Afro. Opere su carta 1939 – 1969, catalogo, Gallerie Bergamini e Tega, Milano 1994.

“Io lavoro, e da questo lavoro nasce altro lavoro”. Sono parole di Afro, che meglio non potrebbero dire della fatica lenta e ombrosa, serena e severa; della operosità lucida e metodica che ne ha segnato l’attività per tutta la vita.

Luogo appropriatissimo di questa sua laboriosità è l’opera su carta, di gran lunga l’aspetto quantitativamente più rilevante, e qualitativamente per nulla secondario rispetto alla pratica pittorica, tanto da fondersi intimamente con essa in più d’una stagione.

Ciò accade tanto nel tempo primo del suo arco espressivo, che potremmo con qualche ragione dir concluso nel 1950, quanto nei successivi anni di strepitosa maturità, trascorsi, senza mutar d’attitudine, da protagonista della scena internazionale.

La lunga stagione di formazione, e chiarificazione problematica e stilistica, di Afro, prende avvio negli anni Trenta. Si sa dei suoi rapporti precoci con il Corrado Cagli “antichista” e stillante stilismo, a Roma, e insieme di quelli con giovani come Renato Birolli e Ennio Morlotti, nei non occasionali soggiorni milanesi.

Il progetto, la volontà, etica al di là d’ogni vocazione formale, d’uno stile in grado di farsi carico dell’ipoteca della tradizione, ma insieme delle ansie, anche, d’una espressività aperta e non più introversa, urgente e diretta non per via d’eloquenza e di retorica, matura dal doppio registro problematico che tali incontri esemplificano.

In lui, inoltre, entrambi i moventi dimorano su una formazione schietta e severa d’artigianato artistico derivantegli dalle tradizioni famigliari, e perfettamente incarnata, anche nei decenni a venire, dai fratelli Dino e Mirko. Il lavorare sull’iconografia dell’antico, e il possedere tutti i fondamentali tecnici del mestiere dell’arte, è per Afro assolutamente naturale: più, egli dal mondo spesso mal inteso ma tutt’altro che banale della decorazione apprende prima di tutto il valore di quella sorta di calvinistica continuità e intensità dell’impegno, che non abbisogna né degli abbigliamenti rutilanti della genialità né delle retoriche esclamative dell’artista “costruttore”, e che è pressoché sconosciuta nei pur riflessivi anni Trenta nostrani.

Afro disegna molto, da subito. Dapprima sono prove a matita e a carboncino, e talora nitidi monotipi eseguiti con carta carbone, che hanno a pieno titolo valore di studi. Sono non ortopedici d’après, e trattazioni di genere –  ritratti, nature morte, modelle… – in cui è palese il suo sforzo primo di appropriarsi d’una ragione dell’’immagine, della sua cedenza formativa prima ancora che visiva. La corsività di certi tratti, insieme l’intensificazione espressiva di certe nervature grafiche, dicono, negli anni Trenta ma soprattutto nei primi Quaranta, d’un meticoloso processo di selezione e messa a punto del nucleo problematico primo della sua pratica artistica: d’un trovarsi, meditato e precisato, prima ancora d’offrirsi alla lettura altrui.

Tali delibazioni espressive del soggetto lo conducono, inevitabilmente, a far parte della compagine di Jungen italiani attratti da Picasso e dalla cultura cubista, ovvero dall’idea stessa di modernità, di spazio topologico, di ratio costruttiva della forma: e insieme, per taluni, di engagement.

Afro sfuma, secondo l’appartatezza un po’ ritegnosa che sempre s’intenderà nelle sue posizioni artistiche, ogni entusiasmo picassiano nella meno suggestiva, ma stilisticamente assai più ardua, disciplina braquiana, dalla quale egli deriverà, al di là degli echeggiamenti immediati, quell’attenzione al ton moyen, al valore del grigio e della dominante tonale “in minore”, che lo accompagnerà anche negli anni delle massime accensioni espressive.

C’è Braque, per lui, e c’è, insieme Matisse, la linea che allora si diceva “perdente”, per levità e gusto rabescante, dell’avanguardia. In Matisse, con singolare distonia rispetto alle letture critiche allora prevalenti, Afro intuisce il rigore di quell’essenzialità snudata, di quella adesione affettiva all’immagine, capace di sensuosità non spurie, che si traduce in un’economia formale di smagrita e insieme fastosa bellezza.

Afro, Comizio, 1966

Afro, Comizio, 1966

E c’è, assai probabilmente, a far da tramite storicamente plausibile a queste attenzioni che allora avrebbero potuto leggersi come distoniche, l’esempio di Severini, il cui peso sulla maturazione della generazione del dopoguerra non è stato, credo, mai valutato appieno: ma che mi pare trasparire con chiarezza in più d’un foglio, insieme a talune poggiature al clima astratto-surreale – da certo Klee a Schlemmer, a Prampolini, anche, per esemplificazione lata – dal 1948.

Sino a questo tempo, il concetto che Afro ha del disegno non differisce in nulla dal suo intendimento storico: dalla notazione corsiva e dall’intuizione germinale allo studio esecutivo, passando per i gradi plurimi del ripensamento e della messa a punto formale.

Con i 1950, e il primo dei lunghi soggiorni statunitensi, muta non solo l’orizzonte stilistico d’un Afro nel frattempo resosi perfettamente consapevole dei propri mezzi e dei propri orientamenti, ma anche il suo modo di affrontare le pratiche del foglio.

La folgorazione di Matta e Gorky, gli incontri successivi con De Kooning e con Kline, sono i tòpoi storicamente assunti per indicare la Damasco espressiva di Afro. Correttamente, ma a patto d’intendere che in realtà non d’una Damasco si tratta, e che la temperie urgente e agra della New American Painting s’incontra con un’attitudine già in quel verso orientata.

Afro, sin dalla fine degli anni Quaranta e dal montare, nelle file postcubiste, dell’ipotesi astratto-concreta, ha già ben chiaro che la fluenza automatica surrealista, quel suo comprimere e dilatare per dilavamenti emotivi lo spazio e la fisiologia dell’immagine, non è in nuce radicalmente in opposizione al pensare astratto: per lo meno, ove si intenda per astrazione qualcosa di meno metodicamente architettante e formalistico della declinazione che se ne dà in Italia: un’astrazione, insomma, fortemente intrisa di biomorfismo, come quella praticata negli anni Trenta da Fontana, e in genere dagli esponenti meno inclini all’ortodossia di Abstraction-Création.

Se così non fosse stato, d’altronde; se Afro non avesse trovato più la conferma, e la chiarificazione definitiva, essa sì illuminante, a un movente già deliberato, che una novità in grado di sconvolgerlo, assai probabilmente il suo lavoro si sarebbe alterato in uno scarto brusco di ricerca, e prosciugato in uno dei mille epigonismi di cui le vicende di quel tempo sono farcite.

Invece, Afro guarda a quelle frontiere espressive per allora inaudite provenendo da una formazione per molti versi congenita a quella degli autori d’Oltreoceano, anche se meno ricca di stimoli e conoscenze; e soprattutto, da uno spalto stilistico, di coscienza della forma e dell’arte, che non gli induce sensi di inferiorità e tentazioni imitative.

Certo, le opere su carta di questi, e degli anni a venire, mostreranno picchi di curiosità per l’opera di altri autori, talora ai limiti del d’après: ma sempre stemperati in un percorso fatto di passo dopo passo, elaborante, in cui l’assunzione di motivi estranei è considerata nourriture normale – un tempo erano gli esercizi dall’antico – in vista dell’innesco sul proprio saldo assetto concettuale e stilistico.

I “sismogrammi sensibili e scoperti dell’animo” (D’Amico) che prendono ad abitare i fogli e gli straordinari taccuini cui Afro affida la sua operosità, monastica e insieme di sperimentalità radiante, rappresentano l’esito più alto del “nuovo” Afro. Il quale prende a intendere la pratica stessa del disegno con una ampiezza problematica e tecnica inusitate.

Matita, carboncino, inchiostro: ma anche acquerello, e tempera, e stesure liquide d’inchiostro: e collage, e tecniche miste di saporosa contaminazione materica. Sono serie di fogli in cui, in una sorta di non consequenziale sistematicità, Afro passa dal nucleo genetico primo dell’immagine – saggiato, spesso, in una serie plurima di varianti: giocando con rigore scrutinante in controcanto con l’alea del tracciato automatico – alle sue specificazioni ultime, per via di approfondimenti e arricchimenti formali e di parallele decantazioni, sino al vero e proprio cartone esecutivo, figlio della sua non mai dismessa cultura di decoratore.

Oppure sono sequenze di immagini nate per dirsi, perfette in sè, nella condizione lieve della carta: talvolta microscopiche, riquadrate e ritagliate nel loro convenzionalmente improbabile minimo formato, in pari dignità concettuale ed espressiva con le più vaste opere pittoriche. Segno, questo, d’una distanza incolmabile tra l’europeo, l’italianissimo Afro, e i compagni di via statunitensi: per i quali è questione di size, misura (e valga, esemplare, la celebre frase di De Kooning sull’ampiezza delle braccia…), ed è incomprensibile la proporzione, il far grande che non conosce storicamente limiti metrici, dalla miniatura all’affresco.

Perdura, in questi anni, l’idea più storicizzata del disegno, nell’operare di Afro, ma anche s’affaccia la dignità paritetica che certe esperienze dell’avanguardia storica – il cubismo, ancora, il polimaterismo… – riprese dalla nuova arte statunitense, hanno affermato, e che si fondano sulla qualità specifica, tecnica e di senso, dell’agire in complicità con la carta.

In queste opere, Afro trova un passo dinamico, strutturalmente aperto, di crescita dell’immagine. Essa muove da una sorta di nucleo curvilineo introverso, o da un rappreso grumo geometrico, e matura fluidamente, come una proliferante nervatura strutturale, sino a decidere l’immagine: e il colore ora le è zonatura agonistica, che par ricucire la spaziosità lacera del campo visivo, ora complemento genetico, e, sia pur velata, disustanziata, materia fisiologica.

Afro mantiene aperta, apertissima, la sua partita di dare e avere con il mondo delle sensazioni, che è l’innesco primo delle sue crescenti escursioni, e il riferimento ultimo: palese nel persistere del métron antropomorfo, e d’un sia pur ansioso orizzonte, nella movenza accecata della mano che segna; così come nelle naturalezze meditative, talora melanconiche talora risonanti di sensuosità da pittura veneta, dei veli di ocra e giallo, e dei verdi e dei cauti azzurri, e degli atmosferici ineffabili grigi. Anche se, avverte Gabriella Drudi, “nulla è più oggetto del raffigurare”, ma tutto è atto identico e consapevole di pittura, intento autonomo e crescenza di senso sino alla plenitudine evidente.

Nei primi anni Sessanta, Afro saggia un più diretto coinvolgimento del gesto strutturante, e della materia pittorica, in luogo del cautelato vaglio emotivo precedente. Inspessisce le pennellate a tempera, e ne amplia la espansione sul foglio, per stratificazioni disorientate; oppure lascia che il segno tracciante si svolga largo e irritato, con bruschezza inusitata, in percorsi sovrapposti, seguendo una disincantata assenza di destino plastico.

Mira, ora, ad accelerare l’assertività dell’immagine per via di saturazione visiva, anche, e per asprezza urgente di formazione, facendo della sua antica sospesa atmosfera una sorta di caligine opaca, combusta. Ma si tratta d’un passaggio, che prelude a equilibri nuovi, ancora una volta meditativi, strutturalmente precisati ancorché improgettati.

Con gli anni, il segno – ancora duro e come inciso in una sorta di allentata fluidità – tende a semplificarsi, e a serrarsi di nuovo in un nucleo cadenzato e centrale, come frutto d’una accorata introversione emotiva e stilistica. Che ritrova un orizzonte ritmico, una distanza anche mentale, per scrivere shapes colorate, “ciottoli della solitudine, timbrati dal colore minerario della solitudine”. E’ l’Afro estremo.

Nota

Sulla formazione giovanile di Afro, e soprattutto sui suoi rapporti con l’ambiente romano, cfr. B. Mantura, Afro fino al 1952, cat., Spoleto 1987. L’analisi dello spettro delle sue attenzioni, dall’antico all’avanguardia statunitense, in B. Drudi, Percorso storico del disegno di Afro, in F. D’Amico, Afro. Il disegno, catalogo, Modena 1992: la mostra è la prima ricostruzione esauriente di tutto il percorso grafico dell’artista, e dal saggio introduttivo di D’Amico è tratta la citazione. Le citazioni di G. Drudi sono da Immagini di Afro, Roma 1986.