Prampolini genetico, in Prampolini. Dal futurismo all’informale, catalogo, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 25 marzo – 25 maggio 1992, Carte Segrete, Roma 1992

Il 7 aprile 1946, in “Domenica” usciva un articolo di Prampolini intitolato Perché difendo Picasso. Non ha rilevanza cruciale rispetto al corso conosciuto delle riflessioni e delle sperimentazioni dell’artista: ma è, a mio avviso, introibo perfetto a un ragionamento intorno alla fecondità sua per così dire “indiretta”, agente negli spessori e nelle trame del contesto e del dibattito d’arte al di là delle opere, ritrovabile nelle vicende e nei corsi dell’opera altrui.

Il Picasso di Prampolini non è infatti, a quei giorni, quello mitologico e strumentale del picassismo italiano, engagé, politico, linguisticamente letto ancora entro i codici e i confini d’una idea mimetica (di mimesi estrema e discrepante, e prioritariamente morale, scrive taluno) e concettualmente transitiva dell’arte. E’ la quintessenza stessa dell’avanguardia, invece: la fede del moderno nel moderno, del linguaggio nel linguaggio, dello stile, anche, nello stile: e soprattutto, in un ruolo esemplare dell’artista che non sia ritualmente testimoniale, separato, e insieme neppure omologato a ragioni eteronome, ma che tragga dignità, necessità, qualità, dal pensarsi figura pienamente storica in quanto interprete criticamente attivo, dialettico al mondo, a partire da un’autonomia rivendicata e incontrattabile. Inoltre, e non è elemento secondario, è l’indicazione che la responsabilità e la contrattualità mondana dell’arte risiede nell’essere primariamente comunità intellettuale, aperta, progressiva: non ecclesiale, bensì – e la lunga maturazione della radice futurista è qui distillata –laicamente sociale, in modo rigoroso fino alla provocazione.

Il Picasso di Prampolini è, in altri termini, la figura dell’artista genetico, che non opera in modo genialmente romantico, e la cui importanza risiede non solo in ciò che produce, ma anche – e verrebbe da dire soprattutto – nelle modificazioni che provoca in seno all’intero tessuto delle pratiche d’arte, del gusto, della mentalità: e che è esempio d’atteggiamento oltre che di lavoro. E’, per concludere, ciò che Prampolini, che non si sente futurista perché si sente in toto attore della modernità (e Gesamtkunstwerk è in modo compiuto questo stesso pensiero dell’arte, prima d’ogni risultanza) vuole essere e sa di poter essere, in prima persona, all’interno della difficile transizione degli anni Quaranta e Cinquanta.

La più precisa e appassionata testimonianza sul valore di Prampolini come promotore e come riferimento carismatico non passivo dei corsi del moderno, è in un testo che Piero Dorazio gli ha dedicato in occasione dell’antologica a Todi, nel 1983. Dorazio, tra gli ultimi ad aver assaporato ancora fragranti i furori non astratti di quella fede avanguardistica, della consapevolezza che l’“italianità” di Prampolini e compagni era cosa ben diversa dai mille travestimenti e dai mille alibi del provincialismo, rimemora, certo, i fatti concreti, che sono ormai noti a tutti. C’è la pubblicazione, per i fascicoli del Secolo, di Picasso scultore e soprattutto di Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?), manifesti d’un sentimento della modernità e, più, d’un sentimento della libertà, allora davvero folgoranti: e proprio un testo oggi storico di Dorazio, La fantasia dell’arte nella vita moderna, può dirsi senza remore figlio diretto di quelle illuminazioni.

C’è l’attività dell’Art Club, prosecuzione dell’antica Casa d’Arte Italiana fondata con Recchi, in cui Prampolini non solo offre il proprio prezioso patronage alle leve nuove e progressive, come pure farà (penso alla Quadriennale del 1948, alla Biennale del 1952) rendendosene garante non ideologico, ma agisce più puntualmente da promotore in senso addirittura maieutico, creando occasioni altrimenti impossibili e facendo consapevolmente da reagente ad aggregazioni, prese di posizione, scommesse e avventure del nuovo. 

Ma ricorda, Dorazio, anche la lezione silenziosa dell’atteggiamento, che è ciò che in quegli anni di guerre fredde culturali, di clericalismi critici, forse ha contato più d’ogni altra cosa. “Prampolini è stato per noi giovanotti di provincia, l’unico modello d’artista ‘europeo’ che viveva a Roma (Severini viveva anche a Parigi)”, scrive Dorazio. E ancora: “C’era un’intesa fra gli artisti europei moderni che la mia generazione ha ereditato e che cerca tuttora di mantenere viva. In questo senso Prampolini è l’artista che da Roma ha contribuito di più alla continuità, alla vivacità e alla qualità della partecipazione italiana alla vita artistica europea”.

Prampolini, Fissioni d'immagini, 1951, particolare

Prampolini, Fissioni d'immagini, 1951, particolare

Da questo modello generale, da questo esempio non proclamato ma vissuto quotidianamente, attivamente, con l’understatement un po’ candido e non personalistico, incommensurabile agli strategismi dei tempi nostri, che era tipico di Prampolini, sono discesi, a ben vedere e con il senno di oggi, molti dei nutrimenti non mediocri e non caduchi dell’arte progressiva del secondo dopoguerra.

Se era possibile pensare a un Picasso non ortopedicamente proiettato sul fantasma equivoco di Guernica – e i Taccuini pubblicati ora alla Galleria Civica di Modena da Enrico Crispolti e Gabriella De Marco stanno a confermarlo, nella distanza radicale dai coevi esercizi nostrani – e soprattutto se era possibile contaminare fervidamente quel materiale problematico con le altre ricchezze della tradizione moderna, dal dadaismo –il dadaismo costruttivo, soprattutto, schwittersiano: si pensi all’incubazione d’una vicenda come “L’esperienza moderna” di Gastone Novelli e Achille Perilli – al neoplasticismo, e soprattutto con la tensione all’integrazione delle arti, scenografia tipografia architettura e quant’altro, era perché Prampolini, artista totale per antonomasia, era la dimostrazione vivente che l’avanguardia vera non era, come troppi predicavano, teoricismo fondamentalista ed esclusivo, ideologia accecante, ma davvero avventura e gioco del possibile, nitore dell’intelletto ma rigoglio della fantasia, apertura e non chiusura, interrogazione e non asserzione.  

Era, per intenderci, l’humus sul quale crescevano Dorazio e  Turcato, Accardi e Consagra, Colla e Burri, Mannucci e Perilli, Nigro e i numerosi artisti non operanti a Roma, ma pure avvinti, per i mille legami della cultura, al risk and game d’un agire libero, energetico, saporosamente impuro, fondativamente sperimentale, che risultava allora non a caso insopportabile a tutti coloro, santoni della nuova ufficialità compresi (certi superciliosi rigoristi milanesi e certi astratto-concreti accomodanti, per esempio), che non riuscivano a intendere l’arte se non in termini confessionali, di autolimitazione paludata e vacuamente seriosa. Del resto, ciò che più era difficile intendere di Prampolini era la sua eccentricità rispetto alla malintesa idea circolante di arte di tendenza, quel dubbio (dubbio altrui, naturalmente) di eclettismo, di polypragmosyne; e la laicità allora e per lungo tempo indecifrabile, e la curiosità, lo sperimentalismo non solo delle mani ma anche e prioritariamente della mente, che rendevano lui e tutti coloro che ne seguivano l’esempio incodificabili, inamministrabili nel teatro mediocre delle tendenze. Se può valere un confronto, non è certo una coincidenza se un altro grande artista genetico di quegli anni, Lucio Fontana (che, filologie a parte, personalmente considero il più autentico prosecutore della casata dei Balla e dei Prampolini), per molti versi fosse letto e vissuto alla stessa stregua, sospetto ai vessilliferi del rétro come ai predicatori dell’ortodossia d’un nuovo di facciata, quasi sempre malinteso, spesso consapevolmente frainteso.

Di Prampolini agiva, nel dibattito più sano e avvertito, la consapevolezza che un pensar grande e un far grande non potevano prescindere da una coscienza planetaria, internazionale senza retoriche, dell’ambito artistico e della sua relazione mondana, alla società, al gusto. Che era l’unica declinazione possibile d’un essere “italianissimi e modernissimi”, d’altronde, l’unica che non si riducesse a un trasognamento astorico.

Contava, poi, il rapporto non complessato né mitizzante con la tecnica e la scienza, che alimentava una riflessione non “di serra”, aperta al dubbio e all’errore, sovente contaminata e di saporosa strumentalità, ma mai arroccata entro le sicumere d’uno specialismo spaventato. Ugualmente, l’intendimento dello specifico disciplinare e linguistico della pratica d’arte si manteneva aperto a ogni figura e formula del possibile, ma avendo esorcizzato ogni residuo dell’antico estremismo antitradizionale, antiartigianale. Semmai di Prampolini, come in altro modo di Schwitters, conta per la generazione nuova la capacità di metamorfizzare l’antico abito del faber in quello dell’operatore che riflette sulla sostanza e la motivazione del fare, comunque esso si configuri, piuttosto che sulla modalità in sé. Da ciò consegue una metamorfosi profonda dell’idea stessa di stile, sradicato definitivamente, e per la prima volta nella cultura italiana, dalla filigrana formalistica, e intestato invece su una formazione energeticamente aperta, fluida, variante, organicamente e congenitamente vitale dell’immagine.

E’ tutto questo, prima ancora che il materiale strettamente operativo – che pure da Prampolini transita cospicuamente nelle operazioni nuove – a farne un modello agente su uno spettro non ristretto e non contingente di riflessioni artistiche.

Il resto, la costruzione della forma per aggregazione non architettonica, l’uso sapiente di bilanciamenti puntuali anziché di gangli strutturali statici, la deroga continua e sottile al bon ton compositivo; l’idea di respirazione pulsante del colore, con forti equivalenze musicali nel registro dei timbri e delle scale tonali; lo scarto materia/materiale e lo specchiamento delle reciproche identità nel processo concettuale e operativo; il valore di concretezza plastica dell’opera montante dalla sua perfetta bidimensionalità, e insieme la sua natura di frammento nel continuum d’esperienza, che pure non ne sminuisce l’intima precisa congruenza e la costituisce in individuo a compiuta densità di senso: tutto ciò, e molto altro, sono le bausteine, le pietre da costruzione che Prampolini offre ai modi dell’arte delle generazioni del dopoguerra