Piccolo catalogo privato per Stanislav Kolíbal, in Stanislav Kolíbal. Opere dal 1956 al 1999, Chiese Rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Circolo La Scaletta, Matera, 27 giugno 1999, La Cometa, Roma 1999

 1956, Braccio. Il retaggio è quello dell’avanguardia grande, Brancusi Giacometti Arp …, ma l’anima è insieme nutrita di umori surreali – come altrimenti a Praga? – e, più, d’una vocazione che si dichiara già scrutinante, attenta non a costruire la forma ma a interrogarla, a chiederle ragioni d’organicità e di logica strutturante. Il gesso, da subito: materia teorica, contigua al disegno; ma materia, sostanza.

1963, Colonna. Gesso, ancora, come quasi sempre in futuro. E un tòpos della forma plastica, in valore di stare, d’ergersi, di convocare la memoria antropomorfa per via di simbolizzazione geometrica (il braccio è architettura del corpo), e di doppio architettante. Sono nervature plurime, come echi di un gotico del quale la movenza verticale era doppio d’un doppio, uomo/albero, e albero/colonna. Pensiero sorgivo della struttura e della forma che Stanislav ripensa, e scava, e con pensiero che non si concede abbigliamenti distilla a un punto originario. Figlio, tutto, della geometria europea – e in questo precoce – e del suo rastremarsi in riflessione criticistica, verificata nel fare. Le mille miglia è lontana, non solo geograficamente, la prassi riduttiva e ontologicamente opaca della via americana. Difficile cercare maestri. Ma quando il costruttivismo cessa di sperare, e l’utopia abdica, non dismette certo l’orgoglio del lògos.

1966, Scultura per il vento. Gesso e fili, struttura aperta, provvisoria, pericolante, che amplifica gli squilibri indotti, quel forzare la gravità, sino a farne un carattere proprio e non un elemento possibile. Stanislav decide che il punto chiave non è tanto la questione della forma, quanto la sua condizione spaziale, quel suo definirsi non come shape preventiva all’essere nello spazio, ma come qualità e intonazione dello spazio stesso. La scultura come comportamento della forma allo spazio, uno spazio tutto fisico ancorché debitamente posseduto dall’intelletto, e la forma stessa come nervo strutturale ed energetico dello spazio.

1967, Cadere. Infatti ecco un cambio di titolo che vale, davvero, programma mentale. Non più “scultura”, non più “colonna”, non più “braccio”, anche l’equivalenza e l’evocazione si perda. Stanislav esperisce la struttura in quanto struttura, cercando non l’antica invocata intimità della materia, ma certo l’intimità dei suoi possibili di spazio. Si tratta, a ben vedere, di una scultura, ma di ciò poco importa. Ne importa la condizione e la tensione, il metro plastico e spaziale. Potrebbe trattarsi dell’inizio di un gioco di situazioni, ma non siamo in presenza né di forme geometriche che vogliano enunciarsi, né di forme che intendano astrarre per exempla possibili di racconto. E’ cadere, è il cadere.

1967. Forma in sparizione. Il cubo, oggettivamente evidente, e il colare non della materia che lo forma, piuttosto dell’illusione di sostanza che abbiamo – per meccanica d’aspettativa – attribuito. Altrove, un Arnaldo Pomodoro “sente” la quantità maateriale della geometria e la corrode, con ciò riconoscendole lo statuto materiale stesso. Altrove, gli Americani enunciano una “cubità” che altra pretesa non ha che di essere inveramento d’una nominazione, con echi – tra volontari e non – della designazione duchampiana. Stanislav no. Egli agisce nel punto in cui la reificazione dell’idea  è in una sorta di stato premateriale, non solo figura della mente non solo oggetto del sensibile. E’ la medietà, la relatività, l’alterità di questa esperienza il vero elemento dell’operazione artistica.

1968, Sedimento. Come se l’arte fosse una finestra, insegna l’Alberti. Come se la finestra fosse a sua volta rappresentata, finzione di finzione, postilla Sklovskij. Ma se la cornice è, fisicamente – nel senso già detto, come momento pausa d’un pensiero che par coagularsi a un grado di sensibilità prima nello spazio – la struttura stessa determinativa della forma, ecco che ben altri flussi d’eventi si affastellano e concatenano, in un orizzonte di comportamenti  e di possibili del quale il sedimento – situazione prima della gravità e dell’indistinto materiale – è l’avvio concettuale.

Kolibal, In caduta, 1967

Kolibal, In caduta, 1967

1970 – 72, Spazio definito in modo insufficiente. Non cornice, certo eco e suggestione di cornice, e insieme primum struttivo: e la tentazione dell’aggetto d’una struttura senza destino e senza scampo. Il disegno materiato di Stanislav s’è schiuso ad altre materie. Sono e saranno legno vetro e un filo che vale da tracciato grafico al sorgere, ancora, della sostanza. Più attenta e acuminata si fa la citazione del costruire, del fare e farsi dell’accadimento spaziale e del rapporto con la mano e con l’occhio dell’uomo. Mi affascina l’elisione logica del titolo: “definito” da chi, da cosa, è lo spazio? Dall’autore faber e padrone, o da un formarsi irrisolto, o da un formarsi del quale assistiamo a una fase di transito verso una dubitativa condizione di congruenza? L’operazione, ancora, riverbera interrogazioni, a te e a se stessa.

1972, Fragilità stabile. Per contro, può darsi uno stare, un compimento nella regione dell’equilibrio, fatto non di congruenze materiali o geometriche, ma di scambi sul filo della fragilità. Lo schema retorico della proiezione, del passaggio dall’aspettativa bidimensionale all’esperienza tridimensionale, avviene ancora in una sorta di borderline plastica. Stanislav non sfrutta certo la facile intelligenza dell’effetto, la spettacolarizzazione dell’inganno ottico. E’ la natura di codice dello spazio, tra mente e presunzione di lettura fisica, a compiere – ancora in compressione dinamica del senso e di deriva critica – lo scambio e il cortocircuito.

1975, Silenzio dopo la caduta. Il disegno/filo svela, insieme sfruttando appieno, la propria natura fruttuosamente equivoca; regge la trave che aggetta dalla parete come escrescenza fisicizzata d’uno degli elementi del supposto disegno originario parendo, insieme, linea forte di quello stesso disegno. Il deragliamento geometrico è una sorta di disperazione formale, ma vale come silenziosa – appunto – ovvero non declamata cognizione dell’inganno originario della forma, della rappresentazione, del vedere, come in un secentesco memento sulla fallacia “del rappresentare ciò che gli occhi vedono” (e delle figure della mente che ne ereditano, quando arroganti) quasi in contrapposizione programmatica al what you see is what you see del formalismo statunitense.

1975, Tre forme. Tre rettangoli specchianti a terra, le proiezioni “vere” – ma fallaci quanto lo specchio e la luce – e quelle convenzionalmente “finte”, ma geometricamente “vere”, al muro. Ogni tanto Stanislav pare offrirci un’opera a chiave, di diretto ed esplicito intendimento, quasi a esorcizzare anche il rischio che la complessità del suo rovello mentale possa essere scambiata per barocchismo postiminimalista, et similia. E cosa, allora, è forma?

1977, Davanti al muro. Se c’è un estro poetico che si sottrae anche al più agguerrito scrutinio intellettuale, al più rattratto procedimento fabrile, in questo lavoretto, artefice della mia passione kolibaliana, esso ha scintillato. E’ il trepido, e come spossato, abbandonarsi del filo sul profilo del vetro, proprio ove esso rivela la sua fragilità e caducità: il resto, la natura di doppio specchiamento trasparenza eccetera, stavolta non conta più.

1981, Due cubi. Lo scambio prende ad essere non tra la parete, portatrice di bidimensione, e la plasticità di taluni elementi, matrice della terza, ma tra la convenzione di spazio incarnata nel quadro, quella della geometria proiettiva, e quella, meravigliata nell’universo dei possibili, d’una terza dimensione che scaturisce, Licini avrebbe detto par miracle e in realtà dagli specchi del lògos, ancora come escrescenza concettuale che si coagula in materia. Per un certo tempo Stanislav ricorre alla formula del quadro come per ribaltare ulteriormente, e ulteriormente amplificare di riverberi, la collisione tra aspettativa di rappresentazione e aspettativa di sensazione diretta. Con quella sua tutta particolare blankness che sa di scialbatura, di oggettività periclitante che devi comunque toccare con gli occhi, non del candore algido dell’ideologia.

1988, Esercizi geometrici. Tavole, rilievi, materia, forme geometriche, quadri, strutture. Meraviglioso il vezzo del titolo, in cui avverti l’understatement della bagatella e l’ansia profonda, ancora, del ricercare, dello scavare, del dire beckettianamente delle parole, sinché ce ne sono.

1988, e a seguire, Costruzioni. Labirinti di disegno geometrico che si fa dimora heideggeriana, spazio che contrae e dilata il proprio senso e accelera le logiche di visione, d’esperienza, sino a estremi che Stanislav vuole ancora toccare. Costruzioni, sono, come quelle degli antenati ormai lontani di Abstraction – Création, e dei lontanissimi monaci della geometria, Luca Pacioli et chompagni.

1999, Matera. Ora la luce bianca, altre pareti che sono esse stesse materia, forse materia, e un interno/esterno che dalla storia lunga è rimontato sino a provocare la visionarietà d’esacerbata lucidità di Kolíbal. Finalmente un artista dalla cui mostra nuova non so cosa aspettarmi, ma ho voglia di saperlo.

 

Nota

Per una bibliografia completa cfr. V. Erben (a cura di), Stanislav Kolíbal. Retrospektiva, catalogo della mostra, Narodni Galerie, Praga 1997. Pubblicazioni fondamentali sono inoltre Z. Felix (a cura di), Stanislav Kolíbal, catalogo, DAAD Galerie, Berlino 1989; A Zagula (a cura di), Stanislav Kolíbal. Konstrucje, catalogo della mostra, Museum Sztucki, Lodz 1993, J. Valoch (a cura di), Stanislav Kolíbal 1988 – 1995, catalogo, Casa d’arte, Brno 1995. Sulla presenza in Italia dell’artista, cfr. Stanislav Kolíbal, testi di P. Fossati e S. Kolíbal, catalogo della mostra, Galleria Mantra, Torino 1973; Stanislav Kolíbal, testi di A. Perilli e S. Kolíbal, catalogo della mostra, Galleria Marlborough, Roma 1976; Stansilav Kolíbal, catalogo della mostra, Padiglione d’arte contemporanea, Milano 1983.