Iacchetti
Cinque proposizioni per Paolo Iacchetti, catalogo, ArteSilva, Seregno, 6 marzo – 30 aprile 2010
1. Paolo Iacchetti ne fa una questione di aura. Ovvero, è convinto che la pittura possa dire. Non dire altre cose: dire se stessa, i propri valori primi, la propria sostanza: il proprio pensiero. Esserci, forte e orgogliosa di un’identità consapevole e non scalfibile. La blague intellettualistica, il discorso intorno all’arte fatto materia d’arte non lo ha mai interessato. E mai è stato convinto che ci si potesse limitare a cucinare strumentalmente ciò che della pittura è mero bagaglio disciplinare.
Iacchetti, Ombre lunghe 2, 2009
Cresciuto nel tempo dell’insterilirsi, per via dei nodi non più sceverabili di contraddizioni teoriche e operative, della vicenda della pittura-pittura degli anni Settanta, e a fianco di una generazione che aveva scelto di enfiare, della pittura, semmai il côté retorico, ha deciso la via del tutto impervia di un’etica del dipingere che nulla conceda a nulla: così scegliendo di sottrarsi, insieme, all’impasse paradossale per cui non aderire all’andazzo postmoderno significava allinearsi di necessità con il “vecchio” moderno. Cito per suggestione Michel Butor: “Non usa i suoi maestri come sgabelli per realizzare immagini che finalmente sarebbero quelle buone e le uniche buone; adotta invece come propria la totalità dell’eredità esibita, e vi aggiunge quello che gli sembra mancante”. Da ciò ha preso le mosse. Lavorando a sceverare, comprendere, delucidare, interrogare. Sempre cercando un senso. Una ragione. Un’immagine. Ciò che gli sembra, sempre, mancante.
2. Paolo Iacchetti ne fa una questione di opera. Lavora per serie, ma facendo di ognuna delle tele un progetto di totalità, un caso unico. Relato, certo, a un quadro d’insieme che sia riflettere problematico e tempo lungo, distillato, avvertitissimo, del fare; relato a un processo di pensiero e di pratica che si concepisce organico, continuo, intellettualmente ambizioso, ma che allo stesso tempo si vuole, per scelta concettuale inderogabile, ogni volta, ogni volta pieno, e ultimativo. Guardi i suoi quadri, e mai avverti il transito a un altro livello problematico. Ogni opera un mondo, ogni esperienza una messa al mondo. Per questo anche, credo, avverti parimenti presentissimo l’artista nell’opera. Il che non vale ipertrofia affettiva o sensibilistica e culto dell’ego creante, ma neppure, al contrario, sterilizzazione della soggettività in pretesa metodologica d’inemotività e di sottrazione della personalità. Ha qualcosa di molto – e non casualmente – orientale, il rapporto tra Iacchetti e la sua opera. Vi lievita la concentrazione feroce sino alla soglia del collasso intellettuale, in ogni caso alla soglia dello smemorarsi di se stesso in quanto persona contingente per farsi, a un più elevato ed esclusivo livello, autore. Artifex, verrebbe da dire, ma nel senso altissimo che il suo processo non è dalla mente alla mano, ma mente/mano/mente/mano, che è il farsi dell’opera in perfetta unità, parità, complicità, solidarietà con l’artista agente.
3. Paolo Iacchetti ne fa una questione di visione. Visione, non mero vedere. La fisiologia dell’opera è in lui dato accessorio. Le dimensioni sono perciò importanti, ma a stabilire che il quadro non si vuole né finestra né cosa: piuttosto, presenza visibile. E la pittura è sostanza, non materia. Il visibile implica i sensi, la loro aspettativa, la loro ragione. La pittura li attrae, li coinvolge, e subito si ritrae, innescando uno stream temporalmente lungo, allentato, dilatato, in cui l’esperienza fisica prende a dilavare in condizione psicologica, e poi in pensiero. Per questo decisiva è l’esperienza del colore, quella sua renitenza alla restituzione estetica diretta, quel suo tessersi di plurimi caratteri, condizioni, accidenti, quel suoi farsi sempre rapporto e mai enunciato: sempre domanda allo sguardo, mai offerta. Per questo stai lì a chiederti quanto conti il fatto che la sostanza pittorica ti confessi il suo crescere elaborante, i passaggi e i bivii di scelta, le sue ansie di purezza e i suoi transiti nell’impuro. Quanto questa pittura così rastremata sia madre e figlia di una vasariana “pratica dei colori” che sia, prima di tutto, richiesta alla sostanza di farsi “tonos” non tra luce e ombra, ma tra vedere e non vedere.
4. Paolo Iacchetti ne fa una questione di pittura. Meditazione sulla pittura, e della pittura. Meditazione, ovvero esercizio continuo cui solo il fare rende pienezza intellettuale. La pittura è tutti i suoi strumenti e i suoi accessori, tutta la sua disciplina, tutta la sua vicenda, tutta la sua ideologia, tutta la sua teoria, tutta la sua pratica, tutto il suo metodo, tutta la sua improvvisazione, tutte le sue regole, tutte le sue eccezioni, tutte le sue ipotesi, tutti i suoi errori. A patto di nessuna mediocrità. A patto di nessuna mortificante definizione. Difficile, difficilissima: impervia, tremenda. Basterebbe poco per piacere e compiacere. Ma quello sarebbe un uso della pittura. E l’idea che Iacchetti ha della pittura non prevede uso: mira a un’alterità ogni volta ultima e definitiva, a un compiersi che è unicum di spazio e tempo e luogo: che è senso.
5. Paolo Iacchetti ne fa una questione di storicità della pittura. Il che non significa che vuol farsi figlio, erigendosi una genealogia che gli sia scudo, e neppure padre. Vuole solo, “solo”, guardare il Giotto degli Scrovegni e il Rothko della Cappella di Houston e dirsi che quel senso è, deve essere, ancora possibile. Che la pittura fa e può fare questo. Dovesse scegliere tra le alternative poste da Gottfried Honegger nel testo meraviglioso per La couleur seule, 1988, la sua scelta di monocromia – monocromia complessa, processuale, problematica – è in parti uguali “rejet de la consommation”, e “hygiène esthétique” nel senso alto della mozione intellettuale, e zona di “concentration” e d’“intégralité”. A fronte della domanda estrema. Quella che riguarda “la mystique, l’intériorisation, la contemplation, l’imperceptible, l’indicible, l’infini-éternel, la sensibilité pure, le rien”.