Azimut
Azimut. Una storia (non solo) milanese, Palazzo Municipale, Vignate, 13 dicembre – 17 gennaio 1999
“Il bisogno di assoluto che ci anima, nel proporci nuove tematiche, ci vieta i mezzi considerati proprii al linguaggio pittorico; non avendo interesse ad esprimere soggettive reazioni a fatti o sentimenti ma volendo il nostro discorso essere continuo e totale escludiamo quei mezzi del linguaggio (composizione e colore) che sono sufficienti solo al discorso limitato, alla metafora ed alla parabola, e che si rivelano gratuiti allorché si consideri che, sollecitando per la loro multiformità una scelta, pongono una problematica spuria e non essenziale allo sviluppo dell’arte.
Il solo criterio compositivo possibile nelle nostre opere sarà quello non implicante una scelta di elementi eterogenei e finiti che, posti in uno spazio finito, istantaneamente determinano l’elaborato al punto da togliergli irrimediabilmente la possibilità di qualsiasi ulteriore sviluppo che non sia sul piano prettamente grafico o solo metaforicamente spirituale dell’evoluzione delle forme nello stesso limitato spazio, scelta che di altro non testimonia se non della vanità di chi per averla fatta se ne compiace; ma il solo che, attraverso il possesso di un’entità elementare, linea, ritmo indefinitamente ripetibile, superficie monocroma, sia necessario per dare alle opere stesse concretezza di infinito, e possa subire la coniugazione del tempo, sola dimensione concepibile, metro e giustificazione della nostra esigenza spirituale”: Enrico Castellani, Continuità e nuovo, in “Azimuth”, 2, 1960.
“La questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire). Questa superficie indefinita (unicamente viva), se nella contingenza materiale dell’opera non può essere infinita, è però senz’altro indefinibile, ripetibile all’infinito, senza soluzione di continuità; e ciò appare ancora più chiaramente nelle ‘linee’; qui non esiste più nemmeno il possibile equivoco del quadro; la linea si sviluppa solo in lunghezza, corre all’infinito; l’unica dimensione è il tempo”: Piero Manzoni, Libera dimensione, in “Azimuth”, 2, 1960.
“Il verificarsi di nuove condizioni, il proporsi di nuovi problemi, comportano con la necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure; non ci si stacca dalla terra correndo e saltando: occorrono le ali; le modificazioni non bastano, la trasformazione dev’essere integrale. Per questo noi non riusciamo a capire i pittori che, pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro, come se questo fosse una superficie da riempire di colore e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. […] Perché invece non liberare questa superficie? Perché non cercare di capire che la storia dell’arte non è storia di ‘pittori’, ma bensì di scoperte e innovatori? Alludere, esprimere, rappresentare, astrarre sono oggi problemi inesistenti. Forma, colore, dimensioni non hanno senso: vi è solo per l’artista il problema di conquistare la più integrale libertà: le barriere sono una sfida, le fisiche per lo scienziato come le mentali per l’artista. Dada Maino ha superato la ‘problematica pittorica’: altre misure informano la sua opera; i suoi quadri sono bandiere di un nuovo mondo, sono un nuovo significato; non si accontentano di ‘dire diversamente’: dicono cose nuove”: Piero Manzoni, Dada Maino, Padova, 1961.
“Penso che solo nella variazione un oggetto mostri il suo aspetto e ponga in evidenza il suo carattere uscendo dall’uniformità dello spazio da cui è circondato, infatti attraverso la componente temporale noi facciamo esperienza della realtà che non è possibile esprimere nella sua pienezza in simboli formali statici. Sintomatico di ciò che spontaneamente le facoltà ricettive dell’occhio sono attente verso ciò che è in movimento. […] Da tempo ho cominciato a stabilire sul piano del ‘quadro-oggetto’ dei dislivelli, in modo che l’occhio dello spettatore, scorrendo sulla superficie, fosse costretto a salire e scendere da spessori, ad entrare e uscire da cavità indagando gli aspetti che la luce in naturale variazione determinava nel quadro. Solo nei quadri che ora espongo un autentico variare si attua contemporaneamente a quello dell’occhio (e dell’umore) dell’osservatore. Do oggi ai miei quadri delle possibilità che si attueranno solo nella velocità in un ordine di successione imprevedibile, così il turbarsi dell’uniformità di queste superfici potrà rappresentare un vero e proprio sorprendente dramma”: Gianni Colombo, in Miriorama 4, 1960.
Otto mesi di attività, tra il dicembre 1959 e il luglio 1960, due uscite d’una rivista. A esser notarili, la vicenda di Azimut – senza acca finale la galleria, con acca la rivista – si può racchiudere, in nudo metro quantitativo, entro questi termini avari. Testimonianza perfetta d’una dote, l’intensità intellettuale e la capacità autentica di nuovo, che le avanguardie simulate d’oggi hanno addirittura rinunciato ad avere.

Castellani, Superficie seta, 1960, particolare
Azimut dunque. I suoi furori un po’ astratti un po’ incisivi, i suoi testi dotati di fumus teorico ora faticato, ora folgorante; i suoi paradossi comportamentali di piglio dada trascorrenti talvolta in assai meno serioso e aulico paneronismo (1); le sue intuizioni capaci di travalicare gli esiti stessi delle opere, e le opere nascenti, per mai più così lucido hasard intellettuale, a tracciare confini ulteriori di un universo del possibile dei quali ancor oggi non non s’è compiuta l’esplorazione. Azimut è il picco energetico che si produce in seno a un ambiente artistico, e a una stagione, tra i più vivi del secolo tutto. E’ il prodotto, possibile, necessario, di una rete di tensioni e squilibri di dibattito della quale tien conto tracciare almeno le linee fondamentali.
La fisionomia esteriore è quella di una delle molteplici waves che aggiornano, anche da noi, il meccanismo dell’arte nuova. Contrapposizione portata più verso le avanguardie vicine che verso gli standard di gusto dominanti, una rete fitta tanto quanto volontaristica e cangiante di relazioni con ambienti internazionali affini, gusto della minoranza (ma senza l’esclusività snob che in seguito inquinerà la ragione stessa dell’avanguardia), radicalismo e positivo estremismo intellettuale, assunzione d’un patronage in chiave non epigonistica, ma di carisma etico.
Azimut è una variante forte, oltre che la mutazione definitiva, della politica dei gruppi ereditata dall’avanguardia storica. Il “nemico da abbattere” non è tanto il lombardismo venato d’Ottocento che domina il gusto cautelato dell’ufficialità milanese (in questa chiave, e indipendentemente da valutazioni qualitative, va letto il primato carismatico dei Carrà e dei Tosi), quanto la retorica della modernità che incardina l’habitus (2) dei nuovi facitori di gusto. L’addomesticamento dell’informale nella sua dominante veste arcangeliana ma, più, le declinazioni d’international style che maturano tra le Triennali e “Domus”, eredi dell’utopia anni Trenta di sintesi delle arti e della mediazione sul gusto immaginata da Bauhaus, vengono assunti come dimostrazioni che il bon ton estetico è in grado, nonché di continui aggiornamenti suggestivi, di un proselitismo che lo radica ancor più saldamente nella coscienza collettiva: fatto, questo, che il radicalismo concettuale da cui muovono Manzoni e compagni sa leggere come effettivo avversario teorico.
Per vie differenti, diverse prospettive di contrapposizione vengono a maturazione, e l’aggruppamento di Azimut ne diviene l’interprete più lucido. Ancora un anno prima Manzoni, che della vicenda è certo il motore primo, firma con Enrico Baj e Sergio Dangelo “Il gesto”, rivista dall’orizzonte postsurrealista con forti retaggi di dada storico; e si muove liberamente in una fantasmagoria di aggregazioni mobili, contrassegnate non tanto da affinità ideologiche, e tanto meno dal comune gusto superficiale per comportamenti esistenziali irregolari, quanto dal convincimento saldo della necessità di deroga, sino al dissolvimento, della nozione comune e corrente di artistico. Beninteso, il dire “cose nuove” in luogo di “dire diversamente”, così Manzoni, ha per campo di scontro il compound separato del professionismo artistico, come dal decennio successivo si verificherà, ma in pura attitudine strategica, per ogni formulazione avanguardistica. E’ proprio la sfera dell’habitus, del gusto e della capacità sua di simbolizzare una concezione di vita, il territorio nel quale tuttavia questa avanguardia nuova intende portare infine la propria azione deviante: come sempre, figlia ribelle d’un padre, l’international style appunto e la sua cospicua declinazione nostrana identificata in M.A.C. e dintorni, al quale pur deve molte delle delle proprie ragioni formative.
“Il gesto”, “Phases”, “L’Esperienza Moderna”, “Appia Antica”, eredi aggressivi nella seconda metà dei Cinquanta di quell’effort moderne: e a fianco di quelle riviste (nella più schietta tradizione di intendimento della rivista, e della produzione di documenti e manifesti, come vessillo avanguardistico: fatto, questo, che renderà Antonio Maschera tipografo in via Palermo un vero e proprio compartecipe di Azimut) una congerie di segnali che dicono di un’incubazione fatta di distillazioni progressive di un’area di ricerca in seno all’inquietudine collettiva. Del 1957 sono la personale memorabile dei monochromes di Yves Klein all’Apollinaire, la mostra di Manzoni, Verga, Sordini da Pater e la loro presenza in seno alla mostra dei Nucleari al San Fedele, e una collettiva al bar Giamaica costruita intorno all’attivismo di Manzoni. L’anno successivo ecco la personale di Dadamaino dai Bossi, una collettiva al Prisma cui partecipano tra gli altri Colombo e Dadamaino, una da Pater con Biasi, Bonalumi, Castellani, Manzoni, Rumney, Swan e un’altra alla quale si aggiungono tra gli altri Calos, Fraquelli, Gracco, Recalcati, Sordini, Verga: sempre da Pater, ecco il doppio trio Bonalumi, Castellani, Manzoni e Manzoni, Sordini, Verga. Ancora Bonalumi, Castellani e Manzoni sono nel 1959 al Prisma e, a Roma, all’Appia Antica, mentre Anceschi, Colombo, Boriani e De Vecchi sono da Pater (3).
Questo attivismo configura, nella stagione di incubazione di Azimut, una sorta di precisa consapevolezza in negativo. Un rifiuto nitido del rigorismo concretista – del quale pure assume l’aniconismo radicale e un valore fondativo di asciuttezza formale – e insieme una sorta di compressa distillazione della lezione autre – con riflessioni non banali su esempi forti, Pollock in testa: da lui Castellani deriva, per mutazioni, la nozione di concretezza fisiologica del segno e del campo – della quale si svaluta nettamente il versante tecnico, il rischio di stile (Contro lo stile titola un documento fondamentale sottoscritto nel 1957 da una fitta compagine di giovani (4) ) e si valorizza in modo netto la componente di pragmatismo esistenziale, di hic et nunc esperienziale e fabrile, decidendo di trarne tutte le estreme conseguenze intellettuali e teoriche.
La logica, tuttavia, non è quella del proselitismo esteso. Il periodo 1957-1959 vale come una sorta di transito in cui gli autori si riconoscono più per comuni differenze che per affinità in positivo. Il momento della fondazione della rivista, e dell’apertura della galleria, rappresenta la fase dell’affermazione di distinzioni nette, e della volontà di formulazione anche di standard intellettuali spendibili attivamente, con preciso e forte intento strategico: a cominciare da un distacco brusco dalla prevalenza “milanese” dei riferimenti, in favore di una spinta circolazione internazionale, peraltro allora assai più fisiologica di quanto oggi si possa pensare, avvertita come inderogabile (e certo sulla scorta dell’esempio del più maturo Nuclearismo (5) ).
Il primo numero della rivista porta la firma di Castellani e Manzoni, e le Linee di Manzoni inaugurano la galleria. Da Bonalumi a Verga e Sordini, gran parte dei legami della stagione di incubazione vengono recisi o allentati, con forte mutamento dell’orizzonte di affinità e commilitanza.
La galleria Azimuth si apre in via Clerici 12, in uno spazio messo a disposizione dall’architetto Franco Buzzi, il 4 dicembre 1959. Alla mostra delle Linee di Manzoni fanno seguito la collettiva con Anceschi, Boriani, Castellani, Colombo, De Vecchi, Maino, Manzoni, Mari, Massironi, Pisani, Zilocchi (22 dicembre); La nuova concezione artistica con Castellani, Breier, Klein, Holweck, Mack, Manzoni, Mavignier (4 gennaio 1960); la personale di Castellani (5 febbraio); la mostra Massironi, Moldow, Oehm, Uecker (fine febbraio); la personale di Mack (11 marzo); la personale di Mavignier (5 aprile); la mostra del gruppo Motus (aprile); la personale Corpi d’aria di Manzoni (3 maggio); la collettiva Biasi, Breier, Castellani, Ganci, Landi, Mack, Maino, Manzoni, Massironi, Mavignier, Moldow, Motus, Pisani, Santini (25 maggio); ancora Biasi, Breier, Castellani, Landi, Mack, Maino, Manzoni, Massironi, Mavignier, Motus, Pisani, Santini (24 giugno); la personale di Manzoni Consumazione dell’arte dinamica del pubblico, divorare l’arte (21 luglio).
Dunque, dell’area italiana solo le figure più strettamente impegnate nella direzione che poi si identificherà, nel 1961, in Nuova Tendenza, un forte accento sulla vicenda tedesca di Zero, e i francesi di Motus, antesignani del G.R.A.V. (6): Singolare, e precocissima, è la corrispettiva scelta di plurilinguismo della rivista. Dal punto di vista delle scelte di campo, una poggiatura più netta sull’operatività inemotiva d’eredità bensiana, quasi a bilanciare l’indubbio primato carismatico del vitalismo agonico di Manzoni.

Manzoni, Merda d'artista, 1961
Del resto, la Nuova concezione artistica – titolo d’una delle mostre e del secondo numero della rivista, ma in qualche modo slogan dell’intera operazione – può essere letta come radicalizzazione, da parte degli artisti più lucidi, dell’esigenza di una modificazione che non investa solo la generica nozione d’artistico, ma più latamente il campo strategico tutto della pratica d’arte. Cosa della quale si rende ben conto, per paradosso saporoso, il critico del “Corriere della Sera” Leonardo Borgese, che il 16 dicembre 1959, stroncando la mostra delle Linee, intuisce oscuramente, dalla sua slontanatissima postazione, il valore ultimativo di queste mozioni.
In altri termini, ciò che si intuisce è che, trascolorando inevitabilmente il valore di engagement eteronomo che aveva contrapposto a un’ufficialità “borghese” e “passatista” un’arte antagonista nei contenuti – il realismo, del quale la declinazione di “realismo esistenziale” in auge va mostrando l’impasse profonda – ma sostanzialmente omologa nelle forme; ed essendo altrimenti ambigua la pretesa venata d’utopico del concretismo, d’asserragliarsi in una preventiva (e perciò parimenti eteronoma) purezza formale; stante ciò, la soluzione da prospettarsi, quanto meno in modo problematicamente vivo ed energetico, è non un’ulteriore partita secondo le regole dell’arte in corso, ma un mutamento del campo stesso della partita, e delle regole possibili.
E’ ben chiaro che tale separatezza esasperata comporta in prima istanza l’estraneizzazione definitiva del pubblico, messo in scacco insolubile nelle proprie aspettative d’artisticità: ma questo concentrarsi del game di un’avanguardia contro la retorizzazione dell’avanguardia stessa, questo antagonismo ultimo portato tutto all’interno dello statuto professionale dell’arte, può ben rappresentare l’unico modo di spezzare la catena di accrediti reciproci e di omogenei superamenti cui sino a quel momento il secolo aveva offerto il placoscenico, in nome di un malinteso avvicendarsi nel potere culturale.
Mutato lo statuto stesso dell’arte, azzerata la perversione storica dell’ansia di potere culturale insita nell’avanguardia (le vicende di poi mostreranno che dagli anni Sessanta la nozione di avanguardia come potere culturale uscirà, ahinoi, semmai rafforzata), attuato il ruolo dell’artista come intellettuale capace per scelta solo di una esemplarità critica – questa era la lezione profonda, il filo rosso dipanantesi da Duchamp a Klein …, era immaginabile che anche un pubblico, affine per identità culturale profonda anziché per conforto di gusto, si sarebbe riformato ex novo.
Non che, beninteso, la concezione di una opposizione interna alle logiche già esclusive dell’avanguardia sia una novità. La novità vera è la sua non sistematica totalità, che investe la figura dell’artista in quanto figura mondana e intellettuale, il processo artistico come fatto tecnico e processo mentale, lo statuto di senso dell’opera e la sua percezione mondana, nella divaricazione soggettività/oggettività dell’autore e del lettore: sino ad interrogativi estremi – le vide e la cosa, la mitologia e il simbolo, l’identità stabile e la fluenza insensata nell’esistente… Il tutto, va sottolineato con forza, per via di opere, non confidando prioritariamente negli ormai già troppo abusati abbigliamenti teoricistici, e tanto meno in improbabili sciamanesimi rituali.
Castellani e Manzoni, e al loro fianco coloro che firmano la rivista e coloro che espongono, scelgono l’arte, tutta l’arte, come matter, mai astraendosene, mai sottraendosi a una pienezza d’esperienza che preferisce l’errore alla correttezza, l’eccesso alla precisione. Che tale sia il quadro d’insieme, almeno nelle linee decisive, è detto dalle differenze profonde, oltre che dalle continuità, che si riscontrano tra l’uno e l’altro dei due numeri della rivista.
Forte di una copertina di Cecco Re che rimarrà invariata nei due numeri, stampata da Antonio Maschera, in entrambi i numeri la rivista porta la dizione “a cura di Enrico Castellani – Piero Manzoni” e l’indirizzo di via Cernaia 4, Milano, che è l’indirizzo di Manzoni.
Le ultime pagine del primo numero portano le promozioni della galleria Blu di Palazzoli, Milano, della Kasper, Losanna, della Trastevere di Topazia Alliata, Roma, della Salita di Liverani, Roma, e della sodale galleria del Prisma, Milano. Le riviste pubblicizzate sono “Appia Antica” di Villa, “Notizie” di Pistoi, “Panderma” di Laszlo, “Das Kunstwerk”, “Direzioni” di Fabrizio Mondadori, “Le Arti” di Marussi. Sul secondo numero scompare la promozione delle gallerie e resta una pagina di “riviste consigliate”: dal primo elenco sopravvivono solo “Appia Antica” e “Panderma”, e ad esse si affiancano “Plus”, “Art actuel”, “Nota” e “Zero”, in una prospettiva più compatta e internazionale.
Il primo numero, 1959, è ascrivibile a una fase ancora di progressiva separazione dall’ambito di variegato superamento dell’informale in cui Azimut affonda le radici. I testi che vi appaiono sono di Gillo Dorfles (“Comunicazione” e “consumo” nell’arte d’oggi), Guido Ballo (Oltre la pittura, un omaggio a Fontana), Elio Pagliarani (Frammenti dal Narciso), Vincenzo Agnetti (I°: non commettere atti impuri), Kurt Schwitters (Una definizione di Merz), Bruno Alfieri (Automatismo, sperimentalità, circo equestre), Leo Paolazzi, poi più noto come Antonio Porta (da: Europa cavalca un toro nero), Antonino Tullier (un testo poetico), Nanni Balestrini (Innumerevoli ma limitate), Francis Picabia (Francis Picabia. Paris, I mais – sic – 1921), Yoshiaki Tono (Spazio vuoto e spazio pieno), Samuel Beckett (Accul), Albino Galvano (Le tigri impagliate), Carl Laszlo (Avanguardia?). Notevole vi è la ricca presenza di testi poetici della neoavanguardia, un po’ come accade nell’affine per molti versi ”Esperienza Moderna” di Perilli e Novelli, il dichiarato patronage di Fontana, la presenza di riferimenti distribuiti tra il M.A.C., la cultura orientale e l’eredità dadaista, oltre alla polemica nei confronti dell’ufficializzazione mondana dell’informale. Anche il repertorio delle illustrazioni svaria da eccezioni segniche all’art autre, prevalenti, e più decise mozioni neodada: nell’ordine figurano Johns, Fontana, Rauschenberg, Megert, Angeli, una pagina blu di Klein, Dorfles, Giò Pomodoro, Schwitters, Castellani (con un’opera “a fili”), Rotella, Arnaldo Pomodoro, Bonalumi, Holweck, Manzoni (un Achrome a riquadri), Mack, Tinguely, Fischer, Kemeny, Piene, Wagemaker, Romijn, Manzoni (una pagina di lettere dell’alfabeto), Schoonoven, Dahmen, Sanders, Bohemen, Schumacher, Tajiri, Pieters, Novelli, Piene, Rossello, Dorazio, Manzoni, Estienne, Dangelo, Marotta, Lora, Pena.
Se il primo numero mostra una situazione ancora in bilico con il diffuso – e confuso – postinformalismo, è con il secondo, fungente da catalogo della mostra La nuova concezione artistica inaugurata il 4 gennaio 1960, che il panorama si chiarisce definitivamente. I curatori vi si presentano anche come autori di testi: Castellani di Continuità e nuovo, Manzoni di Libera dimensione. Gli altri scritti sono di Udo Kultermann, direttore dello Städtisches Museum di Leverkusen, Una nuova concezione di pittura (nel maggio 1960 Kultermann aprirà a Leverkusen la mostra Monochrome Malerei), e di Otto Piene, L’oscurità e la luce. Le illustrazioni riguardano solo gli artisti presenti in mostra.
Tipograficamente il numero appare più sofisticato e “pensato” della prima uscita, e porta anche un’indicazione di prezzo, 300 lire: sintomo, forse, di ulteriori e più durevoli ambizioni. E’ nei testi di Manzoni e Castellani, parzialmente riportati all’inizio, e assai più nelle loro opere (Castellani presenta due vaste Superfici a rilievo, Manzoni una Linea, un Corpo d’aria e due A-chromes – così la dizione pubblicata) che il salto di qualità si fa netto. Qui appaiono, enunciati con nitore inequivocabile, i caratteri forti della nuova concezione artistica. Un’oggettività che non intende riportare l’opera tra le cose del mondo, ma restituirle una non metaforica fisicità che la consegni ad un approccio sensibile preciso, concreto, incarnato in un’idea infine laica e propria di materia e di visione. Una assolutezza (di assoluto parla esplicitamente Castellani) che risiede nella pienezza sensibile e mentale dell’operare, con una centralità di presenza dell’autore che trascende la nozione corrente di soggettivismo perché ne rappresenta un compimento impadroneggiabile da parte del soggetto stesso. L’opera, compiuta – non per via di congruenza stilistica, ma per ratio operativa – ancorché esteticamente indifferente, contiene tutto il soggetto che se n’è fatto attore e insieme si è da esso distaccata, non conservandone le tracce mortali di paternità. E’ frutto della totalità attiva, senziente e pensante dell’autore, ma è in sé totalità, e individualità, altra, che vive nel mondo distinguendosi in forza del proprio statuto oggettivo di necessità, definitivamente sottratta alla menzogna convenzionale dell’artificio. E’ prodotto di un fare che non si progetta, procedimento autocritico non metodo acclarato, ma che si conosce e si sa facendo, esperienza così cruciale – nella dichiarata particolarità – da assumere a sé la condizione stessa del vivere, dell’esistere. E’ presenza, opera nel mondo perché opera del tempo: il tempo preciso del fare, la durata indeterminata. E’ blankness perché è chiarezza mentale, che non ha bisogno di abbigliarsi del meretricio sensibile del colore; che stabilisce nella realtà concreta un accidente forte, discontinuo, ma fatto altro in forza della propria identità, non di concessioni convenzionali.
Questo, Azimut. Come ha scritto acutamente Meneguzzo (7), si è trattato di un entr’acte, intermezzo e passaggio, tra decenni, tra esperienze: ma assai più interessante del tempo prima e del tempo dopo della vicenda dell’avanguardia.
1. Ispirata alla figura proclamata patafisica del Paneroni, è stata questa giocosità, mai intaccante la straordinaria lucidità operativa, ad alimentare una tenace e fuorviante mitologia, in chiave bohémienne, che circonda soprattutto la figura di Manzoni.
2. Si assume il termine nel significato specifico delineato da P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 1983. Quanto ai valori di gusto che si incrociano nella Milano degli anni Cinquanta, cfr. F. Gualdoni (a cura), Lucio Fontana e Milano, catalogo Museo della Permanente, Milano, Electa, Milano 1996, in cui si tentava di leggere il carisma forte dell’artista sulla base delle diverse assunzioni di gusto rese possibili dalla sua opera.
3. Una cronologia dettagliata, oltre che una ricostruzione climatica dell’ambiente milanese del periodo, è in F. Gualdoni (a cura), Milano 1950 – 1959. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1997.
4. Il manifesto è firmato nel settembre 1957 da Arman, Enrico Baj, Bemporad, Gianni Bertini, Jacques Calonne, Stanley Chapmans, Mario Colucci, Dangelo, Enrico De Miceli, Reinhout D’Haese, Wout Hoeboer, Hundertwasser, Yves Klein, Theodore Koenig, Piero Manzoni, Nando, Joseph Noiret, Arnaldo Pomodoro, Giò Pomodoro, Pierre Restany, Saura, Ettore Sordini, Serge Vandercam, Angelo Verga. Vi si legge tra l’altro: “Noi affermiamo l’irrepetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come presenza modificante in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze”. E’ leggibile in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Schwarz, Milano 1957.
5. Sulla vicenda nucleare cfr. G. Anzani (a cura), Arte nucleare 1951 – 1957. Opere testimonianze documenti, catalogo Centro San Fedele, Milano, 1980
6. Su questi aspetti cfr. L. Vergine (a cura), L’ultima avanguardia. Arte programmata e cinetica 1953 –1963, catalogo Palazzo Reale, Milano, Mazzotta, Milano 1983.
7. M. Meneguzzo (a cura), Azimuth e Azimut. 1959: Castellani, Manzoni e…, catalogo Padiglione d’arte contemporanea, Milano, Mondadori, Milano 1984. Si tratta a tutt’oggi della più completa ricostruzione della vicenda, arricchita dalla ristampa anastatica dei due numeri della rivista. Cfr. inoltre R. Damisch – Wiehager (a cura), Zero Italien. Azimut / Azimuth 1959 / 1960 in Mailand. Und heute, catalogo Villa Merkel, Esslingen, 1995. Per un inquadramento più vasto, A. Negri – C. Pirovano, Esperienze, tendenze e proposte del dopoguerra, in La pittura in Italia. Il Novecento / 2, Electa, Milano 1993. Utili documenti anche in A. Bonito Oliva – A.C. Quintavalle (a cura), Enrico Castellani, catalogo Università di Parma, 1976; F. Gualdoni, Dadamaino, Beatrix Wilhelm, Leonberg 1983; F. Battino – L. Palazzoli, Piero Manzoni. Catalogue raisonné, Scheiwiller, Milano 1991; V. Fagone, I Colombo, catalogo Galleria d’arte contemporanea, Bergamo, Mazzotta, Milano 1995.