Pietra dopo pietra, in Quadriennale anteprima, catalogo, Promotrice delle Belle Arti, Torino,18 gennaio – 21 marzo 2004, De Luca, Roma 2004

 “Stone after stone of beauty cast down / and authenticities disputed by parasites”. Ogni tanto prende la voglia di farsi apocalittici, come il Pound dei Cantos. Certo, un po’ diroccata si può intendere l’arte, almeno quella che passa il convento delle grandi mostre dell’ufficialità; e quanto ai parassiti, non vi è che la scelta.

Ma questa è una mostra di generazioni nuove, le quali van crescendo proprio nella consapevolezza che anche l’apparato istituzionale, il sistema di riferimento, è questione ineludibile di strategia e di concetto, forse la questione; perché lì, più che negli studi, si annidano i problemi. Sono generazioni che, nella logica perfetta degli Jungen, tentano, con cautela coraggio timidezza arroganza non sempre importa: tentano. Esplorano vie, ripercorrono vie che sono state ma forse ancora possono dire (ancora il poeta, Eliot: “What are the root that clutch, what branches grow”); parimenti, esplorano e ripercorrono mezzi.

Dunque, occorre guardare con occhio spoglio ciò che nasce, in prospettiva finalmente amplissima come questa mostra ha scelto, fatto salvo solo un criterio saldo di qualità probabile. E prendere a interrogarsi su cosa accada: chiedendosi insieme se possano, ancora, essere strumenti di lettura plausibili quelli che intendono decifrare tendenze, e orientamenti che si facciano tendenza, e quanto il corso infinito e incoercibile delle personalità singole sia, di tali orientamenti presunti, lievito necessario ma autonomo, sino al punto da potersene andare per i suoi fatti.

Tutti, inoltre, siamo naturalmente affetti dal gusto decennale, e ciascuno, more solito, è convinto di essere portatore del gusto. Occorre semplicemente esercitarne anche la consapevolezza, non dico con la giusta ironia, ma almeno con un grano di vecchio sano buon senso. Occorre, soprattutto, non farne vessillo ideologico, alibi d’un pensiero che in troppi casi ha cessato di esercitare le proprie facoltà critiche. Pare incredibile, ma persino il mondo della moda (intendo, la moda vera), al cui altare più o meno consapevolmente troppi sacrificano, ha cessato di giocare al nuovismo parossistico, e allo shibbolet, alla parola d’ordine che solo i pochi conoscono, del gusto unico: dunque, se possiamo fare a meno di un leninismo della mutanda, potremo ben essere più rilassati a proposito del pensiero unico dell’arte, in nome di un pensiero plurale sì, ma perché forte.

Scontato con giusta levità il gusto, messe da parte spero definitivamente le ansie di un “dover essere” da orfani del clericalismo intellettuale, osserviamo in giro che succede.

Succede che, prima constatazione, oggi nella pratica artistica si declinano fatti diversissimi tra loro, da superdisciplinari a totalmente a-disciplinari; da compiutamente centrati in un’idea di arte stabilizzata e canonica, a eccentrici per autentica spinta centrifuga; da ipercolti a calati con golosità nella mass-cult.

Già è un bel fatto, in sé. Significa, in primo abbozzo di analisi, che i confini omologatori del sistema dell’arte sussistono solo come i cartelli di confine dei municipi, o degli stati di Schengen: passi, e nessuno ha l’autorità di metterti il timbro o di rigettarti. Qualcuno, certo, questa autorità se la arroga ancora: son quelli per i quali, questurini o commissari del popolo, il distintivo è come l’ombra per il Peter Schlemihl del racconto prezioso di Adalbert von Chamisso: niente ombra, niente identità. Fanno i buttafuori di discoteca, e si convincono di esserne i boss. Alla fin fine, come tutti i servi, son solo un po’ fastidiosi.

Manfredini, Tentativo di esistenza

Manfredini, Tentativo di esistenza

I confini ci sono, ma convenzionali. Non quelli vecchi, inteso, del liso discorso su ciò che è arte e ciò che non è, ma quelli tra ciò che il sistema riconosce e ciò che esclude proprio per poter rendere credibile ciò che ha incluso.

Ricordo un vecchio ragionamento causidico e arguto di Thierry De Duve, che recitava così:  “Perché l’enunciato questo è arte sia avverato, sono dunque richieste quattro condizioni. Occorre un oggetto, un qualcosa di cui non si giudichi in precedenza niente se non che serve da referente all’indice questo. Occorre un autore, un’istanza soggettiva qualsiasi che pronunci la frase una prima volta (o alla quale si attribuisca di aver pronunciato la frase una prima volta). Occorre un pubblico, ossia un’altra istanza soggettiva distinta dall’autore e che ripeta la frase per proprio conto. Occorre infine un’istituzione ad hoc, un dispositivo decisionale o un’istanza di registrazione la cui funzione è di effettuare le prime tre condizioni”.

L’istituzione ad hoc, quella che traccia i confini, c’è, e si pensa oggi più autorevole che mai, ma l’artista (se non vogliamo chiamarlo artista non c’è problema, naturalmente: possiamo anche non chiamarlo proprio, ma lui c’è) spesso la mette in scacco nel modo più velenoso, ignorandola. Questa, nel suo piccolo, mi sembra cosa non da poco.

Che lo faccia alla maniera di Giovanni Manfredini, il quale svolge il proprio durissimo lavoro hors catégorie stando con sovrana indifferenza dentro e fuori dai luoghi canonici, oppure alla maniera degli 0100101110101101.org e di epidemiC, di Jaromil e dei Softlykicking, che se ne stanno da tutt’altra parte e che neppure si chiedono se sono artisti o no, non è il punto.

Un sistema, e quello artistico non fa eccezione, sussiste sin tanto che genera antagonismi strutturali. Un potere, e quello culturale non fa eccezione, sussiste sin tanto che qualcuno voglia scalzarlo per sostituirvisi. Se, semplicemente, lo si ignora, diventa patetico come un dittatore senza popolo.

Seconda constatazione. Sempre più la questione della tecnica va diventando cruciale, seppure in modo diverso dalle mitologie tecnicistiche d’antan. Si dipinge, si scolpisce, si fotografa, si elabora elettronicamente, si agisce, si costruiscono situazioni, eccetera. Sino a poco tempo fa ciò rappresentava una scelta, oltre che un gusto. Ora, solo un modo. Modo tra modi, funzionale ad altro, a un progetto intensivo: è una mostra di giovani, questa, non importa se il progetto giunga a buon fine, importa che parta senza false coscienze. Ma è modo assunto e praticato conseguentemente, solo in casi residuali (e francamente patetici) adottato nella convinzione che, per il meccanismo di accrediti e omologazioni che s’è detto, faccia di per sé da alibi qualitativo.

I decenni ultimi ci avevano abituato a un discorrere d’arte in cui il campo disciplinare rappresentava di per sé valore: sotto le spoglie del vessillo sdrucito dell’antiartisticità, ecco l’accademismo della tecnica come genere, che è poi (la mia memoria, da un po’ di tempo, torna sempre ai Goncourt, chissà…) il “travailler de chic” di cui ridevano già, orsono cento e rotti anni, i fratelli parigini.

Caccioni, Lotophagie

Caccioni, Lotophagie

(Memoria aneddotica. Kassel, 1977, Documenta. La critica militante al celebre esponente della pittura analitica: “Ormai la pittura è finita, la fotografia è il nuovo linguaggio. Sai quanti rollini fotografici si scattano in un giorno?”. Il pittore alla critica: “E tu sai quanti rotoli di carta igienica si consumano?”).

Oggi, si fa ciò che si vuole, se si ha qualcosa da fare. Anche, ed è la parte sulla quale più occorrerebbe ragionare, contaminando fastosamente modalità diverse, e territori espressivi (e comunicativi, e linguistici, e concettuali) che con l’artistico in senso stretto, nominalistico, potrebbero aver poco a che fare. Tanto che, e si ritorna alla prima considerazione accennata, vien da dubitare della necessità stessa di un territorio che valga la pena di decidere come artistico, se non come ambito ipotetico, ambito critico, appunto, intorno al quale intessere le ipotesi e le opzioni vere. 

Intendiamoci. E’ l’esatto opposto, ciò di cui si va dicendo, del far sopravvivere la centralità del museo come luogo omologante – e come paradigma del consenso culturale obbligatorio – estendendone i confini fuori da un artistico in debito d’ossigeno. E’ l’esatto opposto del fare le mostre di motociclette e di vestiti e di posate dentro un museo: che è proprio l’apoteosi con schianto del “travailler de chic”. E’ l’esatto opposto, ancora, di ciò che, parodiando, ci ricorda Tom Stoppard in Artista che scende una scala: “L’immaginazione senza la tecnica ci dà l’arte contemporanea”. Si intende, se intuisco bene i segni che mi appassionano, giusto il contrario. Cosa, come, vedremo.

Ancora più focalizzando. Trascolora lo chic perché se ne va scomparendo anche quella che Arthur Danto ha indicato genialmente come l’“atmosphère de théorie”, quella metatestualità talmente ingombrante e cogente da rendere l’opera stessa, alla fin fine, del tutto accessoria. E trascolora perché tale è stato il collasso che oggi, chi si dica “faccio l’artista”, sempre più sovente sostituisce alla smemoratezza furba del postmoderno una forma di ulteriore, mi piacerebbe dire radicale, docta ignorantia, secondo la quale importa meno entrare nella storia dell’arte – e nel museo che le fa da display – e assai più fare cose che abbiano un senso, a partire da altre che ne hanno. Ciò fa decadere in modo decisivo la mitologia tecnica; ciò, a maggior ragione, mette in mora l’ansia un tempo così viva di far strategie di collocazione cultural-mondana.

Perché la memoria insiste con i Goncourt? Forse perché la spiegazione di ciò che va delineandosi, per segni gracili ma non credo fallaci, è la consapevolezza e il rifiuto, rifiuto fondamentale, del vero morbo congenito all’avanguardismo d’accatto, quello che già tendeva a prevalere (non perder tempo a dubitare fa andare più veloci) al nascer stesso dell’avanguardia: il morbo della blague

Cos’è la blague? Eccola, perfetta chiave per leggere l’oggi d’una ufficialità ridotta alle pagine kulturali del supplemento femminile, al frisson delle cene cafone dal banchiere del Colloque des bustes di Bernard Comment; al, per dirla tutta, trucco dell’avanguardia.

“La Blague, cette forme nouvelle de l’esprit […] devenue le Credo farce du scepticisme, la révolte parisienne de la désillusion, la formule légère et gamine du blasphème, la grande forme moderne, impie et charivarique, du doute universel et du pyrrhonisme national”. 

La blague è il virgolettato intellettuale, il discorso indiretto e già paraculescamente attento a simulare il reato dell’avanguardia strizzando l’occhio al poliziotto, e soprattutto a fare in modo da ricevere l’invito del prefetto.

Vivaddio, questi teatrini vieti si possono lasciare alle succitate pagine kulturali. C’è in giro un sacco di altra roba che si può fare, e guardare.