Pittori di luce. Il colore espressivo nella pittura italiana contemporanea, inedito, 1998

E’ soprattutto nel corso degli anni Settanta,  sotto la spinta della rilettura di fenomeni cruciali del dopoguerra come color field, hard edge, monocromia, da un lato, e di figure liminali come Agnes Martin, Mario Nigro, Robert Ryman, dall’altro, che l’indagine critica si orienta a privilegiare il momento riflessivo, di analisi sistematica delle nozioni e della pratica della pittura, rispetto a quello dell’espressivo e di un più affondato e complesso radicamento nella tradizione disciplinare e formale.

Agiscono in tal senso, certo, fattori come il rapido e generale accoglimento delle esperienze minimal e concettuali in termini più ampi delle loro stesse ideologie ed epifanie, e soprattutto il disagio d’identità che l’espansione mediale della creatività, le forzature e la messa in mora dello spessore disciplinare e delle specificità tecniche delle arti (sino alla mitologizzazione in sé dei new media), per non dire delle profezie di morte riguardanti l’apparato storico delle arti maggiori, immettono massicciamente nel dibattito.

In questo contesto, che riguarda parimenti la Germania, la Francia, l’Olanda, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la cultura artistica italiana gioca un ruolo insieme assai organico al dibattito internazionale, e di forte specificità e tipicità.

In altri termini, se è vero che la partecipazione italiana ai grandi momenti critici ed espositivi che segnano le fortune di queste esperienze è assai marcata e variegata – penso a “Prospect 73” alla Kunsthalle di Düsseldorf come a un plausibile termine d’inizio della fase cruciale, e all’edizione 1977 di “Documenta” come all’avvio della crisi d’interpretazione di quest’area come vero e proprio movimento – è altrettanto vero che una lettura dei maggiori esponenti italiani nei termini di ideologica “Analytische Malerei” o “Fundamental Painting” – cito di proposito i titoli di due delle maggiori mostre di quei tempi – e delle connesse teorizzazioni di Klaus Honnef, Catherine Millet, Rini Dippel, e altri, induce a un sostanziale travisamento della natura, e anche delle motivazioni e intenzioni, del loro operare.

Verna, Doppio azzurro, 1974

Verna, Doppio azzurro, 1974

Per quale ragione? Vanno rimemorate le maggiori manifestazioni che in Italia fanno emergere questo lavoro in tutto il suo spessore. “Iononrappresentonullaiodipingo” alla Città, Verona, “Tempi di percezione” alla Casa della Cultura, Livorno, “Glossario” all’Editalia, Roma, “Fare pittura” al Museo di Bassano del Grappa, “Un futuro possibile” al Palazzo dei Diamanti, Ferrara, “La riflessione sulla pittura” al Palazzo Comunale, Acireale, tutte significativamente del 1973, e poi “Geplante Malerei” nell’edizione del Milione, Milano 1974, dopo quella al Kunstverein di Münster, e “Cronaca” alla Galleria Civica, Modena 1976, e infine “I colori della pittura” all’Istituto Italo-Latino Americano, Roma 1976: in tutte, se da un canto è prevalente la sottolineatura del versante teoricistico, metodologicamente inflessibile, concettualmente preventivo, che è soprattutto il portato della necessità di corrispondere adeguatamente al dibattito internazionale, in cui le posizioni teoriche di Carl Andre e Sol LeWitt fungono da veri e propri paradigmi, è dall’altro pur vero che la presenza in più occasioni di artisti come Antonio Calderara o Piero Dorazio, esponenti d’una diversa e più antica storia e di una fondazione pittorica affatto non omogeneizzabile, o come Claudio Olivieri, per tutto quel tempo restato fedele, come testimoniano i suoi aforismi oltre che le opere, a una vocazione di espressività fondamentale, renitente a restringersi in apparato teorico e nominativo dicibile, indica che sin d’allora i termini della questione erano assai più ambigui e sfuggenti di quanto non si ritenesse di far apparire.

La motivazione di tutto ciò risiede in constatazioni oggi possibili e anzi necessarie, ma anche allora tutto sommato non impossibili.

Vi è, in primo luogo, una sorta di slittamento, critico e di accettazione,che riguarda talune personalità e situazioni maturate dagli anni Cinquanta, che solo un ventennio dopo sono apprezzabili nella loro compiuta complessità. Figure come Dorazio, Nigro e Calderara, ma anche Carla Accardi e Giulio Turcato, erano volute in precedenza esponenti di un’astrazione geometrica d’impronta classica, contrapposta polemicamente e schematicamente ai recuperi realistici d’impegno sociale di Guttuso e compagni: mentre solo in quel momento se ne legge lo spessore problematico – e con la loro, quella di maestri storici finalmente compresi, come Giacomo Balla e Osvaldo Licini – dal prestigio percettivo di Dorazio alla definitiva deriva poetica del colore di Turcato; e soprattutto si avverte come il codice di strutturazione geometrica sia in loro nulla più che strumentale, e tutt’altro che fondamentale.

In secondo luogo, si prende a riavvertire quanto dell’esperienza neodadaista e novorealista di Yves Klein, Piero Manzoni, Enrico Castellani e compagni, possa leggersi non in chiave di sperimentalismo, ma di più radicale interrogazione al valore di superficie, e alla nozione di colore, della cultura pittorica storicizzata: e in analogo modo a guardare a Lucio Fontana e ad Alberto Burri fuori dal succès de scandale che li imprigiona. 

Terzo, continua ad agire con non forte evidenza ma con intima strepitosa fertilità la lezione dubitante, ricca, mobile, indefinibile, radiante, di molte esperienze che la sclerosi delle definizioni d’area ha marchiato come interne all’art autre, all’informale, e che invece ne costituiscono già variamente, per somma di singolarità irripetibili, il momento di trapasso, e transito a un espressivo purificato, alto, sonante: penso a Jean Fautrier, a Wols, ad Afro, a Toti Scialoja, e per il loro tramite alle riletture di Bonnard e Klee e Mirò e Kandinskij, ovvero di una serie di figure genetiche riguardate fuori dagli schemi ortodossi e convenzionalizzati, in chiave di puro colore espressivo, di lirismo, di identità poetica prima che stilistica.

Olivieri, Al rogo, 1995

Olivieri, Al rogo, 1995

Ecco, la clausola critica per intendere il clima italiano di quegli anni, e gli sviluppi successivi degli artisti che ne sono stati protagonisti, risiede nell’intrecciarsi tra questi filoni principali, ed altri, meno cospicui ma talora non meno importanti: ad esempio, l’autonomo evolvere dell’area propriamente indicabile come di ricerca geometrica, fertilizzata da cromosomi op e dalle novità teoriche della psicologia della forma e della percezione, verso aperture insospettabili in sede di premesse storiche.

Questa mostra intende svolgere un ragionamento per figure esemplari su quella contingenza, in seno ai deliberatamente imperfetti confini generazionali rappresentati da Rodolfo Aricò, da un lato, e da Italo Bressan, dall’altro: incarnanti il primo uno dei casi di più precoce deroga dagli ambiti della situazione storica dell’astrazione, e il secondo quello, tra le personalità già pervenute a maturità in seno alla generazione dei quarantenni, di maggior radicamento, e a sua volta di eccezione, rispetto alla tradizione nuova della pittura. Figure, tutte, che s’è scelto di leggere negli esiti ultimi, ovvero per quanto il loro operare attuale, trascolorati ormai i formulari interpretativi omologanti in uso allora, dice non solo di quella scheggia specifica di passato, ma già e anche e soprattutto di un progetto, d’una scommessa, che vale una vita tutta.

Eccoli allora, Rodolfo Aricò, Claudio Olivieri, Claudio Verna, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Gottardo Ortelli, Paolo Minoli, Italo Bressan.

Non tutti, va sottolineato, accomunati dalla congiuntura delle mostre che allora s’indicavano, nella denominazione corrente italiana, di pura pittura: ma che con quella vicenda, per vie interne o esterne, per adesione o reattivamente, hanno fatto conti definitivi e importanti.

Aricò, Clinamen/Prometeo, 1982

Aricò, Clinamen/Prometeo, 1982

Pittori di luce, s’è scelto di indicarli, vuoi per un gioco lieve di rimandi, letterari e storici, a una vicenda immensa e cruciale tra le molte del nostro Quattrocento, vuoi perché, sottolineando tale non retorica e anzi amorevole adesione alla propria identità storica, si può giungere a cogliere il nucleo, vero artefice di continuità e novità insieme, di quest’arte italiana degli ultimi decenni. Che è, appunto, la luce, estensione e sostanza, e anima, di queste pitture tutte, al di là della fenomenologia delle modalità, di spazio, di forma, di colore, di atti. Luce, che è luce di pittura, d’immagine, ma primariamente di mente, e d’affetti: come quasi mai, va pur detto, nel corso dei controversi anni Settanta e Ottanta.

Contano, poste tali premesse, dunque più le posizioni singole, e gli eventi specifici della pittura, che non le affinità ideologiche, e il loro gioco reciproco, relativo e cangiante.

Cominciando, s’è detto, da Aricò, non per anzianità anagrafica, ma in quanto figura rara di superamento “per vie interne” tanto della cultura autre quanto delle retoriche dell’astrattismo di marca classica. Il suo lavoro di oggi, frutto d’una maturità solare ma ancora inquieta di domande ossessive alla pittura e ai suoi possibili, mantiene certi topoi del proprio passato: la sagomatura del supporto, pronta a contaminarsi con lo spazio fisico d’esperienza, in proiezione oggettiva, senza perder nulla della propria autonoma identità, e insieme quel muoversi del colore con piglio forte, orgoglioso, semplificato per grazia, che già nel passato nulla aveva dell’indifferenza e dell’indeterminazione di cui dicevano le esegesi: e che ora, a maggior ragione, oltre al sapore pieno dei toni fa crescere suggestioni ed echi simbolici, rimontanti alla tradizione più antica e aristocratica dell’arte.

Da non dissimili costole informali derivano le proprie più intime vocazioni Olivieri, Verna, Gastini, Ortelli.

Olivieri, dopo aver esplorato l’autonoma genesi dell’immagine nel colore/luce, dopo aver assediato la tela con la saturazione delle campiture larghe, serrate a chiudere la superficie ma insieme a constatare l’irrevocabile distanza e ineffabilità del luogo pittorico, in questi anni ci ha dato movenze più ampie e complesse, e un formarsi dell’immagine schiuso a uno spettro cromatico divaricatissimo: dal nero inquieto e sensuoso al bianco calcinato, accecato, passando per scarti bruschi e potenti di timbro. Anche la sua è una condizione ossessiva: che in lui riguarda l’impossibilità dell’immagine a dirsi senza conchiudersi in una determinazione mortale, e l’impossibilità del colore a contenere i picchi e le derive del senso, e la plenitudine affettiva che pur s’avverte, urgente, nell’ansimare delle stesure, nei toni disagiati che sanno d’antica Maniera.

Non da una nozione complessa di organicità pittorica, ma da una più stringente poggiatura naturalistica sono mossi i primi passi di Gastini, che l’ha distillata negli anni in una sorta di continuamente contaminata esplorazione della concretezza fisica del segno pittorico, e della geometria come metafora dell’orizzonte, dell’ubi consistam spaziale della forma. Ora, non solo la concretezza e la fisiologia dei segni/materie agisce senza  filtri e alibi teorici in lui, ma anche l’avvertimento sensuoso del gesto, e la capacità del colore di farsi clima, affettivo e luminoso, dell’immagine. Trascorre, semmai, la fedeltà preventiva al valore altro e autonomo dello spazio pittorico, facendo trapelare sempre più un’antica vocazione sculturale, fondamentale in lui: e la via, è quella della concretezza, dell’identità non transitiva dei gesti, dei segni, degli spazi, degli avvenimenti del suo operare.

Verna, invece, ha fatto in altri anni della geometria lo schema retorico, strumentalmente indifferente, entro cui interrogare la capacità della superficie pittorica di farsi pattern, pura e forte evidenza tra virtualità percettiva e concretezza fisiologica della forma/pittura. Ha instaurato una sorta di assedio del colore, tentando di reciderne lo spessore evocativo e allusivo, per farne lo strumento docile del proprio operare analitico. Ha maturato, infine, da quelle non tradite premesse, una imagerie che ritrova una condizione di naturalezza formale, una organicità, uno spessore di senso, che valgono come un discorso di pura poesia che, purificatissimo ormai, può di nuovo concedersi allo stupore della natura, dell’esistenza.

Ortelli, ancora: le cui ascendenze informali, pur decantate da anni di operazioni sulla natura della superficie colorata e del segno qualificativo – spinto a farsi ambigua cosa cromatica nell’ambiente – di riferimento geometrico, riemergono in una compressione turgida dello spazio pittorico, pronta alla dismisura, che s’avverte come un respiro premente, come una crescenza continua di toni, e timbri, fino a una sorta di collasso struttivo, e a un trascorrimento pienamente, definitivamente visionario. Sempre, permane in lui una situazione allarmata, instabile del colore, del quale contano i viraggi, i sottili spostamenti e le collisioni rispetto alle pienezze attese: a far di queste tele come dei prodromi d’un grande affresco possibile, d’una volta nel cui cielo abitino solo luci affocate e assorte.

Assai diverso è il corso di Griffa. Che si sceglie, da subito, un atteggiamento indiretto, straniato, renitente a ogni involvimento emotivo con la pittura, a ogni identificazione oscuramente soggettiva. E’ un atteggiamento che nasce dall’amore e dalla sfiducia: amore per l’arte, la sua storia, i suoi segni, e sfiducia nella possibilità di ritrovare la condizione sorgiva, prealfabetica del gesto pittorico, scevra dal formidabile peso storico che ognuno degli atti, dei segni, dei colori racchiude ormai in sé, nelle proprie stesse vocazioni. Ecco, dunque, l’iterazione di linee, impronte, indifferente in apparenza quanto in realtà scrutinante, come in continua auscultazione di ogni brivido minimo di senso: che si ridà ora, negli arabeschi e nelle stesure piene delle tele nuove, come calviniana chiarezza e leggerezza e trasparenza, anche a confronto con le retoriche stesse del decorare, con le riprese e le rimesse in questione di forme e modelli e stilemi forti, per evidenza carichi d’implicazioni colte.

Un’assunzione del metodo e dell’apparato retorico forte della geometria è anche in Minoli, che esplora dapprima i limiti delle condizioni percettive dell’immagine minimalizzata, e in seguito usa della struttura, ridotta a mera movenza convenzionale, come controcanto ritmico all’esperienza, analitica dapprima poi via via sempre più poetica, del monocromo. Non è una pratica che accolga le condizioni topiche della forma/pittura, tuttavia. Le forme, le apposizioni, le disseminazioni spaziali come in costellazione dei supporti moltiplicano, per continui effetti relativi, di consonanza o collisione, l’esperienza d’ogni singola immagine, in una sorta di approfondimento per seriazione che in realtà tenta per eccessi il punto di dissolvimento, di crisi del metodo come padronanza assoluta del processo.

Anche Bressan, con il quale si apre la generazione ulteriore, muove da un’attitudine metodica e distante che rimanda a Griffa, a Minoli, nella ricerca dell’identità del gesto, e della condizione topica della tela, soggetto pittorico e oggetto spaziale insieme. Ma ben presto ribalta compiutamente in proprio approccio, adottando invece il rettangolo storico della tela come ambito in sé ambiguamente concreto e metaforico, nel quale far accadere zonature stese per gesti forti e frementi, che collidono e serrano un assetto d’immagine per accumulazione, stratificazione, blocco quantitativo, consentendo così al colore di darsi per converso liquido, fluente, emotivamente irritato o intenerito.

Questi, dunque, gli artisti, figli tutti d’una non retorica “identità italiana”, e d’una vicenda le cui ricchezze forse solo ora prendono a mostrarsi in tutto il loro contorno.