Corpo, ancora
Corpo, ancora, in Il ‘900 scolpito. Da Rodin a Picasso, Museo del Corso, Roma, 28 ottobre – 4 febbraio 2001, De Luca, Roma 2001
Scelsi dunque a partire da allora / delle forme più primitive / delle forme parzialmente rettilinee / che permettessero d’attirare intercettare includere dei movimenti / e delle idee che s’avvicinassero all’ / immagine umana (Hans Arp)
“…la scultura! Confessa che è ben divertente e molto facile o molto difficile: molto facile quando si guarda alla natura, molto difficile quando si vuole esprimere un po’ misteriosamente in parabole, quando si vogliono trovare delle forme… Il tuo amico definisce questo con la parola: deformare. Devi avere sempre davanti a te i Persiani, i Cambogiani e un po’ l’arte egizia. Il grande errore è l’arte greca, per quanto bella essa possa essere”. Così scrive Paul Gauguin.
E’ curioso un tempo nel quale l’arte greca può essere ridotta a “grande errore”. Curioso perché di un fraintendimento non meno grave essa era affetta, in quei decenni, quello dell’accademismo, della santificazione della classicità a paradigma dal quale nessuna deroga era possibile. Accademici non erano, certo, né Antonio Canova né Jean-Baptiste Carpeaux, ma ciò che in loro si leggeva era, piuttosto che la rielaborazione in fondamento di stile, la stabilizzazione ordinata e normativa di un gusto.
Il punto tuttavia non è questo. Guardare alle arti extraeuropee, khmer o egizia – e sarà poi, a Parigi, la scoperta straordinaria delle culture africane e australi al Musée de l’Homme – significava per la scultura riannodare, scontata ogni superfetazione retorica, il filo profondo con l’unico paradigma da ritenere come incontrattabile, la figura umana, il corpo, quell’unità di misura della forma stessa che fa antropologicamente – mito o religione, matematica o magia – della scultura il doppio del nostro pensarci al mondo.
Ebbene, è quell’identità fondamentale del corpo che lo scultore del Novecento cerca, al di là di ogni retaggio di somiglianza stucchevole: che la sua via sia quella del ristabilire l’unità organica profonda che rende l’opera un creato la cui generazione è equivalente a quella dell’uomo, oppure quella del calcolare il canone sorgivo della misura (misurare è tradurre in convenzioni l’ampiezza di un passo, la larghezza delle braccia aperte, la statura, infine), oppure ancora quella di purificare da ogni incrostazione il concetto stesso di somiglianza.

Martini, Dedalo e Icaro, 1938
Questo cerca Gauguin, ma con lui per altra via Rodin, e Degas, e Brancusi, e Matisse, e Picasso, e Maillol, e Bourdelle. Per dire con le parole di Medardo Rosso, è la lotta contro chi “fa assegnazione solo sulla steccata abile e sul cincischio della materia cercando di ottenere un effetto più simpatico ma superficiale”, contro chi si contenta di descrivere, ma lavora su una pelle, non comprendendo più, appunto, le ragioni del corpo.
Agisce, in quel cambio cruciale di secolo, un altro ordine di questioni di grande momento. Ne è emblema il Mahoudeau del romanzo L’opera, di Zola, vittima a un tempo della difficoltà tecnica della scultura e della predilezione del pubblico per l’arte d’ameublement: egli è comunque una figura a parte, nella schiera dei personaggi, perché il suo problema è la tecnica, il mestiere, la disciplina, prima ancora del linguaggio plastico: e il suo grande fantasma la retorica del monumento che frustra l’ansia di far nascere un corpo femminile vero.
E’ la stessa retorica monumentale a sovrapporre l’esigenza iconografica alla sostanza plastica, e dunque a rendere il processo formale dell’organismo una pura stilizzazione d’apparenze. Il soggetto rappresenta, e rappresenta qualcosa che fonda altrove il suo valore. Se pensiamo che, per stare al caso italiano, più generazioni di scultori sono cresciute intorno a occasioni come il Vittoriano, le celebrazioni garibaldine, quelle dei caduti in troppe guerre, quelle dei maggiorenti della politica e di un paio di regimi, con l’unica alternativa della peraltro inevitabilmente orientata committenza ecclesiastica; e se a tutto ciò aggiungiamo che sotto ogni latitudine essere scultore è altro dal voler essere pittore, implica un fondamento artigianale, un armamentario tecnico e operativo tanto forte da indurre inevitabilmente il mito della maestria della mano, non potremo che concludere che la scultura, fatta forte e insieme vittima della propria alterità, ha dovuto intrattenere rapporti tutti particolari con la modernità così come con la tradizione, svolgendo i propri ricercari in tempi e modi propri.
E’ certo pensando a questo aspetto che Arturo Martini scrive che la scultura è una ”lingua morta che non ha volgare, né potrà mai essere parola spontanea fra gli uomini”, anche se “solo stringendo la creta, uno scultore autentico può dare scultura”. Perché “lingua morta” è la statuaria, l’idea corrente e banalizzata della bella forma che ha senso solo perché ne rappresenta un’altra: non la scultura, che è nascita oscura e autonoma, che fa essere al mondo corpi autorevoli e compiuti come quelli che la natura genera.
Il corpo umano non è, né più deve essere, unità di misura della forma, e piuttosto fondamento antropologico di un fare che si sappia motivato: sia questo motivo il dar concretezza, ritrovando la catena d’atti del Creatore della Genesi e con hybris sottile, a una sostanza capace d’un’anima, oppure celebrare, attraverso la nascita delle fattezze, l’atto creatore. Forse è questo, in chiave più laica, ciò che l’estetica di Bosanquet (1915: e la data è significativa) indica come embodiment, questo ciò che Antonio Banfi (1947: mesi dopo le riflessioni radicali di Martini) indica come farsi dell’opera, vero e proprio processo di generazione in cui è contenuta la sua stessa libertà.
Rispetto al fervido dibattito internazionale, la cultura italiana presenta ragioni ulteriori di tipicità. Perché partecipa della modernità ma, non avendo visto maturare un autentico e consistente milieu d’avanguardia intorno al tentativo isolato del futurismo (del resto, gli stessi ragionamenti scultorei di Boccioni sono assai meno antitradizionali di quanto Marinetti avrebbe auspicato…), intrattiene con la tradizione un rapporto meno segnato dall’antagonismo, e più da una prospettiva consapevole del proprio retaggio, della responsabilità storica ed etica che l’accettazione di quell’identità comporta.
Marino, e per altri versi Giacomo Manzù, ragionano sugli esempi grandi dell’antico, su una “rinascenza” resa possibile dal rispetto complice che il faber moderno può intrattenere con la tradizione. Dell’ “uomo di virtù” dice Marino; e Manzù scrive nel 1937: “Lascio il mio spirito libero a tutte le forme del bello e posso così emozionarmi davanti a un’opera greca, d’un primitivo come davanti a una cera di Rosso”. Lucio Fontana muove da questo orizzonte, quello segnato dalla modernità complessa dei Bourdelle e dei Wildt, per rendere omaggio continuo a Bernini del pari che a Brancusi, e giungere alla sintesi folgorante delle Nature, veri semi di forma pronti a schiudersi e generare. Precisa d’altronde Arp, per tracciare il senso di una modernità che non sia distruzione di codici, ma creazione fondamentale: “Non vogliamo riprodurre, vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto e non riprodurre. Vogliamo produrre direttamente e non transitivamente”.
E’ Manzù, d’altronde, a dirci che il rispetto complice che la disciplina instaura riguarda il passato, ma anche il futuro: in una lettera all’amico Bertocchi sinora inedita scrive, il 17 marzo 1943: “Ti vorrei dire che a me piace e stimo lo scultore Leoncillo Leonardi che sta a Roma in via Emanuele Filiberto 57, ho visto un S. Sebastiano molto bello”. Il primo Leoncillo eccita espressivamente la forma, la pensa anche colore, tanto quanto d’una diversa accelerazione espressiva è responsabile Antonietta Raphaël, con quel suo plasticare fratto, concitato, che porta nella scultura italiana lezioni non meno antiche, e tutte nordiche. Sarà d’altronde proprio Leoncillo a inverare lo “stringere la creta” di Martini, quando annoterà nel proprio diario che la scultura può essere “un nuovo oggetto naturale che divenga con stratificazioni, solchi, strappi che sono quelli del nostro essere, che esca come il nostro respiro. […] E la creta diventa materia ‘nostra’ per gli atti che compiamo su essa e con essa, atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione, motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo”.
Solo apparentemente dissimile è la via che porta alla creazione della Costante uomo di Fausto Melotti, 1936, Essa non è immagine, e neppure, a ben vedere, canone alla greca. E’ misura interna d’una idea plastica che si vuole forma vera in spazio vero. E’ l’intuizione che l’idea stessa di scultura è l’idea del métron umano che si fa organismo, per equivalenza e rassomiglianza genetica. E’ il punto di sintesi perfetta in cui la cosa mentale, quella che l’Alberti diceva commensuratio, diventa forma, e corpo: forma e corpo insieme storico e metafisico.
Anche quando, all’apparenza, i corsi del secondo dopoguerra porteranno a esperienze di morphologies autres (così Tapié), tutto ciò mirerà ancora a trovare, tra cielo e terra, un passo corporeo che valga davvero da doppio dell’umano, siano le figure ieratiche e disperate di Alberto Giacometti, le cui dita, testimonia Butor, “stanno cercando le ossa dietro la pelle, il cranio e le vertebre, e anche tutto lo scorticato, muscoli e nervi” con scavo inflessibile, sino alla consunzione/fissazione della somiglianza estrema; oppure siano le déesses di Jean Dubuffet, o le statue-stele – così amo pensarle – di Arnaldo Pomodoro.

Klein, Antr. 136, 1960
Sino agli estremi. Il corpo che si fa impronta fisica, senza mediazione che non sia convenzionale, nelle Antropometrie di Yves Klein, oppure addirittura opera, nelle Sculture viventi di Piero Manzoni. All’opposto, la formatività sorgiva, l’originario, il creare in fondamento, grazie alla “terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore Geremia, alla Terra-Madre che partorisce i figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio e a quella che imprigiona l’ombra delle farfalle” che è stata la matière première di Nanni Valentini.
Infine, il nostro corpo e quello della scultura, la statua e la stele: e l’orizzonte.