Peverelli. Un’altra durata, un’altra intensità, in Cesare Peverelli. Opere 1942 – 1995, catalogo, Museo della Permanente, Milano, 1995

La data del 1951 segna il primo dei passaggi cruciali del percorso di Cesare Peverelli; la prima delle successive, e sempre fervide, crisi di passaggio che lo porteranno, di lì a qualche anno, a incarnare una delle posizioni di più autonoma e forte identità espressiva del panorama europeo.

Il non ancora trentenne Peverelli presenta, alla milanese galleria del Milione, una sequenza di opere di esplicito impianto gestuale e materico, in cui l’automatismo d’ascendente surrealista e suggestioni precoci della pittura d’azione statunitense si saldano su una vocazione che, da sempre, è di lucida rage de l’expression, combinazione sottile tra scrutinio acuminato e voglia urgente, un po’ anarchica un po’ romantica, d’un’arte che non si riduca a liturgia stilistica più o meno retoricamente d’opposizione.

La mostra è un avvenimento di qualche peso, nel clima milanese mobilissimo e ricco di quegli anni. Vuoi per il prestigio della galleria, dove pure Peverelli aveva esordito diciannovenne in una collettiva, e nel 1944 con la prima personale, vuoi perché più d’uno gli riconosce già, a quelle date, una cifra artistica sufficientemente autorevole e compiuta da far leggere tale brusco mutamento di rotta come una sorta di tradimento delle scelte precedenti.

Brusco, certo, il mutamento è: linguisticamente, ma, più, moralmente. Peverelli vi carica tutta l’insoddisfazione, l’ansia, la tensione, a uscire dalle pastoie d’un dibattito che non riesce a sottrarsi da una sorta di maledizione provinciale – nei termini, nei riferimenti, nelle ambizioni – e soprattutto del quale avverte l’irrecuperabile corruzione della tensione etica in mediocrazia politica.

Peverelli nasce artisticamente al crocevia stesso della cultura d’opposizione. Nelle aule di Brera, alla scuola di Achille Funi ove si apprende il raziocinio analitico, cautelato, del costruttore d’immagini, che vale tanto per amare l’antico quanto per inventare il nuovo, gli sono compagni Ennio Morlotti e Aldo Bergolli, dapprima, poi Roberto Crippa e Gianni Dova. Fuori, il clima è quello – tra Corrente e bar Giamaica – in cui s’incrociano Renato Birolli e Raffaele De Grada, Bruno Cassinari e Duilio Morosini, Paolo Grassi e Beniamino Joppolo, Giovanni Testori e Giuseppe Ajmone, Franco Francese e Alfredo Chighine…

Se la militanza politica è scontata, assai meno scontato è, nelle scelte iniziali di Peverelli e dell’amico Morlotti, il riferimento prioritario alla mediazione morandiana del cubismo in luogo della prevalente eccitazione espressivistica, e del mito vangoghiano, che segnerà di sé anche la stagione neocubista nostrana.

Ancor più atipica è, in questi anni e in questo clima di fideismi volontaristici, la curiosità fagocitante che l’artista nutre per prospettive culturali come l’antropologia culturale e la psicanalisi, cui la cultura di sinistra, anche la più laica, guarderà ancora per anni con sospetto, e che rappresenteranno, in seguito, le nourritures fondamentali della sua personalità espressiva.

E’, quello di Peverelli, un cercarsi ostinato e febbrile, insoddisfatto dei pur precocissimi riconoscimenti, dal buon successo al Premio Bergamo del 1942  alla partecipazione variamente intensa alle più attive vicende del momento, da Oltre Guernica  a Numero, dalla presenza alla grande mostra del 1948 all’Alleanza della Cultura di Bologna, che si attira i diktat sciagurati di Togliatti, alla fondazione, lo stesso anno, con Roberto Crippa e Roberto Sambonet, della effimera ma fondamentale Galleria di Pittura, dove terrà una personale importante nel 1949.

L’elemento scatenante del disagio di Peverelli è, per così dire, climatico: egli, come molti attenti compagni di via, si sente stretto nella morsa ossedente tra chi “suona il piffero” alla cultura borghese d’una borghesia che non c’è, e chi lo suona alla rivoluzione. Ma la ragione profonda, meno evidente ma assai più cospicua, è il suo soggettivissimo maturare la consapevolezza del limite storico della parlata cubista, che la conoscenza progressivamente approfondita dei termini vasti e complessi del dibattito d’avanguardia funge a mettergli sempre più in chiaro.

Già le opere esposte alla personale del 1949 mostrano come l’artista miri a sottrarsi alla grammatica spaziale stringente del cubismo, e a istituire un meno meccanico rapporto tra forma e struttura, in vista, è lo stesso Peverelli a scrivere nell’autopresentazione, del “raggiungimento di un nuovo sentimento del tempo, tematica posta dai cubisti e forse da questi dimenticata per via” (1). Ma è la visione delle opere di Wols, esposte al Milione nel 1949, e di quelle di Jackson Pollock, al Museo Correr di Venezia e al Naviglio di Milano l’anno successivo, a mostrargli nuove, folgoranti possibilità.

Il segno e le sue epifanie emotivamente sismografiche, l’autonoma vocazione significativa delle materie, anche disciplinarmente atipiche, il quantum di travaso corporale, e attraverso esso di flusso psichico, del gesto: Peverelli letteralmente si getta sulle nuove possibilità pittoriche scoperte, vedendo prender forma una sorta di primarissima e intensa fisiologia dell’immagine: imperfetta, imperfettissima ancora, forse, ma infine non mediata dallo schema raggelante dello stile: e vera.

Il termine di riferimento è, fondamentalmente, naturale, ma con un grado di pretestuosità visionaria che, da subito, demarca tali prove da quelle, parallele, che vedono montare l’informale nostrano, Morlotti in testa, e che s’inscrivono piuttosto in un clima tutto milanese di forte poggiatura surreale, che le dizioni di nuclearismo e spazialismo, le uniche di qualche ampiezza allora in circolazione, solo assai impropriamente servono a indicare.

Tra il 1951 e la metà del decennio più d’un’opera di Peverelli fa riferimento tematico al paesaggio, oppure a fenomeni di generazione naturale, come accade per altri versi a Dova (una cui sintomatica opera del 1952 ha per titolo Crisalide), a Bergolli (il più tangente al naturalismo arcangeliano), a Enrico Baj, a Emilio Scanavino; peraltro, forti analogie si possono riscontrare con la concezione biomorfa dell’immagine di talune prove grafiche di Fontana, e con Crippa: ed è certo in tale clima che incubano anche molti fogli del primo Piero Manzoni. (2)

A ben vedere, è in tale orizzonte che si può intendere l’adesione di Peverelli, insieme a Crippa e Dova, allo spazialismo, proprio dalla fine del 1951. Non si tratta di una stringente affinità teorica o operativa con il percorso di Fontana, e piuttosto di una lata scelta di campo della quale conta più l’elemento negativo, di contrapposizione ed esclusione verso altre posizioni, che positivo, di congruenza problematica: ciò che, d’altronde, è tipico dell’atteggiamento di patronage istituito da Fontana, solitarissimo artista nella riflessione e nell’opera, ma assai generoso nella fidejussione verso gli esperimenti del nuovo. (3)

Nel primo lustro dei Cinquanta Peverelli guarda primariamente, nel suo preferenziale legame intellettuale e di ricerca con Crippa e Dova, alla cultura surreale, soprattutto al versante biomorfo di cui sono campioni Max Ernst, Victor Brauner e per altri versi André Masson, che i rapporti mercantili con Alexandre Jolas gli consentono di frequentare su una larghezza di testi allora inconsueta (sino all’organizzazione di una mostra surrealista a Milano, 1952, con Matta Brauner Ernst Duchamp Donati e altri), e di cui si fanno presto vessilliferi a Milano anche artisti come Baj e Sergio Dangelo e intellettuali come Arturo Schwarz, la cui storica galleria apre nel 1954.

Peverelli, Paradisiers, 1962-1963

Peverelli, Paradisiers, 1962-1963

Proprio di tale tipicità, rispetto ai ragionari nostrani sull’informale, è testimonianza il rapporto controverso – anche per carenza d’informazione – che Francesco Arcangeli intrattiene con la giovane generazione milanese, pronto a scommettere ovviamente su Morlotti, e su Piero Giunni, su Gianfranco Fasce, su Alfredo Chighine, ma assai più cauto, al di là del riconoscimento del talento individuale del nostro artista (“In lui la natura rivive come estro…”; e più tardi: “…il rapporto d’estro elegante, mordente, brillante, velenoso e pur lirico, che Peverelli istituì con un nuovo naturale…”), nei confronti della “moda” nuclearista e spazialista, alla quale imputa, tra rifiuti e apprezzamenti, concessioni intellettualistiche e di gusto. (4)

Il 1954 è la seconda data cruciale del percorso dell’artista. La personale al Naviglio, con la serie degli insetti e il riferimento al Dylan Thomas tradotto da Roberto Sanesi (sarà importante, un giorno, ricostruire partitamente la fitta serie di sollecitazioni letterarie del dibattito pittorico di quegli anni, da Thomas a Sartre, da Camus a Beckett…) (5) mostra l’orientarsi di Peverelli verso una più esplicitata organicità di tipo visionario: la cui componente figurale è semmai, ancor più che in passato, pretestuosa, rispetto al procedimento inventivo di tipo surreale.

E’ d’altronde, questo, l’anno dell’incontro significativo dell’artista con Ernst e Brauner, a Venezia: la stessa Venezia ove va soggiornando Graham Sutherland, reso celebre dalla personale alla Biennale del 1952, per un certo segmento della nuova generazione italiana – ma non per Peverelli – riferimento primario d’una surrealtà sub specie naturale, ricca di attenzioni strutturali (mentre va spostata più avanti, almeno al 1956, l’influenza nostrana di Giacometti, il cui giansenismo cromatico e la cui strutturazione ansiosa certo influenzano esplicitamente Peverelli: ma, direi, più il Peverelli parigino, dal 1957; assai maggiore importanza, a inizio decennio, hanno semmai le frequenti presenze di Matta in Italia, e per quanto riguarda il nostro artista, la conoscenza di Masson e di Bacon).

Nascono, da qui, le “ambigue ma non equivoche figurazioni” (Tadini) (6) di Peverelli, che si generano sempre meno secondo il passo gestuale e materiale concitato degli anni precedenti, e come coagulandosi, decantandosi, sedimentandosi di opera in opera in un linguaggio essenziale, ossoso, trovano una sorta di evidenza totemica, e insieme la capacità di condensare in immagine una situazione, un grumo psicologico e inventivo forte.

Peverelli mira ad articolare, a rendere fluentemente organico ciò che i surrealisti indicano automatismo, attraverso uno scrutinio razionale dell’artificio pittorico e grafico – si pensi al ferreo controllo, d’eco braquiana, dei rapporti di tono, al grigio inteso sempre anche come ton moyen, alle materie smagrite e come spossate – che gli consenta di stringere linguisticamente una situazione visiva anziché una figurazione, un eventum al crepuscolo tra intelletto e gorgo psichico che sia “le double d’une réalité d’ailleurs informulable” (Laude) (7): e simbolo, probabile: e impronta mitica d’un essere al mondo che dubita dei segni ordinari del mondo.

L’immagine pare definirsi come condizione di spazio, e di tempo, in una sorta di sospensione allarmata, cui i lucori diacci e sciabolanti – quanto Seicento riscoperto è in queste, e in altre pitture italiane di quegli anni? – conferiscono un carattere di raggelamento, come di assaporata prigionia narrativa.

Con la mostra del 1957 al Naviglio e il debutto, lo stesso anno, a Parigi, Galerie du Dragon, coincidente con il definitivo trasferimento di Peverelli in Francia, siamo alla svolta ultima della sua maturazione.

Curiosamente, ciò di cui primariamente Peverelli va in caccia nella Parigi d’allora non è il “clima francese”, estroverso più che intenso: da Mathieu a Hartung a Rebeyrolle,  cui s’abbevera molta della nuova arte italiana, e che ha da noi cantori illustri in critici come Michel Tapié e Luigi Carluccio. E’, semmai, una sorta di distillazione delle proprie autentiche radici espressive dalle contaminazioni ambientali d’una troppo amata Milano: che può raggiungersi a Parigi perché Parigi è, davvero, “città aperta”, dove tutto esiste nulla domina.

Uno scopo, certo l’artista ha primario: comprendere del surrealismo ciò che non è detto nelle vulgate, agiografiche o polemiche, che se ne fanno: cogliere ciò che del surrealismo non è stile, non modo, ma condizione profonda dell’esprimere, secondo quanto ha già sorgivamente intuìto negli anni ultimi.

Da Maintenant nous jouons avec a Prigioniero di se stesso, 1957, in cui la figura si declina come una sorta di balance assiale che convoca a sé molteplici e imperscrutabili riverberanti ragioni di spazio e di tempo, alle serie Coppia sulla città, Personaggi e città e Città, in cui lo spazio si dispiega e moltiplica (acuta l’intuizione di Tadini, nel testo del 1957, sull’intendimento da parte di Peverelli del cubismo come esprit de finesse anziché esprit de géometrie) sino alla distanza indicibile in cui la somiglianza si perde entro i meandri d’una evocazione continuamente moltiplicantesi per sottili associazioni psichiche, allo scorcio dei Cinquanta l’artista giunge infine a farsi effettivamente partecipe dell’animo surrealista, in piena e rivendicata libertà di modi, in assoluta autonomia di formulazione stilistica.

Sono, quelli delle città, climi visionari, situazioni di nascita e di movimento di figure identificate come grumi di relazioni spaziali nel colarsi del tempo, nell’atmosfera di grigiore metafisico (in questi anni parigini Peverelli recupera molti valori della cultura futurista e metafisica, in un complesso e agguerrito scavo d’identità culturale) che diviene, per lui, una sorta di cifra espressiva permanente.

Non si tratta d’immagini letterarie – nulla è più alieno all’artista dell’ipoteca letteraria che pure segna molta della cultura d’origine surrealista – ma d’immagini che possono innescare una equivalenza letteraria forte, laddove la scrittura sia a sua volta insieme visionaria e accanitamente autoriflessiva: accadrà a Michel Butor e, più in là negli anni e proprio a proposito delle Città, a Italo Calvino: sono, a pieno titolo, immagini fantastiche, perché “il fantastico deve risiedere nella struttura stessa del linguaggio. James Joyce, Leiris, Miller, Butor, Calvino sono fantastici per me perché è il loro linguaggio a essere fantastico”; e ancora: “il mio problema non era né la pittura concreta né l’astrazione dal reale, ma di creare immagini allusive che potessero articolarsi in un linguaggio inventato giorno per giorno al fine di poter raccontare”. (8)

Tale componente di straniata iperdeterminazione allusiva e di concatenazione di rapporti spaziali/narrativi all’interno della struttura artificiosa della pittura si dispiega pienamente nel ciclo La dimora, otto tele realizzate per la personale alla Biennale veneziana del 1960. Si tratta d’un vero e proprio ciclo, di cui è ipotizzabile un riferimento concettuale al dràma manierista tintorettesco, in cui di opera in opera, e all’interno di ciascuna, il riverbero dei passaggi di piano, la mobilità degli assetti d’immagine, e insieme l’uniformità climatica e psicologica, allarmata e come claustrofobica, creano una situazione a un tempo unitaria e indefinitamente frazionata, inafferrabile, come in una sorta di narratività tutta psicologicamente introversa e periclitante: di “pericolo dell’ombra”, “pericolo della luce”, e di “superba ambiguità” dice Alain Jouffroy (9), ma più esattamente si potrebbe indicare una vicenda di complessa suspense, trascorrente di luogo in luogo – L’ascensore, Il ponte, I muri,… – secondo illuminazioni che straniano come metafisicamente l’aspettativa ordinaria e la consuetudine spaziale.

Hanno inizio, da questo momento, una serie di cicli  in progress, a ciascuna opera dei quali Peverelli attribuisce il valore ultimativo dell’esperienza totale, ma in seno ai quali egli si muove per ipotesi formali mutevoli, come aggredendo di volta in volta il nodo problematico da un punto di vista coerentemente diverso.

Peverelli, Crisalide, 1965

Peverelli, Crisalide, 1965

Les mouettes, avviati nel 1960, sono forme d’esplicito ascendente organico che fan da pretesto a un lavorio di moltiplicazioni infinite e cangianti di figure del movimento, a raddoppiarsi in un cielo estraneo campito in luce disagiata: che si fa l’ambito delle situazioni un po’ erotiche un po’ thanatologiche dei Paradisiers, dal 1962, e l’impegno eroico antiretorico degli studi sul Radeau de la Méduse di Géricault (sarà poi, d’un altro tempo, l’affine Omaggio a Isabey, reinvenzione del Naufragio dello Steamer Austria del museo di Bordeaux, ad alimentare i progetti d’una clangorosa manierata teatralità d’immagine).

Peverelli pare nutrire ora il suo “stile di nevrotico e sensibilissimo manierismo” (Russoli) (10) di ciò che Patrick Waldberg, assiduo compagno di via dell’artista – con lui, e con Ernst, Peverelli condivide lunghi soggiorni a Seillans, nell’entroterra di Cannes, dall’inizio dei Sessanta – indica come “colorations souvent exquises” e, infine, come “élan lyrique” (11): ovvero, d’una gamma tonale e d’una scala luminosa meno ascetica, e ancora come velenosamente suadente, che giunge alla nerità stillante luce dei Campi di vetro, 1966, visioni newyorkesi in cui egli, scrive Georges Limbour, “ci insegna che non c’è colore che possa meglio cantare del nero”. (12)

E ancora: le Stanze, i Labirinti, L’atelier de l’artiste: nuovamente, interni metafisicamente claustrofobici, condensati psicologici che violano le coordinate spaziali e temporali di interno ed esterno, in cerca d’un’altra durata, d’un’altra intensità.

Le serie, i temi, s’attorcono e scambiano vicendevolmente umori: è il caso dei bagliori ambiguamente sontuosi dei notturni Campi di vetro, e delle tonalità alte e talora addirittura sensuose delle Crisalidi, a cavallo di metà decennio. Oppure s’accumulano, in un’ambiziosa stratificazione e combinazione sintattica di motivi diversi in un’unica, grandiosa e narrativamente variante, immagine. L’atelier de l’artiste riprende programmaticamente il far grande del Géricault amante dei manieristi italiani, attraverso una sorta di tutto psicologico ripensamento della storia artistica. Luoghi, e luoghi d’anima, in una sorta di ripercorrimento unitario di tutta la sua propria storia fantastica, sono i motivi che corrono nelle versioni diverse dell’opera, sino alla grandiosa redazione ultima del 1976: per la quale tien conto primariamente notare da un canto l’artificio estremo della machina citatoria, mentalissima, apertamente e saporosamente ingegnosa, d’una “maniera” che si fa essa stessa stile nella padronanza e nell’interrogazione definitiva del linguaggio; d’altro canto, l’organizzarsi della complessità dell’immagine come d’una partitura sinfonica, a esplicitare una costante riflessione sulla lingua musicale che lo porterà anche a concepire, in seguito, la serie Salomé (13), dopo aver accompagnato l’esposizione parigina del 1976 dell’Atelier con l’esecuzione in quartetto di partiture originali di Donatoni, Koering, Mache, Méfano, Sinopoli.

E’ intorno a questi ragionari d’immagine, durata dell’immagine, narratività possibile, che Peverelli concepisce a Cuba, nel 1967, la serie dei Campi di canne.

Gli inserti rousseauiani che vi si aggiungeranno in seguito valgono a testimonianza d’una riconquistata primitività dello spessore dell’immagine, eco panica d’una naturalità notturna e confidente, che Peverelli porta con sé dagli anni Sessanta, e di cui lo tenta il sortilegio, la magia, la purezza rituale. Ma l’elemento problematico primario vi è, ancora, come nei primi saggi dell’Atelier, la possibilità di moltiplicazione narrativa all’interno della medesima immagine: meglio, la compressione elusiva della cognizione ordinaria del tempo entro la temporalità sincrona, e insieme di lentissimo assaporamento, della pittura.

Come un Monet avvinto a un progetto solo mentale, psichico, di misura sensibile del tempo, Peverelli moltiplica lune e soli, moltiplica cieli, lascia proliferare vegetazioni di suprema innaturalezza.

Ecco, di lì a poco, esplicitarsi il ciclo Alberi e altri racconti, 1971, ove la scansione dell’immagine in riquadri si fa tematica, ove il tempo –  giorno notte, nascere morire, … – si misura per addensamenti affettivi e di gelidamente straniata visività, quasi a rimemorare la celebre poesia picassiana: “Nero giorno dietro alberi verdi / Giorno improvvisamente inondato dall’alba / Entrata di soppiatto nel mio cuore” (14).

Ecco la serie contigua Immagine e pittura, in cui l’affiorare sincronicamente alla coscienza, per introverse relazioni, di lacerti iconografici diversi della propria storia pittorica, s’abbiglia d’una inusuale souplesse linguistica, ma soprattutto prende a preludere all’ambizione compositiva totalizzante della versione grande dell’Atelier e degli immediatamente successivi Salomé e Rituale. (15)

La nerità prevalente, la rastrematissima e severa scala cromatica accolta – bruni disagiati, bianchi inquieti e come illividiti, e soprattutto la spossata magrezza della materia, svuotata d’ogni sensuosità possibile, presiedono a una crescita d’immagine quasi per movenze cellulari, come per infinito moltiplicarsi e aggregarsi d’un monema strutturale e visivo – non a caso questi sono, per Peverelli, anni di profondo e per certi versi paradossale ripensamento di Cézanne – che contenga in sé la vocazione totale dell’immagine che sarà, sia dal punto di vista del motif sia da quello delle geometrie spaziali, e della misura temporale del suo dispiegarsi: in un tempo allentato e intenso della visione che sia da sé il tempo stesso del racconto possibile: tempo d’anima, risonante durata emotiva.

Allo scorcio dei Settanta, Peverelli avverte di aver raggiunto una sorta di chiarezza ultimativa del suo percorso, d’essere giunto all’esplicitazione compiuta della propria vocazione problematica.

Egli decide, con scelta inusuale per i tempi nostri, di non abbigliare tale raggiungimento di produttivismi d’esito solo mondano, ma di porre se stesso in una sorta di sospensione inventiva: fatta di sobrie pratiche d’atelier, e soprattutto d’un lungo meditare che, più d’ogni teatro comportamentale, lo tiene in contatto con la verità profonda della pittura.

Ferocemente critico, giansenista della pittura com’è stato definito, non può essere che lucidamente, laicamente autocritico: mai consentirebbe a un’opera priva di necessità di circolare impune per il mondo.

Questo è il Peverelli di oggi, monaco severo d’una idea di pittura di cui possiede la sacralità del rituale, e di cui disdegna l’esteriorità vacua delle liturgie.  

 

 

Note

La traccia documentaria di cui si è tenuto prioritariamente conto, nonostante la lacunosità, è Cesare Peverelli, tesi di V. Caimi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, 1989-90, relatori G.M. Accame e M. Meneguzzo, che riporta anche un’ampia intervista originale all’artista. Fondamentale per l’intelligenza del clima artistico degli anni Quaranta-Cinquanta è T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Schwarz, Milano, 1957, cui può fare da utile complemento visivo M. Precerutti Garberi (a cura), 50 anni di pittura italiana nella collezione Boschi-Di Stefano donata al Comune di Milano, catalogo, Palazzo Reale, Milano, 1974, documento d’un caso esemplare di collezionismo milanese di quel tempo. 

 1. C. Peverelli, in catalogo Galleria di Pittura, Milano, 1949. 

2. L’opera di Dova, già collezione Boschi-Di Stefano, è ora nelle Civiche Raccolte d’Arte di Milano, inv. 305. Su Dova cfr. F. Russoli (a cura), Gianni Dova, catalogo, Palazzo Reale, Milano, 1971. Su Bergolli, R. Tassi (a cura), Aldo Bergolli, catalogo, Palazzo della Permanente, Milano, 1977. Su Baj, P. Bellasi (a cura), Enrico Baj, catalogo, Pinacoteca Casa Rusca, Locarno, 1993 . Su Scanavino, F. D’Amico (a cura), Emilio Scanavino. Opere: 1954-1962, catalogo, Galleria Civica, Modena, 1990. Su Fontana, F. Gualdoni (a cura), Lucio Fontana. Il disegno, catalogo, Galleria Civica, Modena, 1990. Su Crippa, A. Jouffroy, Crippa, Schwarz, Milano 1962. Su Manzoni, F. Gualdoni, Le carte di Piero Manzoni, catalogo, Rocca Sforzesca, Soncino, 1995. Per i termini generali della questione, cfr. G. Giani, Spazialismo, Conchiglia, Milano 1956; G. Anzani (a cura), Arte nucleare 1951-1957. Opere-testimonianze-documenti, catalogo, Galleria San Fedele, Milano, 1980. 

3. “Sarebbe un’assurdità affermare che eravamo spazialisti. Lo spazialismo appartiene a Fontana e basta. Non so spiegarlo ma credo che, sia per me che per tutti gli altri, la visione dello spazialismo fosse legata a una sorta di ammirazione e adesione per qualcuno, come Lucio, più vecchio di noi, che sconvolgeva le regole della buona pittura”: così Peverelli, Un milanese a Parigi, in “Bolaffi Arte”, III, 24, novembre 1972, pp.56-61. Sui rapporti di Fontana con i gruppi, cfr. J. De Sanna, Lucio Fontana materia spazio concetto, Mursia, Milano 1993, e F. Gualdoni, Itinerario di Lucio Fontana, in Fontana, catalogo, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1994. 

4. In Gli ultimi naturalisti, “Paragone”, 59, novembre 1954, Arcangeli sostiene: “E sarà qui il punto di dire che non riescono ad interessarci altri fatti milanesi, come quelli del gruppo che si proclama esplicitamente nucleare, non distante da qualche aspetto del lavoro di Peverelli: essi ci paiono inutili, oziosi, buoni piuttosto a solleticare la noia di qualche salotto…”. In Una situazione non improbabile, “Paragone”, 86, settembre 1956: “Ricorre qui l’occasione per dire che abbiamo attenuato, inevitabilmente, la nostra avversione nei riguardi del gruppo nucleare o spaziale italiano: anche perché, aggiornamento per aggiornamento, preferiamo questo ad altri. Se insomma moda deve essere, sarà meglio che sia l’ultima moda”. Notevole vi è la sostanziale indistinzione tra nucleari e spaziali, nella percezione critica esterna indipendente dalle ragioni di gruppo, e la intuizione lucida della “velenosità” dell’atteggiamento pittorico di Peverelli – il termine è speso proprio per lui – e compagni, rispetto alla predilezione dello studioso per il “contatto, non soltanto dell’occhio, ma di tutto l’essere, con la consistenza della natura”, riconoscibile, a Milano, in un Morlotti o in un Chighine. Del resto, ostacolo insormontabile a una comprensione più partecipe era il rifiuto fondamentale di Arcangeli nei confronti della cultura surrealista, oltre al più epidermico fastidio per le estroversioni comportamentali di figure come Crippa.   

5. Dylan Thomas, Poesie, a cura di R. Sanesi, Guanda, Parma 1954. Notevole è, sulla cultura milanese più avvertita del tempo, il peso carismatico della presenza di Elio Vittorini: ma assai vivo e progressivo è il ruolo della rivista “Aut Aut”, che esce da inizio decennio, e della cerchia che ha per epicentro anche organizzativo Enzo Paci, con fitti scambi tra arte letteratura estetica. Di Paci è cruciale l’uscita di Tempo e relazione, Taylor, Torino 1954. Sanesi in quel tempo è anche curatore, sintomaticamente, dell’antologia Poeti americani (1950-1956), Feltrinelli, Milano 1958; inoltre, proprio dal suo incontro con Schwarz, editore di punta oltre che gallerista, nascono T.S. Eliot: Poesie minori, Schwarz, Milano 1955, Poesia inglese del dopoguerra, ibidem, 1958, e B. Péret, La poesia surrealista francese, a cura di R. Sanesi e T. Sauvage, ibidem, 1959. E’ curioso osservare inoltre che un’altra edizione di Thomas (Poesie giovanili, Il Triangolo, Milano 1958) sarà curata da Sanesi e illustrata da Dova.

6. E. Tadini, Cesare Peverelli, catalogo, Galleria del Naviglio, Milano, 1957.

7. J. Laude, Cesare Peverelli, catalogo, Galerie du Dragon, Paris, 1957

8. Lunga è la collaborazione con Michel Butor, da Répertoire 1, 1957-1960, 12 testi di Peverelli e 54 disegni commentati da M. Butor, Fata Morgana, Paris 1972, a Le rêve de l’ombre, Nouveau Cercle Parisien du Livre, Paris 1976, dalle illustrazioni per M. Butor-R. Koering, Elseneur, Les Bras nus, Paris, 1980, a L’office des mouettes, Editart D. Blanco, Genève 1984 ; cfr. inoltre I. Calvino, Altre città, in Peverelli. L’atelier de l’artiste, catalogo, Musée d’’Art Moderne de la Ville, Paris, 1976. La citazione di Peverelli è in Entretiens Peverelli-Restany, in Peverelli. L’atelier de l’artiste, cit.

9. A. Jouffroy, Peverelli, in XXX Esposizione Internazionale d’Arte, catalogo, Biennale di Venezia, 1960.

10. F. Russoli, Cesare Peverelli, catalogo, Galleria Milano, Milano, 1964.

11. P. Waldberg, Cesare Peverelli, catalogo, Galerie Le Point Cardinal, Paris, 1962.

12. G. Limbour, in Cesare Peverelli, catalogo, Palazzo Reale Sala delle Cariatidi, Milano, 1972.

13. C. Peverelli, Disegni per Salomé, catalogo, Galleria Annunciata, Milano, 1979. L’artista ragiona a lungo di musica anche in On revient toujours, in Cesare Peverelli. Ritratti dal 1968 al 1984, catalogo, Circolo della Stampa, Milano, 1984.

14. R. Penrose, Picasso: His Life and Work, University of California Press, Berkeley 1981.

15. P. Waldberg, Cesare Peverelli. Immagine  e pittura, catalogo, Centro Annunciata, Milano, 1976: testo che s’apre con la citazione da Plotino “L’anima non è nel mondo ma il mondo è nell’anima”; C. Peverelli, Rituale, catalogo, Gastaldelli arte contemporanea, Milano, 1979: l’artista vi ipotizza la derivazione delle proprie cellule strutturali dalle touches cézanniane, in una sorta di ribaltamento dal massimo di concretezza corporea al massimo di demateriazione mentale.