Masson
Masson. L’imagination au coeur de l’être, in André Masson. Opere 1943 – 1971, catalogo della mostra, Arte 92, Milano, 5 ottobre 1990 – 26 gennaio 1991, Electa, Milano 1990
“L’imagination est au coeur de l’être”… Héraclite, 1943, è viatico perfetto per questa mostra scelta di opere di André Masson: “Tout doit revenir au feu originel. Tempête de flammes. Ainsi parlait Héraclite…”. Ad esso può far da corrispettivo, per ragioni tutt’altro che stilistiche, La mort d’Empedocle, di quasi vent’anni successivo.
Sono grafie aspre, attorte, inestetiche. Avvinte continuamente a un possibile, un tutto possibile, figurale, e insieme ritratte a una soglia di privazione di destino; avvenimenti, lì, certi solo del loro esser momenti-pause d’una fluenza cieca.
Pittore filosofo, sceglie di essere Masson negli anni in cui l’arte ancora si vuole pensiero, e progetto, e fede; ma, insieme, radicale negatore d’ogni lógos di preconfetta necessità, capace di calarsi nell’arte con l’ossessione del visionario cui importi solo il proprio introverso corso sapienziale, l’interrogazione lancinante: non lo scambio dei sensi, non il mercimonio mortale del significare.
Eraclito, e Nietzsche: “solo un pazzo, solo un poeta”: non, allora, l’avanguardia dei modi, dei sistemi stilistici, delle ortodossie, e neppure quella dell’artista profeta, sciamano nuovo di totem esibiti.
La stagione surrealista è conclusa, di fatto. Agli atti, alle storie, Masson ha consegnato un atteggiamento radicale, circolarmente radiante e genetico.
La fondazione ipercolta e letteraria del fare, rastremata in sovrana “docta ignorantia”. L’automatismo come coraggio dell’autentico, dello scavo stremante sotto gli orpelli dell’ego, alla ricerca del nucleo vitale d’eros e morte, lucidità divina ed estasi, corruzione e germinazione, in cui s’agita il segreto cupo del mondo. L’alea vera, sollecitata e accolta, delle sables, quell’avvenire indifferente di segno e forma, al margine del concretarsi – fantasma di corpo – dell’effimero insensato.
Per corollario, il rifiuto dell’estetico, del sistematico, del sacrale, dell’intellegibile eteronomo in pittura: fare come fare, per identità – non traduzione – d’esperienza, il cui esito non sia altro che supposizione: e se specchio, ustorio.
L’intuizione, soprattutto, che se di libertà, e d’irregolarità, e di dissoluzione si parla, in vista dell’intuizione totale e mutante dell’essere, anche il disegno minimo della congruenza linguistica è baluardo improprio: l’energia dell’immagine, la sua tensione, la sua capacità cangiante di senso, è continuamente eccentrica all’apparenza; metamorfosi straniata e straniante che si scatena a ogni passo del processo, sino all’imprevedibile fruizione.
Ora, ai corsi incerti della diaspora, alla cecità opaca del sentimento eroico e mortale della guerra, egli offre la sua compiuta anartisticità, un istinto di profondità e trasparenza che ha definitivamente esorcizzato talento, e maestria, e volontarismo: pronto a risalire involutivamente al “bout de la nuit”, agli interrogativi ultimi, senza imbarazzo di disciplina; e insieme a spiegarsi in plenitudíni sensoriali di forza travolgente, contaminanti, impure come la vita.
C’è Pollock, e Tobey, e l’energetismo informale, dopo gli atti di Masson, s’è sempre detto. Anche tutto l’inespressivo di questi decenni, e il punto di maggior specchiamento critico d’ogni innovato dadaismo. Ma per lui, per Masson, coerente fino all’arroganza nel non voler esser pittore, non c’è espressivo e inespressivo, né c’è informe, perché non c’è forma possibile.

Masson, L'abime, 1955
E’ un essenziale, ma contraddittorio, ciò che egli sempre guadagna. Il divino, il fuoco, la terra, il vuoto zen. Tutto sta in questi gesti, e continuamente collidendo continuamente chiama, e domanda, e trascende l’orrore del senso comune. Ma esiste, e fa esistere, per indefinita ininterrotta provvisorietà.
E’ fondazione primordiale dell’immagine, ispida ed estranea nella lingua ma chiara nel cuore, nello stacco supremo della mente che si pensa fare.
E’, anche, engagement, incoercibde, ma tutto dentro l’arte; meglio, all’interno del meccanismo del senso apparente.
Le cronache dicono che gli anni Cinquanta sono anni di natura, per Masson. Alle spalle ha la Mythologie de la nature, in cui la sua “pittura di conflitti e di vertigini” si fa anatomia universale, catalogo febbricitante delle generazioni, delle nascite oscure.
Non più l’utero, il femminino, è il punto focale dell’ossessione, ma la fluidità: di vento, di volo, d’acqua: e di luce, effusiva e lirica, come una combustione tersa dell’alito formale della sensazione.
La filologia direbbe Renoir, e i fogli leonardeschi, e i calligrammi orientali, e certe illuminations di Blake, e quant’altro.
L’anima di Masson chiede forse l’esorcismo fínale della materia, e il colore-luce come sostanza, come impadroneggiabde e perciò vitale movenza del pathos, che si riconosce in questa qualità innommable, già figura e non, definitivamente, forma; scambio squilibratissimo tra la messa a fuoco sensoriale e l’echeggiamento interiore, la capacità della coscienza di conoscersi in luogo.
L’ombra con cui, disinvoltamente, ironicamente, e certo in modo non meramente polemico, fa i conti, è quella dell’altro maestro di Aix: il Cézanne della costruzione, del dramma materiale, della forma formata.
Il calcolo stilistico gli è estraneo, ma anche perché, implicitamente, ne teme il fascino, la confidenza dell’ordine, la gratificazione del senso. S’avverte, ora più che mai (come era nei Venti-Trenta per il “demone dell’incertezza”, per l’oscuro sessuale del mito, per l’elemento culturalmente polemico), che Masson teme d’innamorarsi dei propri labirinti, dei propri mallarmeiani e blakiani abissi di coscienza, fino a stringerli in immagini comunque esemplari: e delle sue Bagnanti, fino a farle sorelle in destino, se non in vocazione, delle altre, paradigmatiche del secolo.
Ancora si ritrae, con determinazione brusca e autorevole. Spossa i toni al disagio estremo, o li forza in dissonanze lacerate: e serra le linee, i grafemi, in flussi frantumati, come uno stupro concitato al sospetto di corpo.
Come, in altro modo, Picasso, per esorcizzare affonda con ironia terribile nel cuore della questione. Titilla, ora, le levità capricciose della decorazione; ora, ancora, volteggia nell’enfasi barocca dello stilismo, fino a guardar dritto “les yeux de glaces de la parodie”.
Assume su di sé ciò che il mondo dice sia la sua sigla, il suo modo, il suo apparato retorico, lo accelera al punto di rottura, di conflagrazione.
Carica l’espressività generativa del gesto fino a una drammaticità grottesca, ambiguamente teatrale; e insieme la temperatura del colore fino a risonanze d’evidenza spettrale. Satura la trama dei rimandi figurali – schegge di citazioni, allusioni, ribaltamenti simbolici – in una sorta di parossismo orgiastico, ma come illuminato artificialmente, come se l’oscurità umida, misterica d’un tempo, fosse divenuta coazione meccanica e livida, dalle concitazioni sgraziate.
Si replica con divertimento sottilmente dissolutorío in La chambre du magicien, 1966, così come convoca il museo, l’edificio grande dell’arte, in Scène classique IV, 1969, e nel precoce Caprice végétal, 1954.
Masson persegue, fino all’ultimo, la condizione di pittore inespresso, reticente: la cui epidermide eclettica, errante, eretica a se stessa, occulti la renitenza profonda a dirsi in pittura: come un genio virtuale, le cui parole circoscrivano la potenza del silenzio.
E’, si sente, un superuomo, ma sceglie di nascondersi, e mascherarsi. Più il teatro delle apparenze, nei quadri, si fa estraneo e clamoroso, più Masson si ritrae in un tentativo di conoscenza di sé e del mondo, totale, come tentasse, piccolo Capaneo moderno, l’incesto impossibile con la verità. E’ fatto segno, dopo i Cinquanta, d’una conclamata assunzione a maestro, a padre di molti figli. Fedele a se stesso, tace. Non accetta il ruolo, non lo rifiuta.
Vede il suo immaginario acuminato e ossessivo, il suo viaggio tra luce e vertigine, dipanarsi in pitture altrui, in altri fantasmi. Tace, e ammanta il silenzio del furore cromatico degli ultimi dipinti.
Nota
Gli scritti di Masson si leggono in A. Masson, Le plaisir de peindre, La Diane Française, Nizza 1950, e in Métamorphose de l’artiste, 2 voll, Pierre Cailler, Ginevra 1956. Un’ampia scelta in André Masson. 200 dessins, catalogo, Musée d’art moderne de la ville de Paris, Parigi 1976. Cfr. inoltre H. Juin, André Masson, Georges Fall, Le Musée de Poche, Parigi 1963; O. Hahn, Masson, Harry N. Abrams, New York 1965; J.-P. Clébert, Mythologie d’André Masson, Pierre Cailler, Ginevra 1971; Exposition André Masson, a cura di W. Rubin, catalogo, Galeries nationales d’expositions du Grand Palais, Parigi 1977.