Melotti
Disegni di Fausto Melotti, in Arte italiana del Novecento. 1930 – 1960: trentaquattro autori dalla A alla Z, Milano, Electa 1999
Quando, nel 1967, Fausto Melotti tiene alla galleria Toninelli di Milano la seconda mostra personale, oltre trent’anni dopo quella d’esordio alla galleria del Milione, non è più solo uno dei vecchi maestri dell’astrattismo nostrano.
La sua condizione di poeta della scultura, la sua lucidità fantastica, hanno schiuso definitivamente nuove vie, dal punto di vista linguistico e stilistico.
Da quel momento, sempre più fitto sarà il cursus delle mostre melottiane: in pressoché ognuna delle quali, è importante osservare, a fianco delle sculture figura una ricca compagine di disegni, intesa come parte integrante, non accessoria, del suo modo di raccontarsi al pubblico.
Mostre esclusive di disegni, Melotti ne terrà poche, tutto sommato. Segno, beninteso, non di disinteresse, e semmai del suo considerare in modo effettivamente paritetico le visioni incarnate nella scultura, e quelle alitanti nella miriade di fogli che hanno punteggiato il suo lavoro.
Solo disegni, risalenti agli anni Trenta, sono esposti da Martano, Torino 1971; nel 1974 disegni e incisioni, tra le quali l’Alfabeto di Cristina, parallelo all’Alfabeto di Lina appena edito da Sciardelli, alla galleria dei Bibliofili, Milano; al disegno sono dedicate la personale al Museo Butti di Viggiù, 1981, alla galleria Spatia, Bolzano, e al Millennio, Roma, l’anno successivo: che è anche quello di Un anno di Melotti, in cui da ottobre l’artista per dodici mesi presenta, all’Arco di Giuseppe Appella, sempre a Roma, tutta la sua produzione grafica di quel tempo.
Ma folti nuclei di fogli sono anche, sin dal 1968, alle personali al Segno, Roma, da Notizie, Torino, e alla Sala Comunale di Reggio Emilia; trenta disegni sono alla personale al Museum am Ostwall di Dortmund, 1971, e ben cinquantotto l’anno dopo nell’antologica torinese alla Galleria Civica; nel 1976, quarantaquattro fogli sono nell’antologica alla Pilotta di Parma, e quarantasei tre anni dopo in quella di Palazzo Reale a Milano: ottantotto saranno al Forte Belvedere di Firenze, nel 1981, e via discorrendo.
Insomma, questo un po’ ragionieristico, seppur sommario elenco, indica eloquentemente quanta importanza Melotti attribuisse, nell’economia creativa del suo lavoro, alla pratica del foglio: un’importanza datante alla sua prima stagione felice, gli anni Trenta, e poi mai svalutata, anzi amplificata negli anni della maturità.
La ragione è, primariamente, di dimensione espressiva. Il senso stillante e perfetto delle apparizioni plastiche che caratterizzano la sua opera; quell’aura postmetafisica sospesa e straniata nel tempo e nello spazio; il dipanarsi d’una figuratività fantasiosa (fantasia è termine ispido e rischioso, per l’arte del nostro secolo: ma a pochi come a Melotti s’attaglia con naturalezza) e filtratissima, in cui schegge di geometria astratta e di decorazione, di biomorfismo e di narratività, s’intrecciano in pari responsabilità formale, in un mondo rappresentativo altro; il disconoscimento continuo, lucidamente ostinato, della condizione materiale, corporale, delle immagini, in favore d’un loro pieno essere figure disustanziate viventi tra mente e artificio dell’arte, e dunque disegni spaziali (com’è anche, in seno alla stessa generazione, per l’amico di sempre Lucio Fontana, e per l’appartato Osvaldo Licini): tutto ciò fa dei filamenti metallici, delle reticelle d’ottone, dei brani di stoffe colorate e di carta, in cui si concretano le sculture degli anni maturi, l’equivalente espressivamente e qualitativamente esatto del correre della matita sul foglio, delle taches di tempera e dei veli d’acquerello. E lo spazio concreto, storico, della nostra condizione di lettura della scultura, se ne trova trasecolato, si sperde nell’assenza di ombre: quelle ombre che invece Melotti immette, con arguto arbitrio, nei fogli, ad annunciare e subito smentire l’originario codice rappresentativo del disegno grazie alla spesso assoluta implausibilità, statica e prospettica, che l’artista rivendica per sé.

Melotti, Senza titolo, 1985
Altre considerazioni, poi, occorre fare. I rari disegni superstiti della stagione primissima di Melotti, tra fine anni Dieci e anni Venti, dicono d’un Melotti che vuol farsi scultore, ma guardando alle asperità postmetafisiche di Carrà e alla spaziosità scenica di De Chirico, il “De Chirico magro”, con “luce da eclisse”, di cui scrive l’inseparabile cugino Carlo Belli, compagno delle avventure intellettuali di tutta la vita: e attraverso questi guardando al Martini più meditativo e terso, quello delle ceramiche saporosamente sintetiche e delle terrecotte.
Già nei fogli del 1926-27, di fatto, nascono i teatrini, e le sottilmente visionarie messe in scena strutturali, fatte d’elementi plastici sintetici che paiono più figli delle notazioni musicali (ed è ben noto quanto, per influenza ambientale e per vocazione personale, la musica conti, nel ragionare artistico di Melotti) che del campionario dell’architettura, da cui discende il neopitagorismo poetico delle sculture degli anni Trenta, ma anche il nucleo concettuale delle opere degli anni dai Sessanta agli Ottanta.
Inoltre, è proprio nel disegno degli anni Trenta, in piena stagione astratta, che la dimensione progettuale la quale all’apparenza caratterizza la grafica di Melotti si rivela artificio puramente retorico, volto ad ogni sorta di ribaltamento e felice travisamento, in un continuo deviante specchiamento tra ciò che la scultura, nel foglio, può essere, e ciò che, concretandosi nei limiti della materia e dello spazio fisici, non può per forza essere.
Ancora. Il lungo periodo di assenza di Melotti dalla scena espositiva, dedicato prevalentemente all’opera d’artefice ceramista, gli consente di riflettere, in parallelo con Fontana, sul fondamento stesso della cultura del decorare, e su valori – dall’iterazione all’ad libitum – che egli può naturalmente connettere alla ragione musicale cui aspira nell’arte visiva: la logica nitida della forma che emerge dai disegni del quaderno di Repertorio della ceramica, anni Cinquanta, è assolutamente illuminante, soprattutto per quello svolgere in deviante sistematicità il rapporto tra simmetria e asimmetria, con, scrive Gio Ponti, “uno spirito ritroso e divertito come il suo, che ama i numeri dispari e le forme disuguali”.
Sussiste dunque una sorta di circolarità, concettuale ancor prima che tematica, in tutta l’opera di Melotti, dagli esordi alla fine. Meglio, un’intuizione precocissima della questione chiave d’un’arte come quella che egli svolgerà, la quale ritorna ciclicamente nel suo lavoro, per ondate d’approfondimento e di svolgimento, per reiterati picchi d’esplorazione e d’invenzione.
Riconoscere a tale attitudine un fondamento anacronistico, di deliberata e rivendicata inattualità, è dunque doveroso: ma avendo l’accortezza di ricordare che Melotti, nella sua radicale antiretoricità, riconosce in tale attitudine l’unica forma di modernità possibile, l’unica dotata di necessità e destino, l’unica, nel suo laicismo sapienziale, non grevemente compromessa con mondanismi e cerebralismi stucchevoli, per lo più d’occasione.
Da tale attitudine discende, inoltre, la continua rivendicazione che Melotti fa d’un altissimo e rigorosissimo dilettantismo, contrario non solo al virtuosismo della mano, ma anche alle affettazioni “brillanti” dell’intelligenza: dilettantismo che si traduce, in lui, nell’uso tecnicamente ineccepibile ma linguisticamente variabilissimo dei mezzi, e in una polipragmosyne d’eco saviniana che lo vede musicista, scrittore, decoratore, pittore, scultore, incisore, in pari dignità e impegno intellettuale.
Fatto salvo, dunque, lo iato – cronologico assai più che concettuale – tra i disegni degli anni Trenta e quelli dagli anni Sessanta in poi, è dunque pressoché impossibile tracciare una periodizzazione credibile del disegno di Melotti.
Appare, semmai, più sensata una verifica per tipologie, d’approccio e di svolgimento.
Melotti congegna, spesso, un disegno di passo progettuale, il più direttamente riferibile, in pelle, alla scultura. Le articolazioni strutturali si dipanano nitide, i passaggi di piano sono prospetticamente indicati, la statica rispettata. Tuttavia, frequentemente Melotti pone in contraddizione l’immagine rispetto al contesto spaziale: lascia fluttuare le sue strutture sul bianco del foglio, sottraendone l’appoggio, oppure del piano d’appoggio fa un elemento scenicamente contraddittorio e disorientato, in taluni casi addirittura svolto, come una partitura decorativa, su un codice di lettura seccamente bidimensionale. Le ombre portate, poi, appaiono e scompaiono da foglio a foglio, né sempre, deliberatamente, il loro registro è unitario.
In altri casi, l’innesco espressivo è una condizione narrativa, svolta in forma schematicamente scenica: qui gli elementi referenziali, benché altamente caratteristici – si tratti di vaghe shapes antropomorfe e zoomorfe, oppure delle sue ineffabili barchette, di dolcemente stereotipi soli e lune… – s’intersecano con organismi totalmente fantastici, oppure con tòpoi geometrici come la sfera, l’ovale, la spirale.
Anche in questo caso, elemento evidentissimo è il continuo scarto prospettico fra bidimensione e tridimensione, in una sorta di neoplasticismo in dissoluzione metafisica. E l’arbitrio prospettico dà luogo anche all’opposto, a contesti di suggestione tridimensionale che si rastremano in pure tarsie grafiche, di dichiarata ascendenza decorativa, perfettamente planari.
D’altronde, ed è un altro caso ancora, in più d’una serie di opere è lo schema del catalogo, sovrapposto a quello della regolare partitura decorativa, il pretesto primario: ciò vale tanto per l’iterazione con variazioni di motivi geometrici, quanto per l’assunzione di codici esplicitamente convenzionali, come l’alfabeto, che vengono sottoposti sia a stranianti accelerazioni sul piano della trattazione decorativa – l’insistenza quasi calligrafica sull’arabesco, sull’infiorettatura – come su quello dell’evidenza plastica, grazie a suggestioni di profondità, di illusori e periclitanti passaggi di piano.
In altri casi ancora, il movente è apertamente descrittivo, con più marcato impulso affettivo, e la scrittura si fa abbreviata e intensiva, in una sorta di all-over che di nuovo, kleianamente, svolge un’“astrazione con qualche ricordo” di forte tensione poetica. Soprattutto gli acquerelli, i carboncini, le tecniche miste nati negli anni Cinquanta, nel momento di massima attenzione di Melotti per il codice pittorico, e proseguiti poi con periodica regolarità (anche nel non banale equivalente scultoreo delle formelle di gesso con inserti sia plastici sia pittorici), appartengono a questa sommaria categoria, e s’estendono a una serie di dilavate figurazioni d’estro metafisico, a matita e acquerello, degli anni Ottanta.
Come si può ben vedere, anche questa categorizzazione, in fondo, ha implicazioni ragionieristiche mal corrispondenti al proprio oggetto, la grafica melottiana. Che è libera, radicalmente libera: ad essa, dunque, il meglio è abbandonarsi in perfetta, libera confidenza, dell’occhio e dello spirito.
Nota
La bibliografia specificamente dedicata al disegno di Melotti comprende i seguenti titoli: M. Fagiolo, Progetti di Melotti 1932-1936, Torino 1970; C. Pirovano, Melotti/ ottantotto disegni, Milano 1981; F. Gualdoni – M. Meneguzzo, Fausto Melotti. La dimensione del disegno, catalogo, Viggiù 1981; Fausto Melotti, Trentatre disegni, Roma 1982.
Un compiuto regesto bio-bibliografico è G. Appella, Fausto Melotti. Vita, opere, fortuna critica, in Melotti, catalogo, Matera 1987.
La citazione di Gio Ponti è in L. Licitra Ponti, Melotti, Ponti, Domus, in Melotti, cit.
La citazione di C. Belli è da Parigi 1937, Roma 1980.