Fautrier
Jean Fautrier, in Jean Fautrier, catalogo della mostra, Galleria Civica, Modena, 9 ottobre – 4 dicembre 1988, edizioni Cooptip, Modena 1988
Quando, nel 1920, Jean Fautrier rientra stabilmente a Parigi dal peregrinare dell’infanzia e dell’adolescenza, per intraprendere l’attività dell’arte, impianta le prove d’esordio su un bagaglio di formazione eteronoma, drastico nelle negazioni, certo d’una vocazione che si affida non a indirizzi preventivi, ma all’ansia risoluta di quella “liberazione del temperamento interiore” che, sempre, sarà termine costante della sua attitudine espressiva.
Non l’accademia, con la quale ha avuto rapporti sfíduciati, nell’adolescenza londinese. Non il museo, la cultura auratica dei modelli, con quel tanto di mitizzazione e celebrazione che già proietta sulle figure canoniche della tradizione nuova, impressionista.
Neppure, per converso, il bamboleggiarsi della cultura d’avanguardia nelle certezze erose ormai, ma fideisticamente conclamate, del Venti. E’ come se il pensiero intero della pittura, il suo volersi dare un destino, per ipertrofia di dibattito e schematicità di polarizzazioni ideologiche, recitasse ai suoi occhi voraci e impietosi un gran teatro di figure senza sostanza, senza radice, senza ragione: più o meno fascinose, ma inutili.
Egli, atteggiandosi a severo dilettante, pudicamente – ironicamente anche, forse – celato dietro la propria illetteratezza, la vaga naïveté, l’indifferenza ai termini specifici degli alti ragionari artistici, vuol salvaguardare una tensione all’autentico, alla purezza dell’avvertirsi e manifestarsi al mondo, all’esprimersi irrelato e diretto, che non accetta abbigliamenti culturali e stilistici cogenti.
E’ un sentimento posto e perduto, questo, in apertura di secolo, da molti, fauves ed espressionisti in testa; ma sempre imbrigliato e deviato da intenzioni testimoniali, d’esemplarità, d’utitità. Non così è in Fautrier. L’affondare, in pienezza di sensi e intelletto, entro l’esperienza esclusiva di sé e del mondo attraverso la pittura, è il viaggio stesso – rischioso, ossessivo, impadroneggiabile, inappagante e doloroso soprattutto, ma capace di pienezza vitale – in cui si può giungere a trovarsi, a conoscere la propria fondante, ineludibile diversità, a intravvedere la propria singolarità irripetibile: e dirla a se stessi, sapendosi.
“Je peins parce que j’ai du plaisir à peindre. La peinture des autres ne me sert à rien. Je destine la peinture à mon propre usage”. Così, molti anni dopo, a chi gli chiederà perché dipingere. Che tale posizione sia preventivamente acclarata, nel giovane Fautrier, è detto da due aspetti non subordinati della sua attitudine fondamentale.
Il primo riguarda l’innesco stesso del suo rapporto con la realtà. Termine ineludibile di concreta esistenza è, sin dall’inizio, il complesso dell’esperienza sensoriale, per l’artista. Non, però, in quanto specchio di riconoscimenti, di trasposizioni derivative o proiezioni di sembianza; non, soprattutto, in quanto portatore di garanzie concettuali spendibili in sé, costituibili in coscienza. La fantasmagoria della percezione non è che acchito, “materia prima” dice Fautrier, modalità possibile della realtà, attraverso l’esperienza profonda della quale egli può configurare, in pittura, un grado non meno probabile di esistenza: per equivalenza genetica e di necessità di coscienza, non per trasferimento.
Fautrier guarda, per poter avere una visione. Figura, per potersi figurare. Perciò, sin dagli inizi, il suo fastidio per la divaricazione figurativo/astratto, su cui tutto il discorso d’arte pare vertere, è assoluto.
Altra è la questione, è attingere il rapporto di reciproca alterità della realtà esperibile e della realtà esprimibile, in pari verità, in assenza di dipendenze, nell’unità stringente del processo di coscienza dell’artista.
Al di là delle risultanze qualitatíve, dell’acerbità aspra delle prove che si allineano fino al 1926, questo dice la durezza dello sguardo di Fautrier sui primi modelli, figure o nature. La carnalità, la forza plastica, vi è ritrovata penetrando le fattezze in uno scavo impietoso, che cresce su materie sorde, livide, toccate da lucori acidi e spodestati di grazia, in dominante violacea, poi bruna: a segnare un’interna dismisura nel possesso del tema, uno spostamento d’accezione e rapporto che intuisce già una sostanza diversa della forma.
Il secondo aspetto è la concentrazione sul lato tecnico della pittura, sulla padronanza d’un repertorio di registri fabrili che (nella più assoluta indifferenza per il talento, per lo stilismo) gli consenta di tener sempre vivo un decantato rapporto con l’espressione, di cui l’aspetto linguistico sia il naturale, ma non problematico, codice genetico. Se la pittura è costituzione fondante d’un concreto stato di realtà, la tecnica non ne è modalità astraibile, ma connaturata ragione formativa, garanzia stessa di possibilità.
L’agguerrito sperimentalismo, e insieme il rifiuto di aderire a modelli correnti, fino a distillare una propria “étrange maîtrise” (Paulhan), da questo dipende: un’esperienza che sia attuazione cosciente d’un reale non può consentirsi facoltatività, traduzioni, codificazioni eteronome: l’atto di pittura è, non più metaforícamente, crescita corporea d’immagine.
E’ dal 1926 che l’attitudine inestetica, di notomia figurale pulsante d’espressivo, nutrita in modo non esteriormente letterario di “maledettismo” (nella memorabile monografia, Bucarelli individua con ampiezza e precisione il leit-motiv dei suoi riferimenti, il filone “maudit” che da Rimbaud e Lautréamont corre fino a Genet: d’altronde tale nutrimento più poetico che pittorico lo farà sempre prediligere più dai letterati che dalla società artistica), trova un primo momento di maturità. Paesaggi, fiori, animali squartati, ma soprattutto nudi femminili, segnano l’affondare senza riserve dell’artista in quella che Bucarelli ha indicato “saison en enfer”, il periodo che Fautrier stesso chiama “noir-noir”. L’approccio è, esplicitamente, alle convenzioni tematiche di genere. Fautrier aggredisce l’alonatura simbolica, d’identificazione alta dei soggetti, quella sorta di risacralizzazione dell’esistenza in una sfera d’apparenza incontaminabile, che è di questa tradizione.
Regrediscono, esseri e cose, a fenomeni d’una misura bassa e indistinta del mondo, corruttibile, intrisa di tensione mortale: che l’artista guarda, e fa essere in pittura, inemotivamente, ma in una sorta d’eccitazione allucinata, venata di morbosità, che trova il passo proprio di quella contiguità alla dissoluzione.
Intuisce, Fautrier, che la forma è ben più che un presupposto d’apparenza: è la dignità stessa d’esistenza, che in quella ragione fatta corpo, individuum, ha luogo.
La nerità di queste pitture è sottrazione. Se la resa d’immagine, nella snervata elementarizzazione, nella riduzione involuta, ha valore di regressione a una formatività ignara di destino, compromessa con un sordo indistinto materiale – e un corpo può darsi geologia umida di carne – ciò avviene perché il colore, che è farsi spazio della luce, qualificazione di sostanza, è accecato, spossato dal bagliore maligno che v’incide, avaro, crudo.
Sono corpi, fiori e donne, estranei alla bellezza, incapaci di desiderio, evidenze trasecolate in muta presenza: ma forti, piene, enfiate d’una concretezza che è coagulo di materia, forma d’irragionevole destino che cresce come per compressione dell’ombra.
Fautrier prende non solo a disserninare i quadri d’inattese acutezze esecutive, innesti d’esteticità estenuata che, per violenta dissonanza, tengono ulteriormente in scacco la gratificazione dello sguardo.
Alla perdita d’accordi tonali, di differenziali cromatici, di rapporti articolati, sostituisce un segno che incide lo spessore ancora ottuso, quantitativo delle paste, lo risospinge a dirsi, a ricaricarsi d’una nervosa energia, d’una aspettativa d’apparenza qualificata.
Non è il segno kleiano, ancora, ma un segnare intenzionato, agire materiale consapevole che, anziché distinguere e definire, contornando, misurando, chiude e apre insieme voglie di forma, incide la crosta opaca come per farne sgorgare l’interna vitalità, la capacità di mutazione al tempo: trovando, oltre che risonanze, interni stati d’equilibrio dell’immagine, un momentaneo ma certo comporsi in stabilità, centripeta, assettata.
L’amato Turner – uno dei rari espliciti riferimenti dichiarati da Fautrier – è certo lievito fertile, con quell’interiorizzazione della luce fino a saturazione spaziale, e più ancora sarà in seguito. Altri ripensamenti, indiretti, lontani magari, sono per l’eccitazione carnale di un Vlaminck, d’un Soutine, ma anche per il duro ponderare le figure di Braque, e per echi plurimi d’espressionismo, in testa certe sintesi acide di Nolde.
Diverso però è il destino di Fautrier. Tra il 1928 e il 1930 giungono a chiarezza altre certezze.
La complicità ormai divaricata tra materia e segno, la perdita di responsabilità del valore descrittivo, la pulsante forzatura espressiva del passo compositivo, portano l’immagine a crescere per rigore ultimativo, in assoluta indipendenza dal rappresentare, dai residui tematici: “defigurando”, dirà l’artista. Le celebri litografie per l’Inferno dantesco, i paesaggi, le ulteriori nature morte, offrono immagini che sono il coagularsi stesso della materia, come per emersione dall’indistinto, per differenziazioni trovate e agite da un gesto che risponde esclusivamente alle correnti della propria fisiologia, così concentrato su se stesso da poter attuare solo una propria introversa coscienza d’esistere.
Più ancora che il confine, concettualmente labile e già, in sé, dissolto, del figurare, il rimuginio di Fautrier tutto implicato nel fare pittura intravvede limiti, vincoli ben più sostanziali.

Fautrier, Sarah, 1942
L’identificazione e la purificazione d’uno strumentario tecnico capace d’autentica espressione si scontra con la qualità, convenzionale più ancora che concreta, della tela come pellicola/schermo, totalità statuita di spazio e insieme distanza, profondità: luogo, comunque, preesistente e stabilmente separato, supporto impenetrabile e sfondo, rispetto all’avvenimento pittorico.
Fautrier, il cui processo espressivo comporta quasi un addossamento fisico al supporto, una compromissione corporea che faccia dello scavo figurale una tensione agonica, non un esercizio stilistico, necessita d’un luogo che sia, in tutto, porzione concretamente definita ed esperibile, spazio in sé materiato, involvente, capace d’una intimità e d’una crescita.
I primi saggi dell’enduit, la tecnica che, di lì a poco, gli sarà tipica, a questo mirano.
Molto più d’un artificio esecutivo, per nulla discendente da avanguardismi innovativi, l’enduit è dimora specifica, concettualmente e fisicamente precisa, di un’immagine che sia, in tutto, autre; e vera.
L’artista avverte di essere al passaggio cruciale della propria esperienza, alla soluzione d’un nodo problematico fondamentale.
Per quasi un decennio mette in mora ogni volontà di “fare il quadro”, e si concentra sull’esercizio tecnico, su una maestria che disponga d’uno spazio come luogo fisico proprio, d’una materia come quantum costitutivo separato dal colore, del colore come sostanza e qualità apparente, del segno come flusso energetico formativo, distinto ma congenito alla materia. E’ una sosta espressiva lunga, cui non sono estranee ragioni biografiche, di sussistenza: segni entrambi, il rinchiudersi nella sperimentazione e la rinuncia di fatto alla pratica pittorica, d’un intendimento dell’arte come esperienza individualmente necessitata, privatissima, slegata da codici professionali così come dalla nozione dell’esistenza stessa d’un pubblico: che non è, però, rinuncia d’ethos, semmai rigorosissimo estremismo morale.
Nel 1939-40, rientrando nuovamente a Parigi in modo stabile, Fautrier riprende la pittura regolarmente.
La carta, intrisa d’enduit lattiginoso e vitreo, è segnata da germinali tracce disegnative, sulle quali si stratifica, per spessori densi, grumosi, sensualmente varianti, la materia, a convocare nuclei di forma possibile. Essi, a loro volta, sono abitati dagli accadimenti del colore, addensati o velanti, pulviscolari o granulosi, mai coprenti, mai stesi a far tegumento che sia pelle, che marchi una discontinuità tra materia crescente e luce fisica che incide, ed esplora, introvertendosi al flusso formativo.
Altri segni s’incidono fendendo, o paiono affiorare come impronte moventi un controtema, che è insieme eco e desiderio d’un ritrovarsi in forma formata.
Già alla fine degli anni Venti, tra le maglie della dominante cupa – bruna nera grigia – lucori incerti di colore prendevano ad apparire: rosa smemorati di carne, blu e verdi sottilmente corrotti, tonalità gialle ferite. Ora, nelle hautes pâtes, lo spettro può articolarsi pieno, definitivamente straniato da intendimenti ideologici ed equivoci strumentali, pura svariante modalità qualitativa – e quanto, in ogni senso, eventuale – della materia. Il tono medio, la dominante neutra che abbassa i picchi e rende omogeneo il clima cromatico dell’opera, permane, comunque, a rinsaldare il valore d’unità reale, organica dell’immagine.
Sono, questi quadri, forti concrezioni centripete, convocazioni di forma/spazio a una pienezza e autorevolezza emotiva, pulsione di stremante sensualità fatta energia di pittura, che replicano alla monumentalità dell’arte ordinaria con la grandiosità genetica di questo epos muto, capace propriamente d’apparenza e di corpo, d’oscura germinazione e speranza di bellezza.
Ancora, l’innesco della crescenza espressiva è un’immagine del mondo. Ancora, sono visioni dal paesaggio, dalla natura, dalla figura. Ma la penetrazione cosciente e impreventiva, totale, che Fautrier attua è, sempre, un accesso al femminile, all’oscurità sensuosa ove s’annida, célinianamente, “il segreto del mondo”.
Soprattutto le serie di disegni, pastelli, gouaches, che corrono in continuo sottesi allo scrutinio radicale e ossessivo dell’artista, mostrano come l’intendimento della figura femminile in corpo e natura, vaso emotivo e concreta pienezza sensoriale, sia ben più d’una trasposizione meccanica di motivi psicanalitici, o un residuo simbolico di genere: è segreto del mondo, in quanto segreto della forma.
Tra il 1942 e il 1945, nel momento più drammaticamente teso e ansioso non solo della sua vicenda biografica, ma anche, e più in radice, della sua interiore costituzione di mondo, ecco per Fautrier gli Otages, rêverie angosciata intorno al tema della vittima, della mutilazione di identità attraverso l’accecata mutilazione della dignità del corpo.
Le hautes pâtes virano i propri nuclei germinanti a ottuse concrezioni chiuse, gravi, impotenti nella luce estranea, alienate alla ragione vitale che, brulicando oscura, fa nascere. Nella ripetitività ossessiva, in quell’allucinazione monocorde, il senso carnalmente disperato di Fautrier nuovamente, come agli esordi, rigurgita la bellezza possibile: e proiettandosi sulla storia, la investe con la vertigine lucida dell’inane, dell’impossibilità di destino.
Solo, non casualmente certo, alcune foto di Wols mostrano pari straniante, disperato sguardo sul mondo, pari lancinante – e proprio perciò autenticamente testimoniale –inemotività: il “partito preso delle cose” di Francis Ponge, poeta e massimo sodale di Fautrier, vale, talora, ben più d’un proclama etico.
E’ un momento. Né è sminuitivo del suo indiscusso valore civile, di coscienza, riportarlo al corso delle interne vicende di Fautrier. Se, negli Otages, la materia si rinserra incupita, e il corso lineare s’involve a chiudere, separare, incidendo una discontinuità tra la figura e il suo spazio, nelle prove dei successivi anni Quaranta i dipinti riprendono il loro intessersi ambiguo e proliferante, che cresce in forma ritmicamente, struggendosi in accordi segreti, non privi ora di taluni accenti di captazione estetica. Il segno, inciso dipinto, trova fluenze più sensuosamente eccitate; le materie, nell’abbandono a lievitazioni cromatiche più pienamente mature e intense, decantano la loro grevità grumosa in modulazioni d’emotività più vibrante e sottile.
Ancora sono corpi, di oggetti e persone, la cui fisicità Fautrier prende a intendere con piglio di nuova auscultazione analitica e inventiva.
Il nucleo di pasta trova una più complice emergenza dall’enduit, e si sostanzia più naturalmente di fremiti colorati nella luce. La linea corre, con le movenze rabescanti dell’organico o quelle, d’intenzione appena designativamente geometrica, d’un divagante e improbabile echeggiamento prospettico.
Sono, queste immagini, “plutôt qu’un objet, un débat entre rêve et matière” (Berne-Joffroy). Non più febbrili, non più irritate da uno scavo che è ancora fatica verso una conquistata organicità pittorica, esse hanno l’intimo orgoglio e la forza di una naturalezza, d’una cosmogonia minima avvenuta, lì, in virtù di un’alterità ormai affrancata. Ancora una pausa biografica, tra il 1949 e il 1953, allontana Fautrier dalla pratica proprio nel momento in cui il mondo dell’arte, per corsi differenti, è giunto all’art autre, alla pittura d’azione, all’informale: ed è disposto, sia pure continuando a sospettare di quella sua sontuosa estraneità qualitativa e d’atteggiamento intellettuale, a riconoscergli meriti, avanguardistici primati.
Con intransigenza caparbia, che neppure la ritrovata serenità economica riesce ad attenuare, quando egli torna all’arte rivendica una diversità fondamentale, che non deriva da malintese posizioni di precedenza, ma dalla necessità di salvaguardare la specificità e la profondità esclusiva della propria vicenda artistica, rispetto al campo di equivoci stilistici, modali, su cui si erige intero il dibattito mondano.
Poeta ancora, e maledetto, egli si sente, né è disposto a contrattare e contaminare la propria rischiosa marginalità: non a caso solo Wols, disperato avventuriero dell’arte, riconosce amico e consanguineo, in questi anni.
“L’irréalité d’un ‘informel’ absolu n’apporte rien. Jeu gratuit… On ne fait jamais que réinventer ce qui est, restituer en nuances d’émotion la réalité qui s’est incorporée à la matière, à la forme, à la couleur – produits de l’instant, changé en ce qui ne change plus”. “Laissons tous les suiveurs qui n’ont puisé là que moyens pour étonner – la peinture délirante, le geste spontané – la fusion de matières sidérantes – la peinture en quinze minutes – ne sont que propos de vente et propagande”.
Così scrive Fautrier, in A chacun sa réalité e in Parallèles sur l’informel, rari testi, occasioni atipiche per porre, più che motivazioni, steccati di discontinuità dal tempo suo. Vi insiste sulla tecnica, ribadisce la diversa radice delle taches, dei segni d’andamento psichico, dei turgori delle materie, del passo intimo, soprattutto, della sua propria organicità, rispetto alle vicende coeve.
La veemenza, il furore, la tensione ansiosa d’esistenza, non trovano in lui traduzioni estroverse: sono dati d’una coscienza capace di calarsi, nuda, nell’avvertimento del mondo, riaffiorandone in immagini rette da salde, nette ragioni interne, da una formatività tanto più emotivamente risentita quanto più oculata, precisata, motivata: “E’ coscienza nella sua verità non tanto pre-logica quanto necessariamente a-logica d’un reale, d’una pressione esistenziale…” (Crispolti): ma “questo ‘informel’ si svela quasi forma pura, un’accezione scoperta del ritmo” (Brandi).
Non casualmente, certo, il corso felice dell’ultimo decennio di Fautrier dispiega un rapporto non meno intenso con il formarsi dell’immagine della materia, ma poggiato su una più tersa clemenza espressiva, sul fiorire d’una sempre più consistente bellezza sensibile che, nulla togliendo alla lucidità tagliente dello scrutinio, immette pulsazioni e umori vitali nuovi. Sono sequenze, ancor più folte e regolari, di corpi e teste, eccitati dal crampo breve e intensivo del segno che mette in risonanza il grumo di forma, lo rialza dalla luminescenza meditativa dell’enduit a offrirsi alla captazione irritata dell’altra luce: carni ancora sono, portatrici d’eros oscuro ma vitale; oppure ancora, a far inno, risoluto questa volta, concitato, alla dignità del martirio dei partigiani di Budapest, 1956.
Oppure, sono scatole e oggetti, che guadagnano lo spazio per rifrazione continuamente dissonante, tra i barbagli geometrici che vi risuonano e l’agglutinarsi breve, crepitante delle spatolate, con quei colori che paiono lente combustioni, trascorrenti da un continuum materico che regge l’intonazione emotiva, a picchi, stupefatti purificati, di colore che si rialza in una sorta di sovratono nitido, acuto. La proiezione prospettica vi si comporta come, altrove, la plasticità dei corpi, perdendosi senza dismettere concretezza, ricrescendo in proprietà di materia e di luogo autoctona. I titoli tralasciano, più spesso, il valore consueto di scarto e innesco poetico/ironico, per dire Composizione, Simmetrie, Variazioni, per parlare di avvenimenti di forme e linee e colori: essi stessi, in questa pittura, fatti cose, consistenze, presenze vere, epifanie di realtà in uno spazio reale.
Sono, soprattutto, paesaggi, in cui il primitivo grumo centrale pare sfaldarsi, identificarsi nell’idea stessa di natura come brulichio di umori e materie in crescita efflorescente e dissoluzione mortale, in colori gemmanti e oscurità sontuose, in spazi di perdita infinita e insieme di turgida pulsazione fisiologica.
Più che un tema, questo diventa “le motif” per eccellenza: ma motivo dell’anima, ormai, così definitivamente introvertito e capace di piena espressione – al pari del variare inventivo delle composizioni non descrittive – da potersi consentire più paniche, e insieme emotivamente fluenti, incursioni nell’ambiguo tra visione e natura percepita.
Ancora, lo sguardo è però duro, impietoso non indifferente. Ancora, l’impasto cosciente conosce sensualità tese fino alla febbre o estenuate fino alla grazia, dismisure d’avvertimento e severe decantazioni nel ripensamento.
La pittura di Fautrier, agli esiti estremi, resta rinserrata così, nella sua erta poesia, nella sua padronanza lucida dell’imperfetto, dell’impuro, aristocraticamente muta al pathos, alla declamazione, all’omaggio estetico.
Vera, d’una verità ineludibile, come quasi nessuna in questo secolo.
Bibliografia essenziale
A. Malraux, Les Otages, catalogo, Galerie René Drouin, Parigi 1945
F. Ponge, Notes sur les Otages, Seghers, Parigi 1946
J. Paulhan, Fautrier l’enragé, Blaizot, Parigi 1949
A. Berne-Jouffroy, Les objets de Jean Fautrier, in “La Nouvelle Revue Française”, Parigi, maggio 1955
J. Paulhan, Un jeune ancêtre. Les Objets de Fautrier, catalogo, Galerie Rive Droite, Parigi 1955
F. Ponge, Paroles à propos des nus de Fautrier, catalogo, Galerie Rive Droite, Parigi 1956
M. Ragon, Fautrier, Georges Fall, Le Musée de Poche, Parigi 1957
J. Paulhan, Grace et atrocité de Fautrier, in “XXè siècle”, 11, dicembre 1958
A. Verdet, Fautrier, Falaise, Parigi 1958
E. Crispolti, Maestri francesi d’oggi. Fautrier: mostra di opere dal 1928 a oggi, catalogo, L’Attico, Roma 1959
P. Bucarelli, Jean Fautrier. Pittura e materia, Il Saggiatore, Milano 1960