Lüthi
I’ll be your mirror. Urs Lüthi, in Urs Lüthi, catalogo, Galleria Civica, Modena, 15 maggio – 20 giugno 1994, Nuova Alfa, Bologna 1994
E’ un’ossessione d’identità, e di corpo; e d’una metrica che dal corpo si trascenda a farsi canone d’un universo ordinato: ansia, comunque, d’un senso possibile, nell’epoca in cui, come vuole Hermann Broch, la “pappa culturale” sommerge e anestetizza le libertà dell’intelletto.
Lüthi prende a utilizzare sistematicamente la fotografia nel 1970 (a quella data risalgono gli Sketches con Willy Spiller e David Weiss, altra figura cruciale d’un impiego non disciplinare della foto) su un versante che non è quello, ipermediale e analitico, del concettualismo, che pure ha segnato di sè larga parte dei Sessanta.
E’ piuttosto, il suo, un approccio sottilmente divergente al valore di pura registrazione, di mera strumentalità nella fissazione di immagini: ove abbia luogo, dunque, più il codice retorico della situazione, della quotidianità, dell’apologia divagante del banale –con componenti d’alea e di indeterminazione artistica che è possibile far ascendere allo spettro d’esperienze che svaria da Marcel Broodthaers a Allan Kaprow – che quello “alto” della specificità e autonomia linguistica del medium.
Ciò che gli importa, insomma, è la natura specchiante della fotografia, quel suo catturare il brandello indifferente del flusso esistenziale. Dunque, la sua vocazione primaria di fabbrica d’iconografie dal mondo discendenti e al mondo di nuovo riferibili: ma ad un titolo, secondo l’antica lezione dada-surrealista, deviante, di sottrazione e straniamento dell’apparato significativo, dell’aspettativa normalmente referenziale.
E’ in questo senso che Lüthi sceglie di fare del proprio stesso volto, del proprio stesso corpo, l’ambito primario d’esercizio dell’esperienza artistica.
Selfportrait è per lui la versione moderna, unica possibile, del paradigma storico antropomorfico dell’arte, e insieme del dilavamento lacerato dell’identità – vitale, mortale – del soggetto, di quella singolarità irripetibile dissolta tra impossibili mitologie eroiche e perdita definitiva di qualità.
Egli, figura ancora impregnata d’esemplarità in quanto artista, scruta, per infinite prove ed infinite mutazioni – quasi una versione collidente del teatro, della maschera crudele cara ad Antonin Artaud, e dell’ipertrofia nullificante di Andy Warhol – se stesso in quanto eidolon: immagine: idea: e simulacro, fantasma, ombra.
Nel codice degli stereotipi d’arte, a confermare l’attenzione all’autoritratto come genere storicamente identificato e dotato d’una solida poggiatura retorica, in un lavoro poco ricordato ma assai importante del medesimo 1970, The Urs Lüthis, serie di operazioni in stile allineante la rivelatrice sequenza Cézanne Modigliani Picasso Giacometti Rivers Lichtenstein. Ma soprattutto in fotografia, ove da subito l’elemento di straniamento è affidato al travestimento (fra maschera e doublure) e ai segni ambientali (fra teatro e memorialità ricca d’echi allusivi e simbolici).
Primo momento di sintesi, la serie di venti immagini The Numbergirl presentata nel 1973 al Kunstmuseum di Lucerna, che appare anche nelle cronache d’arte come momento di definitivo superamento, per amplificazione, della pura visualizzazione di processi di pensiero che pure pareva essere, allo scambio del decennio, la prospettiva fondante della neoavanguardia.
La centralità dell’iconografia, il valore di equivalenza, per specchiamento, della corporeità, e le componenti narrative, affettive anche, dell’immagine: se pure le perversioni catalogatorie di quegli anni, tra ideologismo e attenzioni smodate all’extramedialità, faranno coniare letture come body art e narrative art, tutto sommato di solo parziale aderenza all’opera di un artista come Lüthi – e non solo, è ben vero che è in lavori e attitudini come questa che si rintracciano i primi autentici saggi della smobilitazione del teoricismo e del tecnicismo, in favore d’una formatività dolce e fertilmente ambigua, foriera di cruciali sviluppi di lì a qualche anno.
In The Numbergirl si annuncia inoltre in modo chiaro l’adozione da parte di Lüthi di una delle strutture topiche del concettualismo, l’apposizione a dittico di due immagini a creare una polarità energetica d’intendimento e di senso, sia per amplificazione sia per contraddizione: il dittico, e poi la sequenza, che proprio nell’ambito della ridefinizione dell’uso espressivo della fotografia nei Settanta troverà larghissimi sviluppi, sino a farsi a sua volta, infine, ulteriore accademia.
Lüthi nelle foto regge, quasi mimando antichi ritratti cinquecenteschi, un’altra immagine, di se stesso ancora, d’un’altra persona, d’un ambiente: in ogni caso, d’un doppio ambiguo e suggestivo. Così sarà, da questo momento, per alcuni anni del suo lavoro, attraverso le vie della giustapposizione oggettiva di foto diverse, connesse da legami sensuosi e di senso.

Lüthi, Just Another Story About Leaving, 1974
A cavallo della metà del decennio, Lüthi organizza ormai definitivamente il lavoro secondo il codice dittico/sequenza.
Un luogo, una situazione ambientale ed esistenziale, diviene il contesto fisso dello scambio con la sua deviante iconografia autoritrattistica: a scrivere una sorta di paradossale, disperata, grottescamente violenta talora, automitobiografia; quasi che i segni di un implausibile essere al mondo, vivendo sul filo d’una continua ansiosa ricerca d’esperienze emotivamente e concettualmente necessitate – ricerca e perdita, sempre –potessero restituire, per altre vie, una qualità diversa e ulteriore all’identità dell’immagine stessa.
Ancora, al codice ovvio saporosamente interpretato della foto ricordo, priva in sè di qualità linguistiche, Lüthi sovrappone echi e suggestioni della tradizione artistica alta: la memoria picassiana di Selfportrait in a chair, 1975, i fasti iperdecorativi matissiani di Treat me like a Stranger, 1976. E’ un modo, anche questo, di operare per vie sotterranee e intuitive una sorta di remise en ordre dell’esperienza, di immissione, nella dissolvenza logica nella quale ha scelto di dibattersi, di elementi che riavviino a un lògos ulteriore possibile.
E’, questo, il momento in cui altri due elementi operativi entrano a far parte del suo bagaglio problematico, e lo accompagneranno per circa un lustro.
Il primo è tecnico, consistente nell’adozione della fotografia a colori, che sostituisce l’astratto nitore disegnativo – in sè implicante una mai dismessa tensione estetica nella concezione dell’immagine – del bianco e nero. Si tratta d’un colore vischioso, qualitativamente indifferente, più spettacolarmente banalizzante ed insieme esteticamente indifferente del bianco e nero. Per intenderci, è una condizione cromatica di crudo splendore pop che ha riferimenti climatici, ad esempio, nelle storiche Gasoline Stations di Ed Ruscha, e nel lavoro parallelo di autori come John Baldessari: che per Lüthi vale come sprezzatura tecnica ulteriore, come mera assunzione retorica d’un altro codice visivo mondano.
Il secondo è la presenza nelle immagini, continua per alcuni anni, del doppio femminile di Lüthi, un doppio che gli consente di amplificare ulteriormente e intensificare il suo aggirarsi continuo sul filo dell’identità ambigua, anche sessuale, con ancora più accentuate teatralizzazioni ironiche, e in più d’un caso poetiche.
Il nuovo cambio di decennio vede Lüthi dichiarare il suo disinteresse specifico per la fotografia in quanto linguaggio. Dall’uso strumentale dell’immagine fotografica, egli passa senza soluzioni di continuità al disegno (un disegno che conferma, a ben vedere, la vocazione disegnativa della sua fotografia in bianco e nero), e a una pittura svolta con non meno rilassata indifferenza a tecnicismi e qualità estetiche primarie.
Non muta, d’altronde, la sua attenzione primaria: il rapporto esistenziale, emotivo, di senso, tra l’individuo, la sua identità pericolante, e l’ambiente, la situazione, la somma degli statuti e delle contingenze biografiche.
Volutamente il suo disegno è scarno e banalizzante, in un recupero anche divertito dell’elementarietà del graffitismo – inteso nell’unico senso possibile, di comunicazione visiva in assenza di consapevolezze formali.
La seriazione interna ed esterna delle opere; il continuo rimando a un regard di tipo fotografico, come sempre sottilmente sommario; il riferimento a schegge e topoi della cultura artistica ufficializzata e banalizzabile (eloquente in Serie der reinen Hingabe, 1985, ad esempio: e in genere nel suo attivare rimandi continui e sottilmente provocatori all’estetica classica come al Kitsch, passando attraverso il buon gusto chic) la concezione stessa dell’immagine come apposizione critica di moventi e schemi eterocliti: tutto dice che Lüthi, ancora, è in cerca d’una ragione interna della formatività, d’un ordine di crescita dell’immagine, che sappia contenerne le necessità iconografiche senza farsene dirigere: scommessa complessa, ma quanto mai fondamentale, nella stagione del collasso delle neoavanguardie.
Sono, dunque, ancora serie di autoritratti, da quelli della Serie der grossen Gefühle, 1985, a quelli della Serie der Bilder fur eine italienische Bar, 1984. O identità di luogo, come nelle serie Italian Interieur, 1983, e Interieur, 1984.
E’ attraverso queste opere, che comportano anche riflessioni non banali sulla struttura pittorica, sul paradigma storico e moderno dell’architettura formale, esso stesso, a ben vedere, lògos d’immagine in piena autonomia, e facoltà d’un senso dell’ordine (per citare il libro di Ernst Gombrich certo ben frequentato da Lüthi) che sappia farsi, almeno in artificio, equivalenza d’uno sperato ordine cosmico.
E’, tale nuova prospettiva, quella che Lüthi persegue sistematicamente dalla fine degli Ottanta, decidendo di dotarsi d’uno strumentario operativo definitivamente variabile e plurale: la foto, di nuovo, e partiture decorative in all-over svolte con pittura nitida e impersonale, e sculture, e installazioni, e inserti verbali… Sempre agendo per serie, sempre costruendo programmi operativi articolati e complessi; sempre aggirandosi tra l’identità storica della forma artistica e il suo intendimento strumentale, per le vie d’un ormai affilato criticismo retorico; sempre, soprattutto, dando vita a immagini concettualmente chiare e insieme emotivamente e simbolicamente ambigue, radianti.
Ecco, dunque, One World, 1989, svolto su una baluginante citazione manrayana e su una sequenza di pattern decorativi in cui la cultura della forma si fa identità culturale stessa dei cinque continenti. Ecco, lucido e melanconico, il coevo Spirit, Form, Reason, ulteriore partita autoritrattistica che si dilata a farsi ritratto d’un cosmo plausibile, tra apparenze e consapevolezza intellettuale. Ecco, infine, la Serie der universellen Ordnung, programmatica ed emblematica sin dal titolo, e nel trascorrere dalla forma formata all’alea, svolta in più occasioni tra il 1989 e il 1991: qui l’autoritratto si fa, per compressione e dilatazione storica, scultura bronzea: volto, e testa: e cervello, in Portrait-study of a complete Man, 1993.
E’ a partire da queste esperienze che Lüthi matura l’ulteriore amplificazione operativa del suo lavoro. Identità soggettiva e ordine universale, necessità sensoriale e ragione intellettuale dell’immagine, principio formale e principio iconografico, significato e straniamento espressivo, retorica e senso: egli sa che, ora, la partita si deve giocare con la stessa identità fondamentale dell’immagine, su quel suo specchiare e insieme sottrarre il corpo che è, di fatto, il congegno minante l’identità soggettiva, tra corpo e pensiero.
Riaffiora, in questo ambito, la fotografia come medium cruciale delle nuove riflessioni: che ora Lüthi assume, manipola, filtra ulteriormente grazie alla grafica informatica, in un processo di astrazione assoluta rispetto alle sue capacità di referenza: meglio, che fa delle capacità di referenza medesime il nucleo problematico proprio dei nuovi ricercari.
Sono immagini che appartengono alla storia artistica di Lüthi stesso, ora, in una sorta di à rebours intellettuale e, nuovamente, emotivo; oppure, ancora, alla sua acuta e poetica intuizione del mondo attraverso le immagini e le forme.
Si è rattratta, rispetto ai Settanta, la dimensione esistenziale, la proiezione autobiografica in senso stretto, quella che fece dire, a quei giorni, di arte narrativa. E si è, d’altronde, sempre più trasformato il protagonismo cruciale di Lüthi, d’artista agente sul proprio stesso volto lo stereotipo mitizzante dell’esemplarità.
Non teatralizzazioni, ora, sono in gioco, non spettacolarizzazioni tra enfasi e banalizzazione, non collisioni affettive d’immagini. Lüthi, ora, agisce su un piano di consapevolezza che si è scelta meditativa: non più specchio, affida allo straniamento d’un busto da “uomo illustre” la nuova condizione sua di cannocchiale, di specola d’astronomo non solo metaforicamente intellettuale, che alle soglie fluttuanti dell’esistente, dell’esperienza contingente, e quindi della questione del far vedere e del percepire, non s’arresta, avendo ora alle viste non un’unità, certo, ma, forse, una totalità: o almeno, una finzione di totalità.
Ecco, allora, le opere nuove nate per questa occasione modenese, ove l’adozione d’un ultimo schema retorico, quello del libro – a partire da questo catalogo, segna una soglia ulteriore del suo affondo concettuale all’immagine, dalla mediatezza irrevocabile della fotografia all’artificio incoercibile dell’arte: cui il colore non offre supporti di referenza, e invece violente contraddizioni di senso, le vie dell’astrazione ulteriore anziché della reificazione percettiva.
Lüthi agisce sulle immagini dal punto di vista di una sapienza nuova, quella rettitudine del gesto, ovvero consapevolezza del processo, che non è solo antica memoria confuciana, ma baluardo intellettuale fondamentale rispetto alle ossessioni di modo, e d’esito, dell’attuale intellettualmente smobilitata ricerca nuova.
Nota
Per una bibliografia analitica, cfr. A. Pohlen (a cura di), Urs Lüthi, Ritter, Klagenfurt 1993. Pubblicazioni fondamentali, curate dall’artista stesso, sono inoltre Urs Lüthi 1990, Helmhaus, Zürich 1990; Urs Lüthi. The complete life and works, seen through the pink glasses of desire, catalogo, Monaco 1993.