Michael Goldberg. Opere su tela e su carta 2000-2001, catalogo Galleria Peccolo, Livorno, 2001

Senza la presunzione di  capire e sistemare l’universo, lavora Michael Goldberg. Egli stesso scrive che “si è tentati di credere che la pittura possa parlare di assoluti. Ma ho seri dubbi. Solo aspetti, frammenti o, meglio ancora, brevi bagliori di questi assoluti”. Brevi bagliori, come le sindoni straniate che Balzac racconta nel Capolavoro sconosciuto, adottato da Dore Ashton a chiave d’accesso per una delle migliori letture della vicenda della New York School.

Di quella stagione, eretta ormai apparato mitologico più di quanto fosse negli auspici, Goldberg è stato d’altronde uno dei protagonisti. Nello studio del Bowery che era stato di Rothko nascevano le sue opere, fianco a fianco con altri “capolavori sconosciuti”.

Goldberg prediligeva, come altri del resto, la carta. Per quella misura fisiologica del tracciare, un tracciare cruciale assai più del tracciato, per il quale, nell’orizzonte europeo, René de Solier diceva di “biologie de l’acte d’écrire, peindre, dessiner”, e per il quale Goldberg stesso conia l’espressione sintetica “rapidità visiva della mano”: che invadeva e involveva la corporeità e le fluenze emotive tutte dell’autore, e gli chiedeva insieme consapevolezze, un desiderare, più che la forma, una formatività.

Della lezione di Hofmann, essenziale in modi non ancora del tutto sceverati, egli non riteneva tanto il passo del far grande, la movenza larga ed eccitata, ancorché consapevole, del braccio; gli importava assai più la condizione dell’avvertimento lucido, impietoso, degli impulsi attivi e del loro atteggiarsi in immagine. Era una identificazione radicalmente qualitativa dello spazio, e dello spazio tutto come altro e doppio dell’autore, quell’essere organismo che chiede identità e destino, che vive di rapporti tensioni perdite, che non si spende per seguire le vie sterili del riconoscimento, quanto i meandri ardui del conoscere e conoscersi, del tentare, con estremismo disincantato, la via d’una bava, ancora, di senso possibile.

Le tracce nere del Goldberg antico paiono voler scrivere, come un sismografo dell’anima, i corsi divaganti, le pause e le impennate, le tenerezze e le irritazioni, e insieme farsene materia: come i suoni di Parker e di Coltrane, montanti a farsi misura e carattere, identità, d’uno spazio prima ancora che funzioni d’una forma preventiva: e scritture sonore, tanto quanto queste sono graphies.

 

Goldberg, Untitled, 1959

Goldberg, Untitled, 1959

Si è scritto, spesso, di una affinità  di questo segnare con le nerità di Kline. Nel quale, tuttavia, prevale l’ansia di scandire ogni monema grafico come elemento, e di mantenere esplicito, giusta la lezione dell’avanguardia europea, il valore di superficie del campo pittorico. In Goldberg, invece, avverti una diversa e intensificata logica di rapporti, un transitare continuo del segno agli altri, e ad altro, una sorta di dynamis che non è mimetica del gesto ma autonoma condizione attiva; e la conseguente misura dello spazio come blankness a sua volta attiva, adimensionale, o pluridimensionale, piuttosto che assiomaticamente bidimensionale.

E’ davvero, il suo, un territorio, luogo di consistenze mai d’allusioni, di sostanze mai d’evocazioni, men che meno di metafore. E’ un hic et nunc, ma forzato a non avere nostalgia delle volumetrie, dell’ordine interno d’una forma, eidetica o pratica non importa.

E’ questa chiarezza d’approccio, d’altronde, unita alla messa in mora dell’atteggiamento titanico, ancora intriso d’esemplarità e del retaggio romantico dell’ “io solo combatterò”, caratteristico di molta della pittura d’azione, in favore di una sorta di disincanto criticistico della natura stessa e del destino dell’operazione artistica, a far rifuggire Goldberg dalla retorizzazione nuova della dimensione enfatica dell’immagine: che si serra invece, in lui, in una pura questione di proporzioni, indipendentemente dalle condizioni oggettive.

Ed è una chiarezza che gli consente, in seguito, di affrontare la questione del colore, colore/luce e colore/materia, aggirando per altro percorso – più affine per altri versi, semmai, all’alterità scarnificata di un Wols – anche il rischio di implicite equivalenze, che sarebbero suonate comunque di filigrana rappresentativa, tra la corporeità del fatto pittorico e quella dell’esistenza.

Eccolo, dunque, dipingere con materie dense e forti che si aggrovigliano in una sorta di scrittura ansiosa. Essa invade lo spazio del foglio e viene squarciata da lampi di gialli, rossi, celesti intensi. Goldberg mantiene la stessa tensione nervosa del segno segno, lo stesso stratificarsi di rapporti per collisioni e impulsi; soprattutto, la stessa idea territoriale dello spazio dell’immagine.

Ora, in questa sapienza ultimaativa ma non spossata della maturità, egli diversa ha forse la contezza del caos, che ha preso ad avvertire non più come il differenziale agonico d’un operare che sappia in sé il proprio lògos, e attraverso il caos stesso trovi le proprie movenze, bensì come l’ambito d’autonoma necessità del pensare e pensarsi nel fare, del fare, la condizione fondativa: anche della nozione fondamentale d’esistenza.

Ecco, così, la sua pittura farsi, con ancor più distacco da ogni hybris ordinatoria, viaggio nel caos, affidato al guscio sottile ma infine confidente della pittura, della sua idea stessa ossessiva: che è quella di un dire, di un fermare l’indistinto, tentando di carpirvi, infine, un bagliore d’assoluto.

 

 Nota

Ottimi repertori recenti sull’artista sono D. Shapiro – J. Gilbert-Rolfe – E. Longari, Michael Goldberg, Primaprint, Viterbo 1997; Michael Goldberg. Untitled. Lavori su carta 1962-1999, testi dell’artista, Edizioni Peccolo, Livorno 1999.