Pitture di Rajlich, in Tomas Rajlich. Opere 1969-1993, catalogo, Palazzo Martinengo, Brescia, maggio-giugno 1993, Nuovi Strumenti, Brescia 1993

Dalla fine del decennio Sessanta, Tomas Rajlich diviene una delle figure di riferimento della vicenda pittorica che, variamente codificata e variamente analizzata, sembra attuare una sorta di interrogazione ultimativa al processo e al linguaggio.

Pittura analitica, pittura-pittura, e quant’altro: molte sono le denominazioni che, nell’Europa di quegli anni, ancora sotto lo choc problematico della minimal e del concettualismo, assume tale area operativa.

Rini Dippel, curatore di una cruciale mostra allo Stedelijk di Amsterdam, della quale Rajlich è uno dei protagonisti, indica acutamente Fundamentele Schildernkunst: e incrocia figure forti del panorama europeo con altre nate in ambito statunitense, da Ryman a Richter, da Marden a Charlton, da Martin a Girke.

Pittura fondamentale, cioè rastremata ai propri modi primi, agguerritamente concentrata nell’analisi e nello scrutinio delle radici stesse del proprio consistere in quanto pittura: artificio e disciplina, congegno del senso e pratica dell’esprimere.

Fondamentale, perché fa crescere le proprie mozioni, inoltre, dopo la ventata fervidamente dissolutoria e concettualmente assai energetica di esperienze come Azimut, e Zero, e Nul – di artisti, dunque, come Manzoni e Klein, Schoonhoven e Mack, e molti altri – in cui lo scacco intellettuale duchampiano, e la proliferazione radiante dei suoi umori, trovano declinazioni ulteriori e altrettanto radicali.

Erano, allora, anni di forte teoricismo, e l’ansia di ridurre a schemi interpretativi chiariti la complessità d’un panorama artistico singolarmente aperto e inquieto induceva piuttosto alla semplificazione per via di affinità che all’apprezzamento delle singolarità e delle eccedenze.

Dopo il panorama vertiginoso della mostra Nul, dopo le asserzioni gelide di Stella e Morris e Andre, dopo i Paragraphs di LeWitt, l’identificazione di un’area che affermasse, magari in senso dubitativo e tutto mentalizzato, l’ineludibile necessità del pittorico – con quanta filigrana metafisica si poteva intravvedere in genealogie che si richiamavano a Malevich, a Mondrian, a Reinhardt – era considerata l’ipotesi più probante della continuità d’una identità storica, quella della pittura, che, attraverso fortune e crisi infine estreme, non dismetteva tuttavia dal porsi come lo snodo disciplinare centrale, per tradizione secolare, dell’artistico.

Così, nell’area della Fundamental Painting, e nelle analoghe mostre che si moltiplicarono in quegli anni, in Olanda Germania e Italia soprattutto, sino al bilancio equivoco di Documenta del 1977, poca differenza si tendeva a fare tra tensioni alla monocromia (ecco, d’altronde, proprio nel discorrere di monocromia il sintomo tipico di un’attenzione più modale, esteriormente linguistica, che sostanziale, e rivolta dunque agli intenti concettuali ed eventualmente espressivi) di filiazione neodada e quelle nate da una estremizzazione, in senso riduzionista, del costruttivismo classico, a sua volta divaricato tra visività essenziale e scandagli metafisici; e da quelle ancora che derivavano, per ostinate distillazioni, da cromosomi autres e di pittura d’azione: per non dire di quanto, in seno a quelle esperienze, ancora pretendeva a qualità simboliche del colore, all’amplificazione indeterminata anziché alla messa in mora del senso.

Rajlich, Unititled, 1975

Rajlich, Unititled, 1975

Ebbene, allo sguardo retrospettivo che questa succinta antologica consente, proprio Rajlich è stato uno degli artisti allora più crudamente semplificati dalle esegesi ideologiche e teoriche. Si coglieva, nell’iterazione della griglia geometrica che fungeva da all-over spaziale oggettivo, e luogo specifico d’esperienza, il versante minimalizzante, magari, perdendo di vista che si trattava piuttosto della fondazione primaria – con precise poggiature storiche, dal neoplasticismo al costruttivismo – d’una concretezza di campo d’azione e di visione senza la quale ogni gesto pittorico sarebbe divenuto nulla più che un vieto esercizio formalistico.

“La forma affascina quando non si è più in grado di comprendere la forza che è nel suo interno”, ha scritto Derrida. Ebbene, Rajlich sin d’allora mirava, per atti purificati e avvertiti sino allo spasimo concettuale, a dar corso a una pittura di sostanze, e d’energie, che travalicassero il mero dato retinico: che fossero, dopo il saut dans le vide kleiniano, pulsazioni precise d’un senso possibile.

Il versante sistemico, la cadenza processuale, l’insistenza sulla concretezza visiva antiillusionistica della bidimensione, erano per lui premesse necessarie, senza le quali il dispiegarsi del colore e dei suoi gesti – intesi a loro volta nella più completa pienezza e certezza fisica – non avrebbe potuto concentrarsi sull’interrogazione della propria identità, del proprio carattere, delle proprie vocazioni.

Il colore, colpeggiato in cadenze brevi e avvertitissime, occupando di sè la totalità dell’immagine è sottratto a ogni logica strumentale, compositiva, e a ogni gerarchia linguistica: è, e si dà, per sè, in quanto sostanza stessa del vedere, dell’immagine: in quanto luce.

Gli anni Settanta di Rajlich trascorrono in un aggirarsi intorno a varianze tonali sottili, lievemente disagiate per ritrarsi dalla captazione sensibilistica, svolte tutte all’insegna della chiarità, a ridosso del bianco, d’un bianco inteso come essenza luminosa per eccellenza.

Sono, vorrebbero essere, estensioni luminose, pure epifanie, capaci semmai di coaguli nella sfera del simbolico. Che la via sia questa, è detto dalla stagione successiva dell’artista, in cui l’accortezza del gesto si concede confidenze ed eccitazioni più piene, e cadenze che tendono a sovrastare la tensione reticolare della superficie enunciata.

E’ un rimontare d’espressivo, che Rajlich ha alle viste. Esso s’incarna, nel decennio Ottanta, nel nero, nell’oro, negli aliti d’azzurro lontano, e d’un rosso spossato e pudico.

L’oro, il nero. E’ uno scorrimento metafisico, con filigrane mistiche – e l’ascendente ne è, come per i bianchi precedenti, piuttosto Klein che la pittura sistematica: del resto, le composizioni triadiche di Rajlich degli anni recenti ripensano per molti versi gli ex-voto kleiniani – ad entrare pienamente in campo.

Rajlich agisce, con ancora maggior determinazione, sul piano della saturazione dell’immagine: ma è una saturazione, ora, che non riguarda solo il vedere; è piuttosto una plenitudine che coinvolge l’idea stessa di luce associata, nella nostra cultura, al sentimento del colore e alla vertigine soprannaturale.

Ecco allora scaturire, sia pure nel nitore operativo di chi non concepisce la pittura che come autonoma, e fisica, fondazione di linguaggio e di senso, più d’una eco sapienziale.

Nelle pitture che Rajlich, in concentrazione monastica, ci dà in questi anni, pare di risentire le parole dell’antico biblista tedesco, per il quale “sì, il colore è per sua natura la comparsa e l’emanazione della luce”, ed epifania del senso del divino. Oppure l’umore delle sovranamente ambigue Sefiroth cabalistiche: oppure ancora, il riascolto meditato d’una cultura popolare – per Rajlich, cecoslovacco di nascita, l’antropologicamente ricca tradizione mitteleuropea – dalle complesse simbolizzazioni pagane, in cui bianco e nero e oro, e celeste e rosso, sono i pilastri stessi d’un intero cosmo culturale.

Nel tempo, di quadro in quadro, cresce nella pittura di Rajlich la tensione spirituale. Trascolora, in questi quadri, l’elemento attualistico, la originaria componente avanguardistica, e resta la pittura: purificata, vogliosa di trascendenze.

Nota

Sulla stagione storica dell’artista, cfr. in particolare H. Paalman, Tomas Rajlich, catalogo, Schiedam Museum, Schiedam 1971; H. Locher (a cura di), Tomas Rajlich, catalogo, Haags Geementemuseum, Den Haag 1971; C. Blotkamp, Lof der Tekenkunst, catalogo, Stedelijk Van Abbemuseum, Eindhoven 1973; K. Broos, Tomas Rajlich, catalogo, Haags Geementemuseum, Den Haag 1978. Sugli anni recenti, F. Bool, Tomas Rajlich, edizioni Peccolo, Livorno1987; P. Peters, The metaphysical monochrome or the perfect painting, in Tomas Rajlich, catalogo, Nuovi Strumenti, Brescia 1993.