Afro, Renato Birolli, Serge Poliakoff. Veemenze confrontate II
Afro, Renato Birolli, Serge Poliakoff. Veemenze confrontate II, catalogo, galleria Morone, Milano, 11 febbraio 2010
“Far durare la convinzione dell’immagine prima, darle corpo con un cromatismo accorato, eppure di calcolata fragranza, comporta un ritrarsi dell’Io, un obbedire al destino della figura, che la divagazione cromatica accende, allunga, dilaga”.

Afro, Madera, 1965
Così scrive Gabriella Drudi a proposito di Afro ma, a ben vedere, più latamente di una compagine non banale della generazione grande degli anni ’50: la quale non accoglie tout court il costituirsi in retorica della parlata autre (né, e non sarebbe neppure in caso di ricordare, il soprassalto neorealista) e piuttosto si volge a fondare una condizione necessitata dell’espressivo a partire dall’astrazione, o per meglio dire da quello che con sintesi deliberatamente ambigua Lionello Venturi indica astratto-concreto.
Una lingua, dunque, che si vuole senza remore astratta, ma ove si intenda per astrazione un fatto pittorico meno metodicamente architettante e formalistico della declinazione che ne dà l’ortodossia geometrica di Abstraction-Création e del concretismo, che sia piuttosto intriso e nutrito di biomorfismo, di rapporto d’esperienza con il mondo reso materia memoriale e pulsazione lirica, di auscultazione e scrutinio amorevole: attento alle vocazioni di forma e materia, e in generale a una nozione nuova di intimità dell’essere, del fare, dell’immagine. Scrive Dora Vallier che quella di Serge Poliakoff e degli autori in quel tempo a lui affini è “peinture toute repliée en dedans, où rien ne veut converger à l’extérieur”.
Negli anni, 1937-1938, in cui Poliakoff espone le prime prove d’una astrazione di cui, da subito, rivendica la natura di flusso e trama di relazioni, di nascenza della forma in complicità e solidarietà con l’idea – nel cui concetto pare avvertirsi la filigrana, decantata e non stereotipata, della secentesca “idea del pittore”: “L’Abstrait est un enchaînement de pensées, la pensée isolée cesse d’être abstraite”, ribadirà in seguito l’artista – Renato Birolli ha appena affidato ai suoi Taccuini, siamo nel 1936, riflessioni come queste: “Il mio quadro agli inizi è come un seme. Amorfo rispetto alla futura pianta. Una pittura al suo nascere è un cumulo di forze incorrotte, dense, a forte peso specifico. Difficile è distenderle in una spazialità che non menomi la forza iniziale. […] Penso a un presagio di forme non ancora sistemate nell’iconografia della natura”; e ancora: “Eppure, quale risorsa per la pittura. Quale fulgente precipizio nella massa e nel coagulo. E quale terreno per una forma liberamente libera. Nessun colore soggiogato da una forma a priori. Se mai una tensione universale a tutte le forme”: intuizioni, queste, per le quali spende il termine di amorfismo.
Se il 1951 è l’anno di “Véhémences confrontées”, la mostra che da Nina Dausset allinea Bryen, Capogrossi, De Kooning, Hartung, Mathieu, Pollock, Riopelle, Russell, Wols, il 1952 non è solo l’anno di Un art autre di Michel Tapié, ma anche quello di Otto pittori italiani di Lionello Venturi, in cui Afro (che tiene una personale da Catherine Viviano a New York, dove ha già esposto nel 1950) e Birolli (che da Viviano è nel 1951) sono con Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova; ed è l’anno in cui Poliakoff, dopo i riconoscimenti ottenuti presso Denise René e Dina Vierny, può infine dedicarsi completamente alla pittura. In loro, tutti, la veemenza non è nel gesto, non nell’effusione, ma nell’ansia anche etica di instaurare una pittura fatta di sostanze autentiche, oltre ogni retorica; una pittura di idee e di ripensabilità, che si vuole astratta non per nominalismo modale ma perché il suo trascendere il dato sensibile non è paradigma ma lenta, elaborante, distillante definizione di memoria nella qualità autonoma della materia, del segno, dello spazio; una pittura, ancora, appartata e ritegnosa, ma quanto intensa, in un tempo di clamori.
In quest’epoca Afro ha già ben chiaro che la fluenza automatica surrealista, quel suo comprimere e dilatare per dilavamenti emotivi lo spazio e la fisiologia dell’immagine, può essere esempio – non modello – d’una trascrizione decantata, procedente per condensazioni progressive di consapevolezza, del dato d’innesco. Scrive Venturi che “egli non fa appunti dal vero ma dalla memoria” e che “la sua creazione ha un rito lento ma con qualcosa di finito in sé e come definito”, e che tutto ciò proprio nel 1952 lo porta a “valori pittorici più liberi e complessi”.

Birolli, Incendio di notte nelle Cinque Terre, 1955
Operando con rigore scrutinante in controcanto all’alea del tracciato automatico, Afro passa dal nucleo genetico primo dell’immagine alle sue specificazioni ultime, trovando un passo di crescita dell’immagine dinamico, strutturalmente aperto, che muove da una sorta di nucleo curvilineo introverso, o da un rappreso grumo geometrico, e matura fluidamente, come una proliferante nervatura strutturale: e il colore ora è zonatura che pare ricucire la spaziosità lacera del campo visivo, ora complemento genetico, e, sia pur velata, disustanziata, materia fisiologica. “Il colore è moderno: e fondandosi spesso su accordi di nero, grigio, bianco e bruno si richiama agli insegnamenti di Braque: e non vi dico se vi si aggiunga un cobalto o un giallo limone”, scrive Virgilio Guzzi a proposito della mostra di Afro alla Palma, Roma 1951.
Afro mantiene aperta, apertissima, la sua partita di dare e avere con il mondo delle sensazioni, che è l’innesco primo delle sue crescenti escursioni, e il riferimento ultimo: palese nel persistere della misura antropomorfa, e d’un sia pur ansioso orizzonte, nella movenza accecata della mano che segna; così come nelle naturalezze meditative. Anche se, avverte ancora Drudi, “nulla è più oggetto del raffigurare”, ma tutto è atto identico e consapevole di pittura, intento autonomo e crescenza di senso sino alla plenitudine evidente.
E’ lo stesso Afro a sintetizzare, nel catalogo della memorabile “The New Decade” al MoMA, New York 1955: “Se i miei sentimenti più nascosti, i miei ricordi, le mie opinioni, le mie intolleranze, i miei errori e i miei terrori, possono essere condensati nel tracciato di una linea o nella qualità luminosa di un tono, il misterioso flusso del mio intero essere nella pittura potrebbe essere rovesciato così che tutte le mie immagini potrebbero risalire all’origine della mia vita. Perciò non evito le parole ‘sogno’, ‘emozione’, ‘lirica’, che oggi sono rifiutate da coloro che preferiscono chiarezza intellettuale e coscienza dei mezzi adoperati nella pittura contemporanea”.
Birolli evolve, parallelamente e in solidarietà stretta con Afro, incarnando secondo Venturi “il caso tipico in cui la forza fantastica crea una visione che è una realtà artistica parallela a una naturale, e altrettanto reale” e operando piuttosto su una strutturazione per gangli dinamici e attraverso una fisiologia sensuosa, soddisfatta e piena, talora crepitante, della materia, posta in disagio da una sorta di sottrazione raggelata del dato luminoso.

Poliakoff, Composition, 1960
La questione è, per lui, declinare quel “racconto cromatico”, che già anni prima Sandro Bini aveva intuìto in lui, in una sorta di qualità spaziale intimamente risentita, nascente da una pittura “di segni e di colori silenziosi” e dal “senso di una materia senza moto e senza rappresentazione” (così i Taccuini, 1957 e 1959).
Perfetta è la pagina che Birolli detta nel 1956 per Birolli et la mer di Tristan Sauvage: “Lo spazio fisico non è rappresentabile sulla tela. Se ciò fosse, l’approssimazione risulterebbe parodistica dello spazio stesso. Esso è continuamente fenomenico ed è percettibile come fatto ondulatorio. Esso non stringe mai l’oggetto in una morsa, per farne una forma solitaria: è di volta in volta centripeto e centrifugo e porta nel proprio moto il destino stesso delle forme, la loro vitalità. Entro il raggio di questa ondulazione muovono il giorno e la notte, l’inverno e l’estate, la materia e l’idea, la realtà e il suo segno. Una qualità dilatantesi crea una nuova quantità nello spazio e questa esprime la qualità ad un livello superiore: come dieci campi di grano elevano in noi l’idea del grano. Non posso intendere diversamente da così la realtà, se non nei suoi componenti di spazio e di tempo, di quantità che esprime una sempre maggiore nozione di qualità. E noi uomini vivi, appunto per questo”. Il pulsare di qualità in quantità e viceversa, per gradi montanti, induce il Birolli ultimo, a partire dalla serie sulle Cinque Terre, a risalire all’avvertimento sorgivo, atavico, della materia, dello spazio, della forma, della luce, in una sorta di radiante captazione prelogica del loro nucleo primo, in aroma talora di simbolo, in alternativa radicale e radicata al teatro di sembianti offerto dal visibile mondano.
Quanto poco differiscano queste riflessioni da quelle di Poliakoff sulla “matière presque organique” e sul fatto che “il faut écouter la forme quand on l’a vue” perché “chaque matière amène ses propres formes”, è ben evidente. Il suo astrarre a partire da una idea di forma elementarizzata ma densa di significazioni matura nella coscienza incontrattabile dell’autonomia e dell’autosignificanza irrelate dell’opera, che non conosce alcun dover essere, che rifiuta ogni dimostratività, che non si piega agli ideologismi d’accatto: scrive John Russell che “his art is an art, in the last resort, of reserve, and privacy, and self-mastery, and silence”.
L’opera è un pensiero che si sa e si realizza nei passaggi del fare, nel pennelleggiare lento e cautelato, nello stratificarsi e decidersi dei toni e dei rapporti, in un progetto di identità che trascende la stessa sostanza del colore: “La couleur ou la tonalité de la couleur n’importent pas; seule importe la qualité de la couleur”. L’immagine è non è né forma né informe, perché per Poliakoff si tratta di questione irrilevante. Cruciale è, dell’immagine, il suo sapersi e il suo coagularsi in crescenza che si fa spalto materiato e durata visiva, definitivamente al di là d’ogni remora o clausola del somigliare. E questo sapersi è l’idea, il rapporto di ripensabilità che guida ogni passaggio, ogni bivio di scelta, ogni tramatura di quella totalità complessa e salda che si chiama opera.
Veemenze, dunque, sono quelle di Afro Birolli Poliakoff. Ma in quanto condizioni dell’espressivo, del poetico. Quanto al dipingere, potrebbero tutti sottoscrivere la raccomandazione di Poliakoff: “Contrôlez votre imagination, ne lui laissez pas libre cours, sinon elle vous menera au chaos”.
Nota. Si è fatto riferimento ai seguenti testi: L. Venturi, Otto pittori italiani, De Luca, Roma 1952; M. Ragon, Poliakoff, Le Musée de Poche, Paris 1956; T. Sauvage, Birolli et la mer, Schwarz, Milano 1956; L. Venturi, Pittori italiani d’oggi, De Luca, Roma 1958; D. Vallier, Serge Poliakoff, Cahiers d’Art, Paris 1959; R. Birolli, Taccuini (1936-1959), Einaudi, Torino 1960; J.J. Sweeney, Afro, Edizioni d’Arte Moderna, Roma 1961; J. Cassou, Poliakoff, Bodensee-Verlag, Amriswil 1963; G. Marchiori, Serge Poliakoff, La Connaissance, Paris 1976; C. Brandi, Afro, Editalia, Roma 1977; Z. Birolli (a cura di), Birolli, Feltrinelli, Milano 1978; G. Drudi, Immagini di Afro, La Cometa, Roma 1986; L. Caramel (a cura di), Afro. L’itinerario astratto. Opere 1948-1975, catalogo, Mazzotta, Milano 1989; P. Vivarelli (a cura di), Renato Birolli, catalogo, Mazzotta, Milano 1989; G. Bruno – S. Soldini (a cura di), Renato Birolli: sentire la natura, catalogo, Museo d’arte, Mendrisio 2005; C. Lange – N. Ohlsen (a cura di), Serge Poliakoff: Retrospektive, catalogo, Hirmer Verlag, Munich 2007.