Hamilton
Richard Hamilton, in Richard Hamilton. Una collezione ‘60/’70, catalogo della mostra, Marconi, Milano 1990
Man Machine and Motion, 1955. This is Tomorrow, 1956. An Exhibit, 1957. In queste mostre, e date, è racchiuso il momento cruciale, per occasioni esemplari, della vicenda di Richard Hamilton, e dell’esperienza tutta che, con la solita dose di approssimazione, è stata compresa nella formula di Pop inglese.
Di involvimento, analisi ed enfatizzazione plastica della cultura popolare, bassa, di diretto standard comunicativo, certo si trattava. Ciò che Alloway, McHale, Hamilton, Paolozzi, Banham, elaboravano nei primi fervidi anni Cinquanta, era proprio una sorta di antropologia metropolitana, che preferiva ragionare di civilizzazione piuttosto che di cultura nel senso ormai sclerotizzato e di incidenza dei suoi modi e segnali nel rapporto con l’immaginario del quale si nutre quello, integrato e altro insieme, dell’artista.
Il quesito era cruciale, e non solo in termini di sociologia dell’immagine, tanto da divenire, anni dopo, slogan di architetti e designers radicali, e su negli anni tema gelido dei giocattoli neooggettuali degli Steinbach e dei Bickerton: chi è così intellettuale da poter decidere cosa sia troppo intellettualeper la gente, per l’anonimo melting pot che il moderno chiama il pubblico? Ma ciò che nelle loro analisi si agitava, non era solo il livello banalizzato dei segni che il mondo, crosta ricoperta di merci, emette allo stato primario. Nessuno Store avrebbe mescolato prodotti, nessuna Campbell si sarebbe fatta stendardo. Certo, nel variegato mondo d’opzioni che si aggirava loro intorno, Hockney Kitaj Smith Tilson Blake Phillips Jones &, anche il dato primario d’assertività iconografica era in gioco.
Il Kitsch – e il Kitsch fu argomento di polemiche roventi tra Alloway e Greenberg, non a caso – era uno degli argomenti, non il principale. In gioco era, sostanzialmente con un profilo più complesso e concettualmente lucido, il valore stesso dell’immagine artificiosa come modello comunicativo e significativo, il suo essere serbatoio linguistico stratificato ormai nell’inconscio stesso della comunità contemporanea: in cui struttura, tecnica, fisicità, allusività, valenza emblematica e simbolica, evidenza percettiva … tutto conta per sé, propriamente; e relativamente, come nervatura consapevole/inconsapevole del modo stesso di concepire, e designare.
Era, in altre parole, la mozione più radicale offerta da Duchamp all’arte, e che le avanguardie innamorate delle tecniche da un canto, e il lavoro di Bacon sull’identità proprio in Inghilterra dall’altro, operavano a ridefinire in peso specifico, in ragione e condizione appropriata d’esistenza.
Di tutta la compagine inglese ed internazionale, Hamilton è il più lucido e conseguente nell’affondare tale approccio. E’, di Duchamp, non solo un cultore, ma un interprete testuale, sia in sede saggistica sia per ciò che le sue stesse mani faranno di lì a pochi anni, ricostruendo il Grande vetro. In più, porta con sé una criticamente stazzatissima cultura di designer, di artefice d’immagini e oggetti padrone di un processo di pensiero visualizzabile. Conosce il metodo, in altre parole, del far vedere, ma ne conosce anche gli anticorpi alla mitologia tecnica, alla sicumera significativa, alla tentazione universalizzante e totalitaria.
Per questo, lavora indifferentemente, e pariteticamente sull’imagerie bassa e devastata, e su quella colta dell’arte, e degli stilemi d’avanguardia; sugli stereotipi massmediali e su quelli della più mentalizzante astrazione intellettuale. Elemento unificante ne é il criticismo, l’autentico specchiamento nella sociologia e nelle sue epifanie iconografiche, e insieme un’autoriflessività del vedere/far vedere che non conosce neppure gli alibi dell’artistico, il baluardo ultimo del disciplinare.
“Un’opera d’arte è un veicolo per la trasmissione dell’informazione riguardante l’attività mentale o fisica di un artista… L’opera d’arte può essere strutturata o no – essa può essere un concetto… Un quadro è prova documentaria che un artista ha proposto un’opera d’arte”. Così suonano alcuni statements del 1971, primo bilancio e nuovo enunciato del suo operare distillatissimo. Sull’immagine, sul mondo fisico e già tecnicamente mediato, e usurato, dell’esistente, Hamilton sceglie di lavorare non quantitativamente, ma con selettività agguerrita, con un’acribia preliminare che riporta al livello concettuale il vero nucleo del processo d’arte.

Hamilton, Swingeing London, 1972
Just what is it that makes todays homes so differenti so appealing?, 1956. Hommage à Chrysler Corp., 1957. Portrait of Hugh Gaitskell as a Famous Monster of Filmland, 1964. Trafalgar Square, 1965. Gli Interiors, dal 1964, i Toaster, dal 1967… Sono studi, dipinti, fotografie, oggetti, serigrafie, multipli. Che toccano l’arte antica e la pubblicità, il fotomontaggio dada e la pittura da salotto in stile. Che riappaiono, iterativamente, ossessivamente, come visioni deboli, incapaci di un dove in sé, che il processo stratificato, divagante ma insieme acuminato, d’analisi e reinvenzione coagula e consolida fino a densità diverse, a una effettiva e non transitoria facoltà significativa.
Non vogliono, beninteso, erigersi in figure forti secondo gli statuti mondani dell’arte. Olio su tela o serigrafia o ready-made ‘aiutato’, esse sono indifferenti alla propria oggettività, e alla propria natura tecnica, se non per quanto la tecnica può addizionare in plusvalore di senso e di intelligenza specifica del pensiero della visione. In ciò, ereditano l’anartisticità duchampiana con esclusività altrove sconosciuta.
Figure forti sono perché, frammenti d’indistinto carpiti alla cecità quotidiana e massmediale, esse scandagliano fino all’estremo la propria struttura formale e linguistica, le proprie facoltà di metamorfizzarsi e sedimentarsi nella coscienza, di ripensarsi involutivamente – e non senza ironia: è importante – come luoghi necessitati di un’idea del mondo: frammentaria, dubitosa, agonistica al tempo e al luogo, ma che esiste, e si sa, e sa dirsi.
Così s’intende, anche, l’indifferenza stilistica di Hamilton, la scelta di muoversi da zero a infinito entro lo spettro delle modalità di formalizzazione dell’immagine, entro le clausole della sua specificazione, giocando suggestioni ipercolte – siano Vermeer o De Stijl o la mitologia dei design tedesco – in uno con il codice ovvio. L’evento, la figura, nel suo codice genetico conosce un solo dover essere, quello della lucidità, della ripensabilità tradotta in interrogativo stringente e in evidenza.
E’ così che, negli anni successivi ai Sessanta, le nuove rare scelte iconografiche e analitiche di Hamilton si leggono come asseverative del momento concettuale, anziché della manipolazione e del pervertimento formale. La serie Fashionplate evolve verso il montaggio livido, di sovraesposizione fisica, di The Citizen, dal 1981. Gli antichi Interiors crescono nell’evidenza raggelante di Lobby, dal 1984. Trafalgar Square e i Bathers montano nell’ironia della saturazione iconografica di La Scala, e dei Sunset. E dai Toaster nascono Lux 50, e Diab DS-101, ambigui diacci totem di un This is Tomorrow infine scritto, dove l’immagine è un’immagine, come un’idea è un’idea.
Hamilton, santone canuto ormai della New Generation per eccellenza, è riuscito in un’alchimia che il maestro Duchamp avrebbe amato. Le immagini non invecchiano, finalmente: perché non esistono.
Nota
Lettura fondamentale sull’artista è R. Hamilton, Collected Words, Thames & Hudson, London 1983. Sul processo di elaborazione delle immagini è esemplare R. Hamilton. Image and Process. Studies, stage and final proofs from the graphic works. 1952-82, The Tate Gallery – Edition Hansjörg Mayer, London – Stuttgart 1983.