrata di sempre, per alcuni anni con la collaborazione del fedele Antoine Poncet. Sculture biomorfe dalle movenze sempre più fluide, ancor più giocate sul filo d’una ironia poetica, aperte a sinuosità di pieno e di vuoto, oppure a scommettere con la verticale, con fantasie totemiche, oppure ancora a farsi vaso conchiglia frutto idolo ruota stella. Sono sculture, soprattutto, vòlte a risognare l’anima del Mediterraneo, esplicitando un rapporto con l’antico che, già leggibile nel decennio Trenta, si precisa ulteriormente come esercizio infinito sul possibile dell’individuo plastico, non persona simulante l’identità del vivente, ma unum contenente in sé la ragione di vita del tutto. Ecco, a fianco dello studio dei Presocratici e del rinnovato amore per la Grecia, opere come Torso, 1953, Dalla terra di Talete, 1954, Venere di Meudon, 1957, Demetra, 1960, il formarsi delle quali ausculta la movenza plastica stessa di modelli arcaici, come per collisione tra canoni e crescenze materiali.

Sono, anche, papiers déchirés che si fanno nuove costellazioni, nuovi rilievi, annunciando e poi affiancando i découpages, buoni cugini di quelli matissiani; e poesie: ora, anche ricordi.

Arp, Silenzioso, 1942

Arp, Silenzioso, 1942

 “Le forme che ho creato negli anni dal 1927 al 1948 e che ho chiamato forme / cosmiche / erano forme vaste / che dovevano inglobare una moltitudine di forme come per esempio: / l’uovo / l’orbita planetaria / il corso dei pianeti / il germoglio / la testa umana / i seni / la conchiglia / le onde / la campana. / Costellavo queste forme / “secondo le leggi del caso”. / Obbedivo inconsciamente a una legge che oggi è divenuta / una legge suprema. / Davo questo nome “secondo le leggi del caso” ingenuamente / senza sapere che era una legge che inglobava la legge di causa ed effetto secondo / Planck. / Queste forme cosmiche sembravano mute / perché il loro linguaggio supera le onde percettibili dall’uomo. / Visitando la Cattedrale di Chartres nel 1948 / la pienezza l’augusta grandezza e la perfezione delle vetrate / che nessuna arte potrà superare / mi costrinsero a riflettere sui limiti delle nostre forze / e a ridurre il regno del nostro spiegamento. / Scelsi dunque a partire da allora / delle forme più primitive / delle forme parzialmente rettilinee / che permettessero d’attirare intercettare includere dei movimenti / e delle idee che s’avvicinassero all’ / immagine umana”.

Così, nel 1950. 1959: Arp sposa Marguerite Hagenbach e realizza con lei la casa Ronco dei Fiori a Solduno, Locarno, terra d’artisti come la vicina Ascona frequentata in gioventù, che diverrà il rifugio dai rigori degli inverni di Meudon. Ha vecchi e nuovi amici come Richter, Helbig, Julius Bissier, Ben Nicholson, Italo Valenti, Wilfrid Moser. La passione del lavoro a più mani non lo abbandona: molto più che una celebrazione è la mostra in duo a Berna con Schwitters, 1956, così come sarà quella parigina del 1965 con Richter.

Lavora, come sempre. Nuove sculture, rilievi, découpages, pitture, arazzi, in un ripercorrimento continuo, e di nuovo sereno, silenzioso, concentrato, della propria ormai non breve storia d’artista.

Gli amici, ora, non sono solo i vicini d’atelier e i vecchi compagni di strada che incontra durante i viaggi della fama. Sono, soprattutto, le opere che con devozione ha di tutti conservato, e che donerà nel 1966 alla città di Locarno.

Sono la sua storia, e questa mostra.

 

 Note

1. M. Jean, Jalons d’Arp, in “Les lettres nouvelles”, IV, 35, Paris, febbraio 1956.

2. J. Arp, Jours effeuillés. Poèmes, essais, souvenirs 1920 – 1965, con una prefazione di Marcel Jean, Paris 1966, p. 311. Da  questo libro fondamentale sono tratte tutte le successive citazioni, salvo diversa indicazione. Le traduzioni sono di Chiara Gualdoni.

3. Spassoso è il bilancio della questione del nome di Arp che si legge in S. Fauchereau, Arp, Barcelona 1988, p. 7: da chi scrive Jean/Hans, a chi scrive Hans/Jean, a chi risolve scrivendo solo Arp; notevole è il caso di una monografia tedesca intitolata Hans Arp, la cui traduzione americana titola Jean Arp. Quel che è certo è che Arp, se pure ha avuto nella sua vita molti problemi di passaporto, non ne ha certo mai avvertiti di nazionalità: cittadino francese dal 1926, impiega stabilmente il nome Jean dal 1939.

4. Cfr. in particolare H. Arp – R. Hülsenbeck, Dada in Zürich, Zürich 1957; e A. Schwarz (a cura), Almanacco Dada, Milano 1976 (ove si legge la citazione di Ball, p.580). Per quanto riguarda specificamente Arp, J. Hancock – S. Poley (a cura),  Arp 1886  – 1966, Stuttgart 1986; H. W. Last, Hans Arp the Poet of Dadaism, London 1969.

5. Sul rilievo di Arp, B. Rau, Hans Arp. Die Reliefs, Stuttgart 1981. Sulla questione in generale, W. Seitz (a cura), The art of assemblage, New York 1961, e Aa. Vv., Reliefs, Münster – Zürich 1980. Ampie ricostruzioni della stagione surrealista in J. Duplessis, Le Surréalisme, Paris 1958, P. Waldberg, Le Surréalisme, Genève 1962, M. Jean, Autobiografia del Surrealismo, Roma 1983. Sulle vicende di queste stagioni del concretismo, cfr. M. Seuphor, Cercle et Carré, Paris 1971, e Cercle et Carré, reprint, Torino 1969; C. Fabre (a cura), Abstraction – Création 1931 – 1936, Münster – Paris 1978, e Abstraction – Création, reprint, New York 1968. Notevole è osservare come la riflessione di Arp sullo scambio tra bidimensione e tridimensione abbia più d’una affinità con quelle maturate in ambito purovisibilista: A. von Hildebrand, Il problema della forma, Milano 1996. Hildebrand è tra l’altro maestro di Helbig, cofondatore con Arp di Der Moderne Bund.

6. In una conversazione con chi scrive, Fausto Melotti indicava in queste sculture di Arp il momento di consapevolezza dello scambio tra bidimensione e tridimensione che la scultura del nostro secolo ha instaurato in modo non derivativo, e ne faceva una delle premesse fondamentali alla “scultura senza materia” praticata in seguito da molti artisti.

7. Notevole è osservare come la nozione di “primitivismo” si sia ridotta, negli studi sull’arte del nostro secolo, alla curiosità esotica per le arti extraeuropee che ha generato assunzioni iconografiche di vario genere, anziché avventurarsi nel dar conto di un radicalmente diverso intendimento del fare scultura, che passa soprattutto per la contaminazione tra “scoperta” della preistoria e protostoria europea, influssi esotici dall’Oriente e curiosità per le civilizzazioni extraeuropee. E’ notevole osservare che un lavoro pur straordinario come la mostra “Primitivism” in 20th Century Art curata da W. Rubin per il Museum of Modern Art di New York, 1984, si restringa allo studio comparativo delle iconografie dell’avanguardia e di quelle tribali: con l’effetto un po’ perverso di dar spazio al lavoro di John Storrs  e di Marius de Zayas sull’arte degli Hopi, di offrire di Giacometti una lettura carente di tutti i riferimenti alle culture preistoriche e storiche europee, Etruschi in testa, e soprattutto di forzare quella di Noguchi (nulla si dice della strepitosa cultura Jomon, e dell’essenzialità delle forme Yayoi e dei Tumuli…) e di Moore (il cui debito è semmai verso i “primitivismi” già elaborati di artisti come Epstein, Gaudier-Brzeska, Arp, Giacometti) entro codici assai limitativi. Sintomo di debolezza di identità culturale è ancora, tra l’altro, differenziare la cultura dei “nativi americani” rispetto a quella dei “nativi europei” o dei “nativi giapponesi”…

8. Un precoce lettura della scultura di Arp in termini evocativi delle forme naturali è C. Giedion – Welcker, Hans Arp, Stuttgart 1957; Id., Contemporary Sculpture, New York 1960. Essa è ancora, salvo eccezioni, prevalente.

9. Ch. Derouet (a cura), Hans/Jean Arp. Le temps des papiers déchirés, Paris 1983.

 

Nota bibliografica

Scritti fondamentali di Arp:

J. Arp, On my Way. Poetry and Essays 1912 – 1947, New York 1948

H. Arp, Unsern täglichen Traum…, Zürich 1955

H. Arp – R. Hülsenbeck, Dada in Zürich, Zürich 1957

J. Arp, Jours effeuillés. Poèmes, essais, souvenirs 1920 – 1965, Paris 1966

J. Arp, Poesie, Milano 1976

H. Arp, Gesammelte Gedichte, 3 voll., Zürich – Wiesbaden 1963 – 1984

Scritti monografici su Arp:

C. Giedion – Welcker, Hans Arp, Stuttgart 1957

J. Thrall Soby (a cura), Arp, New York 1958

E. Scheidegger (a cura), Hans Arp und Sophie Taueber – Arp, Zürich 1960

J. Cassou (a cura), Arp, Paris 1962

G. Marchiori, Arp. Cinquante ans d’activité, Milano 1964

M. Seuphor, Arp, Paris 1964

G. Marchiori, Jean Arp, Milano 1966

R. Döhl, Das literarische Werk Hans Arps, 1903 – 1930, Stuttgart 1967

H. Read, Arp, London 1968

E. Trier, Hans Arp. Skulpturen 1957 – 1966, Stuttgart 1968

H. W. Last, Hans Arp the Poet of Dadaism, London 1969

I. Jianou, Jean Arp, Paris 1973

P. Beye – St. von Wiese (a cura), Stiftung Marguerite Arp, Stuttgart 1975

S. Poley, Hans Arp. Die Formenspräche im plastischen Werk, Stuttgart 1978

W. F. Arntz, Arp. Das graphische Werk, Den Haag 1980

B. Rau, Hans Arp. Die Reliefs, Stuttgart 1981

Ch. Derouet (a cura), Hans/Jean Arp. Le temps des papiers déchirés, Paris 1983

J. Hancock – S. Poley (a cura),  Arp 1886 – 1966, Stuttgart 1986

R. Chiappini (a cura), Collezione Arp, Locarno 1987

S. Fauchereau, Arp, Barcelona 1988

H. Watts, Hans Arp und Sophie Taeuber – Arp. Die Elemente der Bilder und Bücher, Wolfenbüttel 1988

S. Gohr (a cura), Hans Arp und die Antike, Rolandseck 1995

S. Gohr (a cura), Hans Arp Sophie Taeuber – Arp, Ostfilden – Ruit 1996

Per una bibliografia complessiva, A. Bleikasten, Arp. Bibliographie, 2 voll., London, 1981 – 83